di Fabrizio Casari

La polemica tra Gianfranco Fini e Bossi, esprime meglio di qualunque altro scambio d’accuse e rimbrotti quella, più generale, tra il Presidente della Camera e i berluscones. Perché lo scontro tra l’ambizioso e non più silente leader della destra italiana e i resti del fondatore della Lega, ha in sé non solo e non tanto lo scontro tra chi (anche per similitudini di gusti) difende a spada tratta “l’amico Silvio” e chi ritiene, invece, che Berlusconi sia ormai al crepuscolo. Dietro lo scontro tra il padano e Fini c’è tutta la portata della differenza di prospettive politiche del centro-destra: quando Bossi ricorda con il solito stile, garbato e sobrio, che la Lega comanda in virtù del suo numero di parlamentari e che, chi non è d’accordo con ciò, deve prepararsi al voto, conferma direttamente e indirettamente le perplessità (per usare un eufemismo) di chi ritiene che la "leghistizzazione" del Pdl sia la fine del progetto di una destra europea e di governo.

Certo, la sola esistenza di Berlusconi, si dirà, ha impedito - e, a maggior ragione oggi, impedisce - al Pdl di diventare un progetto politico compiuto. Il Pdl del predellino è solo il partito personale di un piccolo despota, ormai privo di misura, senso di sé, della decenza (quello delle istituzioni non l’ha mai intaccato) e capacità d’immaginare una sua eredità politica. Ma proprio qui sta il punto. Nel corso di questo quindicennio berlusconiano, che ha fatto strame della coscienza nazionale, delle istituzioni e della politica, tutti i leader dei partiti che sono confluiti nella cassaforte privata di Berlusconi hanno ritenuto - chi più chi meno - di doverlo appoggiare, nonostante l’imbarazzo, in attesa di riuscire a subentrargli non appena i tempi fossero maturi.

A questo proposito, sia la sua corsa al Quirinale, sia la sua uscita di scena per i motivi privati o pubblici più diversi, sembravano poter essere l’occasione per ereditare un regno senza essere re. Una sorta di lotteria, quella della successione, abilmente alimentata da Berlusconi stesso, che a corrente alternata indicava in Fini, Bossi o Tremonti, il suo “erede politico”. Quello però che ha reso tutto molto più incerto è che la scalata al Quirinale del cavaliere è definitivamente sepolta (se mai è stata in campo per qualcun altro all’infuori di Berlusconi stesso, e c’è da dubitarne seriamente), mentre la necessità di difendere il suo ruolo e i suoi affari (anche da se stesso e dai suoi comportamenti) non gli consente di mollare la presa, di cedere anche solo un metro del suo dominio assoluto sulla sua creatura.

Prova ne sia che il governo in carica ha letteralmente saccheggiato il Paese, espropriando a colpi di scimitarra le prerogative del gioco democratico in ogni campo. Un governo autoritario, un gigantesco esercizio di abuso e prepotenza come non s’era mai visto. Ciò non solo in funzione della famelicità onnivora del capo, ma anche in vista dell’autunno politico che il patriarca dovrà affrontare. Al punto in cui è arrivato, il sovrano non può perdere terreno, non può permettersi armistizi o tregue; la guerra, contro tutto e tutti, è la sua assicurazione unica per sopravvivere politicamente e crescere finanziariamente.

In pochi giorni Berlusconi ha avuto modo di attaccare la maggior parte della stampa europea, i Commissari Ue, la magistratura e il Parlamento. Confindustria e banche sono criticate in modo più soft, ma anch'esse sono sotto tiro tramite Tremonti. In questo quadro, di delfini o eredi inutile parlare. Conta la fedeltà e l’interesse politico reciproco. E qui le strade si dividono, inesorabilmente, tra Bossi e Fini. La rendita di posizione della Lega, che Berlusconi garantisce a cambio dei suoi voti, decisivi per vincere al nord, non può trovare Fini consenziente. Non solo per motivi personali, ma proprio per una cultura politica che, seppure di mala voglia, ha trovato una sintesi nel rifiuto della politica (Pdl) diverge radicalmente quando lo stesso Pdl è chiamato ad assumere un ruolo politico di prospettiva. Non è un caso che sia Tremonti l’uomo della Lega e che Fini stia sempre più stretto in una destra così impresentabile.

Bossi è l’antipolitica, i riti idioti e le furbizie politicanti; l’identità politica della Lega la si può trovare nel fondo del bicchiere di vino in osteria, mentre il suo cavalcare il malcontento e i luoghi comuni, il fascismo sociale e diffuso al nord, il suo accarezzare le frange estreme della destra nazistoide europea, appaiono più un bisogno di rafforzarsi strumentalmente, di rafforzare la sua identità, non certo di elaborare e analisi e prospettiva politica. Urla, ma pensa a sistemarsi, prova ne sia l'aver messo in secondo piano le grida contro Roma ladrona per occupare ogni strapuntino libero, ingrassandosi a spese dei conti pubblici e sfruttando la visibilità mediatica offertagli dalle tv del cavaliere nero.

Fini ha altro per la testa. La definitiva fuoriuscita dalle radici del Msi in vista della formazione di una destra europea, venata di gaullismo e peculiarità italiana. Una destra moderna, riposizionata in un’epoca dove non ci sono più bolscevichi da combattere e agrari da sostenere, ma dove il disordine internazionale e la crisi di leadership statunitense, l’incompiuto progetto europeo, le contraddizioni del modello di sviluppo, la crisi degli stati-nazioni, l’incertezza identitaria dei popoli, obbligano ad un ripensamento generale di tipo sistemico. Altro che secessione e longobardi, altro che acqua del Po e Boeghezio: Fini ha un’idea della destra come destra europea, che assume le coordinate generali del sistema politico democratico che possono essere aggiustate alle singole specificità, ma che non possono considerarsi alternative al sistema di rappresentanza previsto dalla democrazia,anche quando fosse solo formale.

In questo contesto, dunque, Fini si stacca. Prende forma ogni giorno di più il progetto che tenterà di disarcionare il cavaliere prima che, alla maniera di Caligola, deponga lo scettro sul suo cavallo. E’ ormai dato per molto probabile che Berlusconi non finirà la legislatura in modo naturale: dimissioni ed elezioni anticipate sembrano lo sbocco unico a questa crisi di assetti interni. Da molte parti – grande finanza, banche, imprenditoria, sindacati, magistratura – non se ne può più di questo governo (peraltro inutile sul piano delle riforme e del contrasto alla crisi economica) e ci s’industria per capire come mandarlo a casa prima e sostituirlo poi con un progetto d’unità nazionale. Casini, Rutelli e i suoi Teo-dem, Fini, la stessa partecipazione comprimaria del Pd è l’ipotesi che stà prendendo forma. Può far storcere (giustamente) la bocca sentir solo parlare di “unità nazionale”, ma tutto appare lecito e, se non risulta condivisibile, quanto meno appare come male minore, quello di uno sbocco che restituisca il Cavaliere ai suoi cari e l’Italia alla civiltà politica.
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