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di Rosa Ana De Santis
Da ieri mattina i ricercatori dell’Ispra (Istituto per la protezione e la ricerca ambientale) sono sul tetto della loro sede di Via Casalotti, a Roma. Hanno preso questa decisione al termine di un’assemblea indetta da Usi RdB Ricerca e non scenderanno finchè non sarà chiusa positivamente la loro vertenza. Ai 200 precari storici non confermati a giugno scorso, se ne aggiungono altri 250 a rischio, oltre all’azzeramento dei fondi della ricerca sul mare.
Salari da fame, esasperazione, azzeramento della ricerca marina sono solo le ultime ferite inferte ai cervelli migliori di questo Paese. La segreteria nazionale dell’Istituto spera ora in qualche intervento dall’alto che superi la palude del commissariamento attuale. Il silenzio dell’Esecutivo, del Ministro Sacconi e Prestigiacomo soprattutto, è ormai intollerabile.
La protesta dei ricercatori arriva, per una felice coincidenza, a poca distanza dalle parole del Presidente della Repubblica sul valore della ricerca e sull’urgenza di sanare la differenza tra le parole della politica e gli investimenti economici. E se si guarda alla storia recente dell’Ispra, si scopre che l’unico intervento concreto sulla ricerca è stato rappresentato da pesantissimi tagli, da nessuna programmazione per il futuro e soprattutto dalla perdita di ricercatori di altissimo pregio i cui studi e le cui pubblicazioni scientifiche sono spariti dai tavoli delle decisioni. Arriva la solidarietà delle forze di opposizione che vedono nei tagli dei posti di lavoro una manovra spropositata che rischia, tra l’altro, di paralizzare l’attività dell’intero Istituto e di non lasciare alcun progetto vivo per il futuro prossimo.
Si dovrebbe procedere - queste le richieste dei lavoratori mobilitati - con un tavolo interistituzionale che, congiuntamente con i sindacati, scongiuri il rischio di far saltare ancora posti di lavoro e, soprattutto, si dovrebbe formalizzare un piano organico che tuteli le competenze scientifiche e dia le linee sulle attività, anche quelle di monitoraggio ambientale. L’anomalia dell’Ispra, quella che finora hanno pagato soltanto i ricercatori, è che l’accorpamento dei tre enti di ricerca ambientale pre- esistenti (Apat- Agenzia per la Protezione dell'Ambiente e i servizi Tecnici, Icram-Istituto Centrale per la Ricerca scientifica e tecnologica Applicata al Mare, Infs- Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica), avrebbe dovuto comportare la razionalizzazione delle spese e la pianificazione delle attività attraverso, ad esempio, la formalizzazione di uno statuto sulle finalità dell’Ente.
Non solo questo non è accaduto, e sarebbe interessante capirne i motivi, ma il commissariamento oltre a congelare ogni possibile sviluppo, ha privato l’Istituto proprio delle risorse eccellenti a disposizione. Un percorso bizzarro, che inquina po’ le grandi parate istituzionali sul valore sacro della ricerca e sulla ferita dei cervelli in fuga su cui lacrima tanto il Ministro Gelmini.
Con tutti i ricercatori lasciati a casa non si consuma solo l’ennesima pagina nera per i lavoratori in tempo di crisi, ma chiudono o rischiano di chiudere progetti che servono alla vita di questo Paese. I progetti sul Mose, le bonifiche di zone portuali da ordigni bellici, la bonifica di siti inquinati, i monitoraggi ambientali di piattaforme off shore, la pesca sostenibile e l’acquacultura, solo per citare alcuni esempi.
L’opzione di eliminare gli stipendi e con essi il futuro della scienza è l’opzione più veloce con cui rimediare ai bilanci in emorragia per cattive politiche. Il conto però si paga sempre dal basso. Lo abbiamo visto pochi giorni fa con le aggressioni subite dagli operai in sciopero dell’ex- Eutelia. Lo abbiamo visto con i cinque operai Innse assediati nella gru per giorni e giorni. Lo abbiamo visto con l’immunità diffusa che ha coperto i vertici del buco nero Alitalia, mentre le buste paga dei più poveri diventavano sempre più magre o sparivano.
Si sale sul tetto per non essere più fantasmi, per essere più visibili. Ma un cambio di rotta è poco credibile. Il governo è lo stesso che ha cancellato dalla Finanziaria 80 milioni destinati all’assunzione a tempo indeterminato di 4200 ricercatori universitari. E’ tempo di crisi, i soldi servono per ddl e provvedimenti cuciti su misura per uno e il futuro, di tutti, è un lusso che non possiamo permetterci.
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di Nicola Lillo
L’insidia arriva dalla borgata di Brancaccio, alla periferia di Palermo. Qui sono nati e cresciuti Gaspare Spatuzza, Salvatore Grigoli, Pietro Romeo, tutti con decine di omicidi sulle spalle. I pm di Firenze hanno trasmesso alla procura di Palermo i verbali dei loro interrogatori. Parlano dei contatti politici con Berlusconi e Dell’Utri nella stagione delle stragi. Raccontano le confidenze dei loro capi, i fratelli Graviano, che, latitanti, si erano trasferiti da Brancaccio a Milano per, lasciano intendere, coltivare i dettagli della trattativa con la nuova forza politica, Forza Italia. Nel 2004 Filippo Graviano confidò a Spatuzza: “Se non arriva niente da dove deve arrivare, è bene che cominciamo a parlare con i magistrati”. Spatuzza lo sta facendo.
Giuseppe Graviano dal carcere esprime “rispetto” per il suo ex killer ora pentito. Si mette quindi male per il Premier. I reati che potrebbero essere contestati non sono tra quelli compresi nel nuovo ddl sul “processo breve”, o meglio “estinto”, “morto”. Questa ennesima legge “ad personam”, in caso di approvazione, sarà efficace per il processo Mills, ma non certo per le imputazioni delle indagini di mafia che potrebbero arrivare da Firenze o Caltanissetta. Nonostante tutto si stanno verificando complicazioni proprio in seno al processo Mills.
Infatti il calendario per l'approvazione del “processo breve” non si presenta roseo per via degli incastri tra il ddl e la Finanziaria. È probabile che alla Camera non ci sarà l’approvazione prima di metà di febbraio. Non si può escludere una nuova soluzione. Secondo alcune indiscrezioni Berlusconi avrebbe illustrato al Guardasigilli l'ipotesi di ricorrere a un decreto legge. Alfano avrebbe risposto esponendo i suoi dubbi. Un retroscena che la presidenza del Consiglio smentisce repentinamente con una nota. L’”utilizzatore finale” si trova in una situazione complessa. Deve guardare a più fronti. Da una parte l’accelerazione del ddl per il “processo morto”, che gli consentirebbe l’impunità per i reati per cui è attualmente indagato. E qui sarebbe fatta. Dall’altro lato i problemi legati alla mafia.
Soluzioni? Secondo indiscrezioni, non si esclude che un nuovo "lodo Alfano" in salsa costituzionale possa essere presentato in una delle due camere del Parlamento, già entro giovedì. È molto probabile che il nuovo lodo sarà avanzato da un parlamentare, perché questa volta il Governo non vorrà assumersi la responsabilità e al tempo stesso vorrà favorire la convergenza delle opposizioni, in particolare dell'Udc. Il testo si adatterà alle indicazioni della Corte Costituzionale. Gasparri, capogruppo al Senato, si mostra già scettico: "Di quelli non mi fido. Pur di bocciarlo magari diranno che l'abbiamo approvato nel giorno sbagliato o che abbiamo commesso degli errori nella punteggiatura". Il problema non è di ortografia, grammatica, meteorologia, o di giorni fasti, dedicati nell’antica Roma alle attività pubbliche, o nefasti, dove erano proibite.
Il problema (o meglio, la nostra fortuna) si chiama Costituzione della Repubblica. E' chiaro, come previsto da Costituzione, che un testo ritenuto incostituzionale dalla Consulta non possa essere riproposto sotto forma di legge ordinaria (come, nonostante le previsioni costituzionali, fu fatto proprio col lodo Alfano in seguito all’incostituzionalità del Lodo Schifani, che trattava lo stesso argomento, l’immunità delle più alte cariche dello Stato). Nella sentenza della Corte, riferita al Lodo Alfano, si legge infatti che una delle cause di incostituzionalità è proprio l’articolo 138, sul rango di legge costituzionale. La proposta, dunque, avanzata di riproporre la norma sotto forma di legge costituzionale è in linea con le dichiarazioni della Consulta. Bene.
Una legge costituzionale deve essere approvata con procedimento aggravato. Doppia lettura Camera-Senato e approvazione a maggioranze qualificate. Se il progetto è approvato a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna camera, non è consentito richiedere il referendum, e la legge viene senz’altro promulgata e pubblicata. Se invece l’approvazione è a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera è possibile, entro tre mesi richiedere un referendum costituzionale, in base all’esito del quale ci sarà la promulgazione e pubblicazione o il suo abbandono. Anche qui è plausibile, se non ovvio, che il governo segua le procedure costituzionali.
È chiaro come sia necessaria una grossa maggioranza per approvare senza referendum la legge. Berlusconi avrà bisogno anche dell’”opposizione” (cosa che non risulta così impossibile). Necessità che altrimenti porterebbe a un referendum non desiderato dal premier.Ma anche in caso di eventuale approvazione,con o senza referendum, è bene notare come la Corte Costituzionale, con la sentenza 1146 del 1988, abbia affermato la propria competenza a giudicare anche le leggi costituzionali in riferimento ai “principi supremi dell’ordinamento costituzionale”. Dunque, ritornerebbe il problema eguaglianza, sancito dall’articolo 3. Quel principio che proprio non va a giù a Berlusconi. Orwell docet: tutti sono uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri. Chi?
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di Mariavittoria Orsolato
Pesano sempre di più le rivelazioni che il pentito Gaspare Spatuzza comincia a fornire sulla famigerata trattativa tra mafia e Stato. In estate aveva rivelato nuovi particolari sulla strage di via D’Amelio e ora dice chiaro e tondo che Berlusconi e il suo amico Marcello Dell’Utri hanno avuto un ruolo chiave nella transizione politica dalla prima alla seconda Repubblica: “In un primo momento hanno fatto fare le stragi a Cosa nostra, e poi si volevano accreditare all’esterno come coloro che erano stati in grado di farle cessare”.
Parole che risalgono al 18 giugno scorso ma che arrivano ora come un fulmine a ciel sereno e per molti significano la conferma di diversi fatti incongrui e repentini, che hanno avuto luogo a cavallo degli anni 1992 e 1994. Alla fine del 1993 - è cosa nota - Berlusconi aveva debiti per circa 7.000 miliardi di lire e, sebbene continui a vaneggiare sul fatto di essersi fatto da solo, i soldi qualcuno glieli doveva aver pure prestati. Secondo “L’odore dei soldi”, il libro scandalo di Travaglio e Veltri del 2001, l’origine delle fortune finanziarie del biscione sta proprio in Sicilia e nei contatti che l’amico Marcello ha gelosamente cullato, in attesa degli inevitabili tempi bui che avrebbero coinvolto lui e l’indispensabile Silvio.
Spatuzza sembra individuare nei contatti del duo milanese i suoi capi, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano: “Ritengo di poter escludere categoricamente - spiega l’ex uomo d’onore - conoscendoli assai bene, che i Graviano si siano mossi nei confronti di Berlusconi e Dell’Utri attraverso altre persone. Non prendo in considerazione la possibilità che Graviano abbia stretto un patto politico con costoro senza averne personalmente parlato”. Dell’Utri per i due boss era un “paesano” e la sua amicizia con il popolare imprenditore brianzolo avrebbe potuto portare quei risultati che i socialisti di compagine craxiana avevano promesso ma non mantenuto: i punti erano quelli citati nel famoso papello custodito (e forse anche redatto) dal sindaco palermitano Vito Ciancimino, ovvero abolizione del 41bis, revisione delle sentenze del maxi-processo, riforma della legge sui pentiti e chiusura delle super-carceri.
Che il patto sia andato in porto non ci è dato sapere, ma è un’evidenza storica che il partito della discesa in campo di Berlusconi ebbe una gestazione fulminea: in soli 4 mesi Dell’Utri costruì Forza Italia e la portò a governare il Paese. Secondo un altro collaboratore di giustizia ritenuto attendibile - quell’Antonino Giuffrè che già lo aveva inchiodato nel processo che lo ha poi visto condannato in primo grado a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa - Marcello dell’Utri organizzò infatti il nuovo partito, in adempimento ad un patto stretto a distanza con Bernardo Provenzano.
Convinti che l’asse Milano-Palermo non fosse solo una serie di sfortunate coincidenze, i magistrati di Caltanisetta e Firenze hanno deciso di riaprire indagini già archiviate e di ripercorrere la pista - aperta fra gli altri proprio da Falcone e Borsellino - secondo cui Cosa Nostra ha cercato ed ha trovato una nuova forza politica in grado di accogliere e perpetrare le proprie istanze: nel caso in cui le accuse di Spatuzza venissero confermate, il Presidente del Consiglio verrebbe incriminato per concorso esterno in associazione mafiosa, mentre per l’amico Marcello l’accusa già confermata di connivenza con Cosa Nostra si trasformerebbe in concorso in strage aggravato da finalità mafiose e terrorismo.
Sulla credibilità del collaboratore di giustizia si è gia scatenata la polemica. Se per Dell’Utri le parole di Spatuzza sono “tutte grandi cazzate di cui, per fortuna, riesco ancora a ridere”, per Luigi Li Gotti - senatore dell'Italia dei Valori, componente della commissione antimafia nonché ex avvocato di alcuni pentiti di mafia - le affermazioni dell’ex uomo d’onore sono attendibili: “I siciliani definiscono chi inventa un tragediatore e non lo stimano. Chi racconta le cose giuste, anche se fanno male, é comunque un uomo da rispettare”, parlando in relazione al confronto che Spatuzza e il più giovane dei Graviano hanno avuto lo scorso 14 settembre, e che ha visto i due destreggiarsi a suon di buone maniere, circostanza decisamente insolita per un rendez-vous tra ex picciotti.
I tempi dei processi si attendono come al solito molto lunghi, perciò tirare le somme ora di quello che potrebbe essere il più grande vaso di Pandora mai scoperchiato nella penisola potrebbe essere (anzi è) sicuramente azzardato. Leggere però quelli che ormai sono fatti agli atti della magistratura non guasta: oggi sappiamo che già nel gennaio del 1994 Giuseppe Graviano esultava di fronte alla prospettiva di aver trovato un importante aggancio politico in Berlusconi, dicendo di essersi messo “il Paese nelle mani”. Il 18 gennaio 1994 nasce Forza Italia, le stragi finiscono e Cosa Nostra diventa stranamente silenziosa.
Sarebbe facile, alla luce delle ultime rivelazioni e ripercorrendo quanto avvenuto negli ultimi quindici anni, giungere a conclusioni che qualcuno, dalle colonne dei giornali, si affretterebbe a definire “complottosmi”, “dietrologie” o persino “fantapolitica”; ma il timore che la fantascienza superi di gran lunga la realtà si fa, ahinoi, sempre più concreto.
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di Mariavittoria Orsolato
Fino al 1994 il sistema idrico in Italia è stato gestito dagli acquedotti comunali; le bollette sono basse, e le perdite d’acqua sono alte, ma soldi da investire non ci sono. Poi arriva la Legge Galli che stabilisce come i comuni, se vogliono, possono trovare i soldi formando una società per azioni insieme a un socio privato: nella tariffa ci va dentro tutto, dalle spese per la depurazione, alle fognature, agli investimenti.
Ieri, con 320 si e 270 è passato alla Camera il famigerato decreto Ronchi, cosiddetto “dl salva infrazioni”, che oltre ad imporre le attuazioni degli obblighi comunitari, contiene anche le discusse norme che danno di fatto il via libera alla “privatizzazione” dell’acqua pubblica. Il Governo, nella sua smania di delegittimare il Parlamento e quella che dovrebbe essere la sua funzione di dibattito, ha avuto la brillante idea di blindare il decreto all’interno del meccanismo della fiducia e così, salvo imprevisti procedurali dell’ultima ora, il prossimo 24 novembre diverrà legge di Stato.
L’articolo contestato è il numero 15 e statuisce la liberalizzazione dei servizi pubblici locali: dal 1 gennaio 2011 tutte le gestioni nate da affidamenti “in house” - ovvero l'ipotesi prospettata dalla Legge Galli in cui l'appalto viene affidato a soggetti che siano parte della amministrazione stessa, quelle che volgarmente chiamiamo municipalizzate - dovranno necessariamente interrompersi per lasciare spazio a gare ad evidenza pubblica indette dalle amministrazioni locali. Le società partecipate possono mantenere contratti stipulati senza gara formale fino alla scadenza, nel caso in cui le amministrazioni cedano loro almeno il 40% del capitale. Diverso il discorso per quanto riguarda le società quotate che hanno tre anni in più per adeguarsi, a patto che abbiano almeno il 40% di quota di partecipazione pubblica al 30 giugno 2013, quota che scende al 30% al 2015.
Delle quote societarie agli italiani interessa però ben poco. Il problema sollevato da questo ennesimo sciagurato provvedimento dell’Esecutivo ruota tutto attorno al costo che l’operazione rappresenterà per le nostre tasche: se è vero che oggi il nostro Paese applica le tariffe tra le più basse d’Europa - in media 1,29 euro al metro cubo ovvero 19,7 euro al mese a famiglia - la nuova regola potrebbe portare ad aumenti che vanno dal 40% al 60%, facendo lievitare i costi in bolletta di circa 10 euro in più ogni mese, anche se allo stato attuale è impossibile quantificare quante e quali stangate dovranno subire i cittadini. Piazza Affari ieri ha reso bene l’idea: poco dopo l’annuncio dell’approvazione alla Camera, i listini delle società di gestione idrica già presenti sul mercato hanno avuto delle impennate spaventose.
Il problema della nuova norma non sta però solo nei costi. Per quanto ci ostiniamo a considerarci come uno dei paesi più sviluppati, la nostra penisola soffre ancora di realtà borderline con il terzo mondo: ad oggi, come fa notare Ettore Livini su Repubblica, sono ancora 2,5 milioni le persone che vivono senz’acqua, 9 milioni senza fogne e 20 senza depuratori. Ricorderete tutti i servizi estivi sulle popolazioni del sud messe in ginocchio dalla siccità e costrette a un approvvigionamento idrico “sudamericano” fatto di autobotti e prezzi esorbitanti.
Il 15 ottobre del 2006 Report trasmetteva l’inchiesta “L’acqua alla gola” in cui si metteva in evidenza la massima del mezzogiorno che stabilisce che dove lo stato non c’è, subentra la mafia: le immagini mostravano un quartiere di Palermo, il tristemente noto Zen, in cui gli abitanti (per quanto in maggioranza abusivi) vivevano sprovvisti dell’allaccio a luce e acqua, ed erano costretti ad auto organizzarsi in sgangherati gruppi d’acquisto per accedere a taniche d’acqua dai costi spropositati, in media 2 euro al giorno per 60 euro al mese.
Dato l’appeal speculativo di una risorsa naturale e soprattutto fondamentale come l’acqua, il timore condiviso da molti è rappresentato dalle probabili infiltrazioni della malavita organizzata nella gestione e nella distribuzione di questo bene di prima necessità. Le cronache recenti testimoniano la facilità con cui mafia, n’drangheta e camorra si siano inserite nell’ambito della privatizzazione della conduzione del ciclo dei rifiuti, ma nel decreto Ronchi nulla impedisce a sedicenti aziende private affiliate ai clan, di proporsi come candidate ai bandi che indiranno le amministrazioni locali.
Se a questo già disastrato quadro si aggiunge che la nostra rete idrica e fognaria ha uno stato di conservazione simile agli acquedotti romani - ovvero è piena di falle e necessita una continua manutenzione quantificabile in circa 2 miliardi euro l’anno - ben si capirà come il Governo trovi più semplice affibbiare questo oneroso compito ai privati. Questi ultimi però, in naturale connessione al loro statuto giuridico e ai loro ineludibili interessi, saranno ben poco attirati a migliorare una struttura che (come per i binari di Trenitalia) rimane statale al 100%: investendo sulla rete i privati migliorerebbero sì il servizio, ma sarebbero costretti a fare delle spese su qualcosa che non sarà mai loro proprietà e ne saranno perciò scoraggiati.
Non è perciò un caso il fatto che si sia inserito un così epocale cambiamento all’interno di un decreto più generale riguardante tutti i servizi pubblici: silenziosamente, un’altra fetta della nostra ormai scarna sovranità popolare se ne va e poco importa a questo Governo che la moneta di scambio sia la fonte e il sostentamento di ogni forma di vita.
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di Ilvio Pannullo
Per nostra fortuna accade anche in Italia. Accade anche qui, nella periferia degradata dell'Occidente avanzato, che lavoratori sfruttati, stufi di sentire sempre false promesse, decidano di riprendersi quella dignità che gli spetta come uomini, prima ancora che come lavoratori. Passando dalle parole ai fatti, dalla mobilitazione all'azione dimostrativa, circa 200 dei 1300 operai della Fiat di Termini Imerese, hanno infatti occupato il municipio e la stanza del sindaco Salvatore Burrafato.
I lavoratori della fabbrica siciliana, che da oggi sono di nuovo in cassa integrazione, temono che l'azienda possa smantellare il sito. A dimostrazione che la sovranità è ancora del popolo, dopo aver occupato la sede del comune, gli operai hanno anche “eletto” un proprio sindaco tra le tute blu: l'operaio ha, dunque, simbolicamente indossato la striscia tricolore. “Se le istituzioni non prendono in considerazione i nostri problemi - dicono gli occupanti - cercheremo di fare da soli”. Parole sante.
L'azione dimostrativa degli operai siciliani della Fiat è molto importante soprattutto per ragioni simboliche. Bisogna, infatti, interrogarsi se un sistema che incentiva i capitali industriali a migrare verso quei paesi dove, per ragioni contingenti, il costo della manodopera garantisce ampi margini di guadagno, sia un sistema sostenibile. Se poi si comprende come ciò che accade oggi a Termini Imerese sia, in definitiva, il risultato di dinamiche sulle quali i comuni cittadini non hanno alcun tipo di controllo, rispondere a simili interrogativi diventa ancor più pressante. Se, com'è vero, l'economia non serve ad altro che a fornire a ciascuno ciò di cui ha bisogno, la costante deindustrializzazione del nostro paese e il conseguente impennarsi del tasso di disoccupazione dovrebbero imporre un ripensamento circa il modello di sviluppo da seguire nel secolo appena iniziato, un modo per rispondere alla crisi che parta da quei fondamentali che ne sono all’origine. Il rischio dell’immobilismo è di ritrovarci, di qui a qualche anno, cittadini di un ricchissimo stato del terzo mondo.
In questi giorni, anche un altro caso sta tenendo banco grazie alle ripetute prese di posizione da parte dei lavoratori: è il caso della Eutelia. Le storie sono diverse, ma la sostanza rimane sempre la stessa. L’Eutelia, che discende dalla Bull, che discende dalla Olivetti, che è un ramo dismesso di un grande centro di eccellenza che era tutto il settore elettronico informatico di Adriano e di Roberto Olivetti, rappresenta un caso limite, paradigmatico del fallimento dell’attuale sistema economico. I dipendenti della Eutelia, infatti, hanno una buona competenza professionale e ottimi studi alle spalle. Il loro lavoro, quello di informatici e gestori di sistemi di programmazione, si basa su una lunga preparazione e su di una grande esperienza, entrambi elementi che richiedono tempi lunghi per essere acquisiti.
I loro committenti sono lo Stato, la polizia, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica, il Comune di Roma, amministrazioni regionali, privati di grandi dimensioni, oltre alle cooperative che insistono su tutto il territorio nazionale. Nonostante, dunque, il prestigio, il lavoro, i clienti, il personale specializzato di alto valore, questa azienda è in crisi. Una crisi non dovuta a motivi strettamente industriali o tecnologici, ma figlia di quella vorace e brutale voglia di profitto che sta alla base del modello mercatista a cui il nostro paese, con straordinaria fiducia, ha spalancato le braccia. Accade così che le aziende specialistiche come Eutelia vengano impunemente vendute, svuotate da proprietari sempre più opachi, coperti da prestanome, senza che si possa controllare il senso di ciò che accade, senza che nessuno voglio saperlo.
Coloro che ancora credono nei benefici della mano invisibile dovrebbero, infatti, osservando questi esempi, rendersi conto che questa altro non fa se non ripulire le tasche dei molti a vantaggio dei soliti pochi, tanto nei micro quando nei macro scenari economici. L'attualità ce lo mostra ogni giorno ed impone che urgentemente si dimostri quanto l’ultracapitalismo, sponsorizzato dalle istituzioni internazionali come l’unico mezzo per diffondere la ricchezza e la democrazia in ogni angolo del pianeta, sia in verità un sistema che, oltre a produrre sistematicamente un aumento del divario tra i ricchi e i poveri del pianeta, risulta completamente irrecuperabile.
Spesso si usa il termine “crisi sistemica” per analizzare il crack attuale, ma dovremmo piuttosto parlare di crisi strutturale. Quando, infatti, grandi realtà industriali chiudono, sfruttando il momento della crisi, per delocalizzare gli stabilimenti o, nei casi peggiori, compiere manovre speculative sulla pelle dei lavoratori, ad essere in crisi non è soltanto l'economia, ma l'intera struttura che sostiene una simile idea di sviluppo.
Dei grandi discorsi, dei grandi obiettivi restano solo le macerie: giovani senza lavoro, famiglie abbandonate a se stesse, eccellenti professionalità cestinate senza rispetto ed un sistema produttivo oramai svuotato di qualsiasi significato. In una simile situazione, tanto grande quanto tragica, il governo vegeta, sicuro che il popolo non lo incalzi. A mancare, infatti, siamo noi, ancora convinti che quanto sta accadendo fuori non ci riguardi, almeno non ancora.
Bernard Stiegler, filosofo francese e direttore del dipartimento di sviluppo culturale del Centre Georges-Pompidou, ha riassunto l’attuale stato di sviluppo delle società occidentali affermando che “il capitalismo del XX secolo ha catturato la nostra libido e l'ha sviata dagli investimenti sociali”. Il tutto finendo col resettarci tramite il feticismo dell'oggetto. Sta dunque a noi cittadini, elemento passivo di questo sistema, riappropriarci dei nostri diritti e rifiutare che simili storie avvengano e si ripetano, prima di tutto riconoscendoci in esse e sentendo le loro battaglie come le nostre. Presupposto di questo sarà la convinzione che gli uomini e le donne vengono prima del profitto. Sempre.