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di Mariavittoria Orsolato
Pesano sempre di più le rivelazioni che il pentito Gaspare Spatuzza comincia a fornire sulla famigerata trattativa tra mafia e Stato. In estate aveva rivelato nuovi particolari sulla strage di via D’Amelio e ora dice chiaro e tondo che Berlusconi e il suo amico Marcello Dell’Utri hanno avuto un ruolo chiave nella transizione politica dalla prima alla seconda Repubblica: “In un primo momento hanno fatto fare le stragi a Cosa nostra, e poi si volevano accreditare all’esterno come coloro che erano stati in grado di farle cessare”.
Parole che risalgono al 18 giugno scorso ma che arrivano ora come un fulmine a ciel sereno e per molti significano la conferma di diversi fatti incongrui e repentini, che hanno avuto luogo a cavallo degli anni 1992 e 1994. Alla fine del 1993 - è cosa nota - Berlusconi aveva debiti per circa 7.000 miliardi di lire e, sebbene continui a vaneggiare sul fatto di essersi fatto da solo, i soldi qualcuno glieli doveva aver pure prestati. Secondo “L’odore dei soldi”, il libro scandalo di Travaglio e Veltri del 2001, l’origine delle fortune finanziarie del biscione sta proprio in Sicilia e nei contatti che l’amico Marcello ha gelosamente cullato, in attesa degli inevitabili tempi bui che avrebbero coinvolto lui e l’indispensabile Silvio.
Spatuzza sembra individuare nei contatti del duo milanese i suoi capi, i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano: “Ritengo di poter escludere categoricamente - spiega l’ex uomo d’onore - conoscendoli assai bene, che i Graviano si siano mossi nei confronti di Berlusconi e Dell’Utri attraverso altre persone. Non prendo in considerazione la possibilità che Graviano abbia stretto un patto politico con costoro senza averne personalmente parlato”. Dell’Utri per i due boss era un “paesano” e la sua amicizia con il popolare imprenditore brianzolo avrebbe potuto portare quei risultati che i socialisti di compagine craxiana avevano promesso ma non mantenuto: i punti erano quelli citati nel famoso papello custodito (e forse anche redatto) dal sindaco palermitano Vito Ciancimino, ovvero abolizione del 41bis, revisione delle sentenze del maxi-processo, riforma della legge sui pentiti e chiusura delle super-carceri.
Che il patto sia andato in porto non ci è dato sapere, ma è un’evidenza storica che il partito della discesa in campo di Berlusconi ebbe una gestazione fulminea: in soli 4 mesi Dell’Utri costruì Forza Italia e la portò a governare il Paese. Secondo un altro collaboratore di giustizia ritenuto attendibile - quell’Antonino Giuffrè che già lo aveva inchiodato nel processo che lo ha poi visto condannato in primo grado a 9 anni per concorso esterno in associazione mafiosa - Marcello dell’Utri organizzò infatti il nuovo partito, in adempimento ad un patto stretto a distanza con Bernardo Provenzano.
Convinti che l’asse Milano-Palermo non fosse solo una serie di sfortunate coincidenze, i magistrati di Caltanisetta e Firenze hanno deciso di riaprire indagini già archiviate e di ripercorrere la pista - aperta fra gli altri proprio da Falcone e Borsellino - secondo cui Cosa Nostra ha cercato ed ha trovato una nuova forza politica in grado di accogliere e perpetrare le proprie istanze: nel caso in cui le accuse di Spatuzza venissero confermate, il Presidente del Consiglio verrebbe incriminato per concorso esterno in associazione mafiosa, mentre per l’amico Marcello l’accusa già confermata di connivenza con Cosa Nostra si trasformerebbe in concorso in strage aggravato da finalità mafiose e terrorismo.
Sulla credibilità del collaboratore di giustizia si è gia scatenata la polemica. Se per Dell’Utri le parole di Spatuzza sono “tutte grandi cazzate di cui, per fortuna, riesco ancora a ridere”, per Luigi Li Gotti - senatore dell'Italia dei Valori, componente della commissione antimafia nonché ex avvocato di alcuni pentiti di mafia - le affermazioni dell’ex uomo d’onore sono attendibili: “I siciliani definiscono chi inventa un tragediatore e non lo stimano. Chi racconta le cose giuste, anche se fanno male, é comunque un uomo da rispettare”, parlando in relazione al confronto che Spatuzza e il più giovane dei Graviano hanno avuto lo scorso 14 settembre, e che ha visto i due destreggiarsi a suon di buone maniere, circostanza decisamente insolita per un rendez-vous tra ex picciotti.
I tempi dei processi si attendono come al solito molto lunghi, perciò tirare le somme ora di quello che potrebbe essere il più grande vaso di Pandora mai scoperchiato nella penisola potrebbe essere (anzi è) sicuramente azzardato. Leggere però quelli che ormai sono fatti agli atti della magistratura non guasta: oggi sappiamo che già nel gennaio del 1994 Giuseppe Graviano esultava di fronte alla prospettiva di aver trovato un importante aggancio politico in Berlusconi, dicendo di essersi messo “il Paese nelle mani”. Il 18 gennaio 1994 nasce Forza Italia, le stragi finiscono e Cosa Nostra diventa stranamente silenziosa.
Sarebbe facile, alla luce delle ultime rivelazioni e ripercorrendo quanto avvenuto negli ultimi quindici anni, giungere a conclusioni che qualcuno, dalle colonne dei giornali, si affretterebbe a definire “complottosmi”, “dietrologie” o persino “fantapolitica”; ma il timore che la fantascienza superi di gran lunga la realtà si fa, ahinoi, sempre più concreto.
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di Mariavittoria Orsolato
Fino al 1994 il sistema idrico in Italia è stato gestito dagli acquedotti comunali; le bollette sono basse, e le perdite d’acqua sono alte, ma soldi da investire non ci sono. Poi arriva la Legge Galli che stabilisce come i comuni, se vogliono, possono trovare i soldi formando una società per azioni insieme a un socio privato: nella tariffa ci va dentro tutto, dalle spese per la depurazione, alle fognature, agli investimenti.
Ieri, con 320 si e 270 è passato alla Camera il famigerato decreto Ronchi, cosiddetto “dl salva infrazioni”, che oltre ad imporre le attuazioni degli obblighi comunitari, contiene anche le discusse norme che danno di fatto il via libera alla “privatizzazione” dell’acqua pubblica. Il Governo, nella sua smania di delegittimare il Parlamento e quella che dovrebbe essere la sua funzione di dibattito, ha avuto la brillante idea di blindare il decreto all’interno del meccanismo della fiducia e così, salvo imprevisti procedurali dell’ultima ora, il prossimo 24 novembre diverrà legge di Stato.
L’articolo contestato è il numero 15 e statuisce la liberalizzazione dei servizi pubblici locali: dal 1 gennaio 2011 tutte le gestioni nate da affidamenti “in house” - ovvero l'ipotesi prospettata dalla Legge Galli in cui l'appalto viene affidato a soggetti che siano parte della amministrazione stessa, quelle che volgarmente chiamiamo municipalizzate - dovranno necessariamente interrompersi per lasciare spazio a gare ad evidenza pubblica indette dalle amministrazioni locali. Le società partecipate possono mantenere contratti stipulati senza gara formale fino alla scadenza, nel caso in cui le amministrazioni cedano loro almeno il 40% del capitale. Diverso il discorso per quanto riguarda le società quotate che hanno tre anni in più per adeguarsi, a patto che abbiano almeno il 40% di quota di partecipazione pubblica al 30 giugno 2013, quota che scende al 30% al 2015.
Delle quote societarie agli italiani interessa però ben poco. Il problema sollevato da questo ennesimo sciagurato provvedimento dell’Esecutivo ruota tutto attorno al costo che l’operazione rappresenterà per le nostre tasche: se è vero che oggi il nostro Paese applica le tariffe tra le più basse d’Europa - in media 1,29 euro al metro cubo ovvero 19,7 euro al mese a famiglia - la nuova regola potrebbe portare ad aumenti che vanno dal 40% al 60%, facendo lievitare i costi in bolletta di circa 10 euro in più ogni mese, anche se allo stato attuale è impossibile quantificare quante e quali stangate dovranno subire i cittadini. Piazza Affari ieri ha reso bene l’idea: poco dopo l’annuncio dell’approvazione alla Camera, i listini delle società di gestione idrica già presenti sul mercato hanno avuto delle impennate spaventose.
Il problema della nuova norma non sta però solo nei costi. Per quanto ci ostiniamo a considerarci come uno dei paesi più sviluppati, la nostra penisola soffre ancora di realtà borderline con il terzo mondo: ad oggi, come fa notare Ettore Livini su Repubblica, sono ancora 2,5 milioni le persone che vivono senz’acqua, 9 milioni senza fogne e 20 senza depuratori. Ricorderete tutti i servizi estivi sulle popolazioni del sud messe in ginocchio dalla siccità e costrette a un approvvigionamento idrico “sudamericano” fatto di autobotti e prezzi esorbitanti.
Il 15 ottobre del 2006 Report trasmetteva l’inchiesta “L’acqua alla gola” in cui si metteva in evidenza la massima del mezzogiorno che stabilisce che dove lo stato non c’è, subentra la mafia: le immagini mostravano un quartiere di Palermo, il tristemente noto Zen, in cui gli abitanti (per quanto in maggioranza abusivi) vivevano sprovvisti dell’allaccio a luce e acqua, ed erano costretti ad auto organizzarsi in sgangherati gruppi d’acquisto per accedere a taniche d’acqua dai costi spropositati, in media 2 euro al giorno per 60 euro al mese.
Dato l’appeal speculativo di una risorsa naturale e soprattutto fondamentale come l’acqua, il timore condiviso da molti è rappresentato dalle probabili infiltrazioni della malavita organizzata nella gestione e nella distribuzione di questo bene di prima necessità. Le cronache recenti testimoniano la facilità con cui mafia, n’drangheta e camorra si siano inserite nell’ambito della privatizzazione della conduzione del ciclo dei rifiuti, ma nel decreto Ronchi nulla impedisce a sedicenti aziende private affiliate ai clan, di proporsi come candidate ai bandi che indiranno le amministrazioni locali.
Se a questo già disastrato quadro si aggiunge che la nostra rete idrica e fognaria ha uno stato di conservazione simile agli acquedotti romani - ovvero è piena di falle e necessita una continua manutenzione quantificabile in circa 2 miliardi euro l’anno - ben si capirà come il Governo trovi più semplice affibbiare questo oneroso compito ai privati. Questi ultimi però, in naturale connessione al loro statuto giuridico e ai loro ineludibili interessi, saranno ben poco attirati a migliorare una struttura che (come per i binari di Trenitalia) rimane statale al 100%: investendo sulla rete i privati migliorerebbero sì il servizio, ma sarebbero costretti a fare delle spese su qualcosa che non sarà mai loro proprietà e ne saranno perciò scoraggiati.
Non è perciò un caso il fatto che si sia inserito un così epocale cambiamento all’interno di un decreto più generale riguardante tutti i servizi pubblici: silenziosamente, un’altra fetta della nostra ormai scarna sovranità popolare se ne va e poco importa a questo Governo che la moneta di scambio sia la fonte e il sostentamento di ogni forma di vita.
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di Ilvio Pannullo
Per nostra fortuna accade anche in Italia. Accade anche qui, nella periferia degradata dell'Occidente avanzato, che lavoratori sfruttati, stufi di sentire sempre false promesse, decidano di riprendersi quella dignità che gli spetta come uomini, prima ancora che come lavoratori. Passando dalle parole ai fatti, dalla mobilitazione all'azione dimostrativa, circa 200 dei 1300 operai della Fiat di Termini Imerese, hanno infatti occupato il municipio e la stanza del sindaco Salvatore Burrafato.
I lavoratori della fabbrica siciliana, che da oggi sono di nuovo in cassa integrazione, temono che l'azienda possa smantellare il sito. A dimostrazione che la sovranità è ancora del popolo, dopo aver occupato la sede del comune, gli operai hanno anche “eletto” un proprio sindaco tra le tute blu: l'operaio ha, dunque, simbolicamente indossato la striscia tricolore. “Se le istituzioni non prendono in considerazione i nostri problemi - dicono gli occupanti - cercheremo di fare da soli”. Parole sante.
L'azione dimostrativa degli operai siciliani della Fiat è molto importante soprattutto per ragioni simboliche. Bisogna, infatti, interrogarsi se un sistema che incentiva i capitali industriali a migrare verso quei paesi dove, per ragioni contingenti, il costo della manodopera garantisce ampi margini di guadagno, sia un sistema sostenibile. Se poi si comprende come ciò che accade oggi a Termini Imerese sia, in definitiva, il risultato di dinamiche sulle quali i comuni cittadini non hanno alcun tipo di controllo, rispondere a simili interrogativi diventa ancor più pressante. Se, com'è vero, l'economia non serve ad altro che a fornire a ciascuno ciò di cui ha bisogno, la costante deindustrializzazione del nostro paese e il conseguente impennarsi del tasso di disoccupazione dovrebbero imporre un ripensamento circa il modello di sviluppo da seguire nel secolo appena iniziato, un modo per rispondere alla crisi che parta da quei fondamentali che ne sono all’origine. Il rischio dell’immobilismo è di ritrovarci, di qui a qualche anno, cittadini di un ricchissimo stato del terzo mondo.
In questi giorni, anche un altro caso sta tenendo banco grazie alle ripetute prese di posizione da parte dei lavoratori: è il caso della Eutelia. Le storie sono diverse, ma la sostanza rimane sempre la stessa. L’Eutelia, che discende dalla Bull, che discende dalla Olivetti, che è un ramo dismesso di un grande centro di eccellenza che era tutto il settore elettronico informatico di Adriano e di Roberto Olivetti, rappresenta un caso limite, paradigmatico del fallimento dell’attuale sistema economico. I dipendenti della Eutelia, infatti, hanno una buona competenza professionale e ottimi studi alle spalle. Il loro lavoro, quello di informatici e gestori di sistemi di programmazione, si basa su una lunga preparazione e su di una grande esperienza, entrambi elementi che richiedono tempi lunghi per essere acquisiti.
I loro committenti sono lo Stato, la polizia, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica, il Comune di Roma, amministrazioni regionali, privati di grandi dimensioni, oltre alle cooperative che insistono su tutto il territorio nazionale. Nonostante, dunque, il prestigio, il lavoro, i clienti, il personale specializzato di alto valore, questa azienda è in crisi. Una crisi non dovuta a motivi strettamente industriali o tecnologici, ma figlia di quella vorace e brutale voglia di profitto che sta alla base del modello mercatista a cui il nostro paese, con straordinaria fiducia, ha spalancato le braccia. Accade così che le aziende specialistiche come Eutelia vengano impunemente vendute, svuotate da proprietari sempre più opachi, coperti da prestanome, senza che si possa controllare il senso di ciò che accade, senza che nessuno voglio saperlo.
Coloro che ancora credono nei benefici della mano invisibile dovrebbero, infatti, osservando questi esempi, rendersi conto che questa altro non fa se non ripulire le tasche dei molti a vantaggio dei soliti pochi, tanto nei micro quando nei macro scenari economici. L'attualità ce lo mostra ogni giorno ed impone che urgentemente si dimostri quanto l’ultracapitalismo, sponsorizzato dalle istituzioni internazionali come l’unico mezzo per diffondere la ricchezza e la democrazia in ogni angolo del pianeta, sia in verità un sistema che, oltre a produrre sistematicamente un aumento del divario tra i ricchi e i poveri del pianeta, risulta completamente irrecuperabile.
Spesso si usa il termine “crisi sistemica” per analizzare il crack attuale, ma dovremmo piuttosto parlare di crisi strutturale. Quando, infatti, grandi realtà industriali chiudono, sfruttando il momento della crisi, per delocalizzare gli stabilimenti o, nei casi peggiori, compiere manovre speculative sulla pelle dei lavoratori, ad essere in crisi non è soltanto l'economia, ma l'intera struttura che sostiene una simile idea di sviluppo.
Dei grandi discorsi, dei grandi obiettivi restano solo le macerie: giovani senza lavoro, famiglie abbandonate a se stesse, eccellenti professionalità cestinate senza rispetto ed un sistema produttivo oramai svuotato di qualsiasi significato. In una simile situazione, tanto grande quanto tragica, il governo vegeta, sicuro che il popolo non lo incalzi. A mancare, infatti, siamo noi, ancora convinti che quanto sta accadendo fuori non ci riguardi, almeno non ancora.
Bernard Stiegler, filosofo francese e direttore del dipartimento di sviluppo culturale del Centre Georges-Pompidou, ha riassunto l’attuale stato di sviluppo delle società occidentali affermando che “il capitalismo del XX secolo ha catturato la nostra libido e l'ha sviata dagli investimenti sociali”. Il tutto finendo col resettarci tramite il feticismo dell'oggetto. Sta dunque a noi cittadini, elemento passivo di questo sistema, riappropriarci dei nostri diritti e rifiutare che simili storie avvengano e si ripetano, prima di tutto riconoscendoci in esse e sentendo le loro battaglie come le nostre. Presupposto di questo sarà la convinzione che gli uomini e le donne vengono prima del profitto. Sempre.
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di Eugenio Roscini Vitali
Il 14 novembre la Cgil è scesa in piazza per chiedere risposte concrete contro una crisi che non è ancora finita e per aprire il percorso allo sciopero generale: edili, chimici, metalmeccanici, lavoratrici e lavoratori del pubblico impiego e della scuola, pensionati e studenti, accorsi a Roma per ricordare a tutti che non si può vivere di cassa integrazione, che nel 2009 sono saltati 570 mila posti di lavoro, che 300 mila precari sono rimasti a casa e che entro il prossimo anno altro altri 500 mila persone perderanno l’impiego. Le risposte sono arrivate subito, puntuali e impeccabili, più che mai significative: “Vedere l’amico Epifani in piazza con la faccia triste a dire che il peggio deve ancora venire mi fa sorridere. Ma assieme a me sorride anche la stragrande maggioranza degli italiani che nella loro percezione vedono esattamente il contrario”. Queste le parole del ministro della Funzione Pubblica, Renato Brunetta, che intervenendo su radio Rtl ha rimarcato l’idea di quell’opposizione a prescindere che tanto piace al ministro del lavoro, Maurizio Sacconi: “'Mi sembra un piccolo mondo antico ancorato al Novecento e alle sue ideologie”.
Per Epifani la crisi avrà gli effetti più negativi sull’occupazione nelle prossime settimane e il governo non sta facendo nulla per sostenere il lavoro e i pensionati. Persone che se ne vanno a casa, mobilità, ristrutturazioni, fondi destinati ai giovani ricercatori dell'università che sfumano nel nulla: una valanga di licenziamenti che sta aumentando e che si sta sostituendo alla cassa integrazione; una crisi che lascerà il segno sui disoccupati, sui precari e sui pensionati, per i quali il peggio deve ancora arrivare.
Il segretario della Cgil parla di una Finanziaria “troppo al di sotto della portata della crisi”: no alla richiesta per più ammortizzatori sociali; no alla riduzione del carico fiscale per i lavoratori dipendenti e i pensionati; no agli 80 mila precari che dovevano essere impiegati nel mondo della ricerca e dell'università; no alle richieste per il pubblico impiego, per gli investimenti, per la revisione del patto di stabilità che avrebbe dovuto permettere ai Comuni e alle Province di investire e spendere di più.
Era marzo 2009 quando il Consiglio dei ministri varava nuove misure per i lavoratori meno tutelati che perdono il posto, un pacchetto di ammortizzatori sociali per i precari sospesi o licenziati che prevedeva il raddoppio dell’indennità una tantum ai collaboratori a progetto: dal 10% dell'ultima retribuzione annuale al 20%, con una cifra erogabile in circa 30 giorni che dovrebbe oscillare tra i 1.000 e i 2.600 euro. Una promessa che, da quanto ricorda Epifani, fino ad oggi avrebbe “premiato” solo 900 persone, una goccia d’acqua in un mare di disperazione. Confermando l’incertezza sulle prospettive di ripresa, il mese scorso la Banca d'Italia aveva infatti segnalato che, escludendo dal computo l'effetto delle iscrizioni all'anagrafe di lavoratori immigrati, nel 2009 l’occupazione ha fatto registrare una flessione di oltre mezzo milione di posti; 300 mila le unità perse tra i lavoratori comunemente definiti “precari”.
A Roma, di fronte a 50 mila persone, Epifani descrive il film di una crisi che parla di lavoro che sparisce, di aziende che chiudono e di imprenditori che vedono andare in fumo i sacrifici di una vita, una crisi che esige risposte e che chiede interventi significativi finalizzati al rilancio dell’economia e alla tutela del reddito. Nelle richieste della Cgil ci sono gli ammortizzatori sociali per i dipendenti e per i precari, gli investimenti, il patto di stabilità e la tutela per quelle migliaia di lavoratori che non prendono lo stipendio da mesi e che temono di veder saltare l’azienda da un giorno all’altro. Ma il segretario della Cgil non è l’unica Cassandra: sulla crisi si erano già espressi Confcomercio, le Piccole e Medie imprese e le banche, tutte categorie più vicine a Palazzo Chigi che a Corso Italia, sede dello storico sindacato.
Carlo Sangalli, presidente della Confederazione che rappresenta 770 mila imprese impegnate nel commercio, nel turismo e nei servizi, parla di una “crisi grave che continua a mordere l’economia e a colpire il lavoro”: ore di cassa integrazione guadagni concesse tra gennaio e settembre pari all’ammontare complessivo di quelle totalizzate nell’ultimo triennio; oltre 50 mila esercizi al dettaglio chiusi nei primi nove mesi del 2009; un bilancio tra aperture e chiusure che entro la fine dell’anno dovrebbe registrare un saldo negativo di circa 20 mila unità; un aumento esponenziale dei disoccupati che nei dodici mesi dell’anno corrente conterà 130 mila posti in meno, cifra che nel prossimo anno è destinata a sfiorare quota 180 mila.
Pur ritenendo che la crisi sia ormai alle spalle, l’ottimista amministratore delegato del Gruppo Intesa Sanpaolo, Corrado Passera, pensa che il futuro nasconda ancora non poche incertezze e che il quadro generale resti comunque drammatico. In un intervento ad un convegno organizzato presso Confindustria di Como il banchiere ha parlato di un grandissimo numero di aziende che sono a rischio di sopravvivenza: “Ipotizzando anche solo il 5%, si tratterebbe di 250mila”. Un numero inferiore rispetto a quello espresso da Giuseppe Morandini, presidente della Piccola impresa di Confindustria, che parlando al IX Forum di Mantova descrive una crisi e che colpisce almeno un terzo delle aziende di settore: un milione di imprese che vive uno stato di estrema sofferenza. “Non ci sono ordini e viviamo in una situazione di straordinaria difficoltà”. Non è chiaro quando arriverà la ripresa.
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di Nicola Lillo
Il Pdl non si è fatto attendere. Mentre si discute di “processo breve” (o meglio “morto”), di leggi e leggine pronte per il Cavaliere, la proposta di legge costituzionale per la reintroduzione dell’immunità parlamentare è stata presentata. Chi meglio di Margherita Boniver avrebbe potuto avanzare un simile “privilegio medioevale”? La “bonazza” o “biondazza” che dir si voglia, come disse a suo tempo Bossi, è la stessa che nonostante avesse criticato, nel 1993, l’abolizione dell’autorizzazione a procedere, al momento del voto sulla legge, in prima lettura votò a favore del nuovo articolo 68, mentre al momento della sua approvazione definitiva, in seconda lettura come prevede la Costituzione, si assentò. Non è chiara la linea di pensiero della Boniver, né la sua coerenza (cosa labile nella politica italiota).
L’ex craxiana, poi andreottiana e poi ancora berlusconiana, dichiara che “l'immunità, che esiste in molti ordinamenti europei, nonché al Parlamento europeo rappresentava uno dei pilastri della Costituzione italiana. Fu cancellata con un incredibile atto di vigliaccheria dall'Assemblea di Palazzo Madama nell'ottobre del 1993 in un clima di pesante intimidazione. La proposta di legge, composta di un solo articolo, ripristina un istituto volto a tutelate l'interesse della collettività, prevenendo eventuali condizionamenti del potere giudiziario sullo svolgimento della dialettica politica”.
Innanzitutto è bene far notare come storicamente i Parlamenti si siano battuti per garantire la protezione dei propri membri da azioni giudiziarie sostenute dal potere esecutivo. La ratio dell’immunità parlamentare nei moderni Stati democratici, consiste nella protezione del parlamentare da iniziative proprie di un giudice e nella tutela della composizione numerica dell’assemblea. Sono sicuramente principi virtuosi, che rispettano i principi dello stato di diritto, su tutti la tripartizione dei poteri e che devono al tempo stesso essere bilanciati con il principio, anch’esso fondamentale, di uguaglianza.
Oggi ogni parlamentare gode di una serie di immunità, secondo l’art. 68 della Costituzione. Le immunità sono di due tipi: l’insindacabilità, secondo la quale i parlamentari per come votano e per ciò che dicono “nell’esercizio delle loro funzioni” non possono essere in alcun modo chiamati a rispondere; e l’inviolabilità, per la quale i parlamentari non possono subire alcuna forma di limitazione della libertà personale, a meno che la camera di appartenenza non la autorizzi. Autorizzazione che viene dunque dagli stessi colleghi che, il più delle volte, cercano di difendere i compagni di seduta e se stessi. Ci sono eccezioni all’inviolabilità. Infatti, se il parlamentare è colto in flagranza di reato o se ha subito una condanna passata in giudicato, non deve passare al vaglio della Camera di appartenenza.
Questa è la disciplina risalente alla revisione costituzionale del 1993, votata il 12 ottobre dalla Camera con 525 sì, 5 no (tra cui Sgarbi) e un astenuto. Il Senato farà altrettanto il 27 ottobre con 224 sì, 7 astenuti e nessun no. In precedenza occorreva un’autorizzazione anche solo per procedere contro un parlamentare. Tale revisione fu frutto dello scandalo Mani Pulite, che portò alla richiesta da parte dell’opinione pubblica di una vera e propria uguaglianza, e di superamento di questo privilegio, abusato, da parte dei parlamentari. Uno strumento necessario esclusivamente a sottrarsi al corso naturale della Giustizia.
Se poi guardiamo all’Europa, ci accorgiamo di essere il solito unicum. In Germania, infatti, l’immunità è prevista per tutti i deputati. L’”unica” differenza rispetto al nostro ordinamento è che non viene mai esercitata. All’inizio di ogni legislatura è consuetudine autorizzare automaticamente eventuali indagini a carico di suoi membri. Così in Spagna, dove le Cortes non hanno mai negato, se non una sola volta in trenta anni, un’autorizzazione a procedere. In Inghilterra non c’è alcuna immunità e, per quel che riguarda il Parlamento Europeo, ciascun eurodeputato gode dell’immunità prevista nei rispettivi paesi di provenienza. Ma è raro che ci siano sviluppi giudiziari sui suoi membri (eccetto per l’Italia, come ci rammenta il buon Mastella).
È evidente come, oltre alla ormai normale abitudine di differenziarci dal resto degli stati civili europei, l’intento del Parlamento italiano sia quello di tutelare in tutto e per tutto i propri interessi. Più che una “casta”, una vera e propria “cosca”. E intanto la Boniver avanza, avanza proposte di legge costituzionali, col plauso della maggioranza e di una fetta dell’”opposizione”.