di mazzetta

L'apparizione di Piero Sansonetti a Porta a Porta durante l'ormai famigerato show di Berlusconi continua ad agitare le acque della sinistra, in particolare di quella definita, chissà perché, radicale. Non sono beghe di cortile, paradossalmente la polemica chiama in causa questioni di difficile risoluzione, tattiche come politiche. La pochezza dell'intera vicenda e la sua chiarezza rendono l'occasione ghiotta per sviluppare alcune considerazioni. Ad accusare Sansonetti di collaborazione con il nemico sono stati in diversi, da Francesco “Bifo” Berardi che ha formalizzato l'accusa insieme alle sue dimissioni pubbliche dalla collaborazione con L'Altro (il quotidiano diretto da Sansonetti), fino a Il Manifesto che si è divertito assai alle sue spalle.

Sansonetti per parte sua ha variamente spiegato le sue apparizioni a Porta a Porta e in questo modo ha reso evidente il fatto che non abbia una vera spiegazione da dare o che, in alternativa, non possa esplicitare e spendere i veri motivi che lo hanno spinto a fare lo zerbino di Berlusconi. Il problema, infatti, non è tanto nell'aver presenziato a Porta a Porta, ma che nel farlo il buon Piero si è adeguato in maniera imbarazzante agli standard di Bruno Vespa, che a tratti è addirittura parso “più giornalista” di lui. Il problema non è proprio che Sansonetti abbia legittimato lo show di Berlusconi, quello che è sembrato sfuggire ai più è che Sansonetti sia da tempo una colonna (quella di sinistra) di Porta a Porta, che non è uno spettacolo episodico, ma una delle più grandi macchine di creazione del consenso a disposizione di Berlusconi e del suo governo. Sansonetti è ormai parte di Porta a Porta.

Le presenze a Porta a Porta offrono grande visibilità, ma Sansonetti non può certo dire che si presta alla recita per una moneta del genere. Chi ha ventilato altri vantaggi probabilmente sbaglia, quella visibilità è già di per se stessa una retribuzione evidente e tangibile. Se Sansonetti frequentasse Porta a Porta in veste critica non ci sarebbe nulla da eccepire, ma la sua pretesa di rappresentare l'anticonformismo prestandosi docile al copione di Vespa è insostenibile. Che sia docile non ci sono dubbi, non si ricordano polemiche sollevate da Sansonetti a Porta a Porta e non sono pervenute domande scomode al presidente del consiglio. Di questi tempi non è facile evitare le domande sgradite a Berlusconi, ma Piero ce l'ha fatta, confermando l'opinione di chi lo conosce personalmente  per un soggetto intelligente.

Al di là dei toni che ha assunto la discussione, molto colorati e forse sopra le righe, e prima che tutto si perda nella conta dei punti-militanza e negli insulti incrociati tra chi critica il salto di Piero e chi lo difende per questioni più o meno affettive, bisogna cogliere e ribadire il vero significato della vicenda, che dimostra la grande capacità d'attrazione e di cooptazione che chi controlla l'accesso alla televisione e al potere economico e politico riesce ad esercitare anche su chi ha lunghe storie di militanza politica in campo avverso. Può entrarci anche la delusione per le sorti di una sinistra italiana da sempre minoritaria, ma il numero e il flusso di questi transfughi é troppo robusto e costante per essere solo figlio della frustrazione.

La realtà dimostra che aderire alle richieste del sistema è terribilmente vantaggioso, ma anche che per ottenere la visibilità necessaria e sufficiente per esistere nella società spettacolare, bisogna passare le forche caudine di un compromesso eticamente inaccettabile, per il quale bisogna inventarsi diversi e recitare una parte. Capita nei reality show, dove aspiranti allo spettacolo vengono diretti da un regista e capita anche per tutti gli altri show televisivi, dove i protagonisti sono sempre selezionati e diretti in modo funzionale alla storia che si vuole raccontare e al messaggio che si cerca di trasmettere. Stile, funzione e funzionamento di Porta e Porta sono noti da tempo: ovvio che imbarchi solo intelligenti consenzienti o vittime sacrificali che si sente capace di sbranare. Sansonetti non lo sbrana, non lo morde nemmeno: perché?

Lasciando Sansonetti ai suoi problemi, resta l'evidenza dell'incapacità della sinistra di “trattenere” il proprio personale politico e gran parte della sua classe parlante, incapacità che si spiega facilmente senza bisogno di filosofare: l'attivismo politico e culturale sui temi della sinistra storica, anche di quella più light, rende molto meno che prestarsi alla grande affabulazione. A volte capita anche che le persone intelligenti alla lunga siano tentate di mettere fine al sacrificio o addirittura di monetizzare professionalità e capacità messe insieme con tanti sacrifici e attraverso tante esperienze e battaglie per una notorietà fino ad ora sconosciuta.

Solo l'etica resterebbe ad opporsi a questo genere di seduzioni, ma per l'etica sono tempi duri e non esiste più traccia di stigma sociale che si dimostri capace di frenare i comportamenti che ne fanno stracci. Anche il frazionismo di sinistra contribuisce a facilitare questo genere di defezioni, perché è difficile provare lealtà verso persone con le quali ci si guarda in cagnesco da anni e con le quali si sono fatte fiere battaglie sul sesso degli angeli. Non c'è un gruppo omogeneo al quale dover rendere conto delle proprie azioni, conformismo e anticonformismo sono parole dal significato intercambiabile e variabile nel tempo e nello spazio. Lo spazio semantico è stravolto e dominato dal rumore prodotto dalla tromba televisiva, che suona sempre la stessa musica a tutte le ore e i richiami a valori comuni e diversi evaporano insieme all'integrità delle persone.

Il problema posto da questa transumanza rimane rilevante e di difficile soluzione, un esodo a senso unico, ad ulteriore dimostrazione del potere d'attrazione del sistema dello spettacolo che determina  un'emorragia costante di forze ed energie, che si spendono anche in questo genere di polemiche, con grande spasso di chi questi problemi non se li è mai posti. Il problema non è quindi Sansonetti, ma l'impetuoso torrente che si è portato via Sansonetti e tutti gli altri dopo la caduta delle barriere etiche e ideali che un tempo costituivano il pur flessibile perimetro ideale della sinistra italiana.

di Mariavittoria Orsolato

Oltre ad aver fatto cinque milioni e mezzo di ascolti con il 22,87% di share, la puntata di giovedì di Annozero ha regalato a quella Rai che tanto disprezza il suo conduttore e i suoi ospiti fissi, l’ennesima secchiata di acqua gelata. Intitolata “Farabutti”, in chiaro riferimento al gentile appellativo con cui Berlusconi ha additato i giornalisti che non gli fanno da lacché, il tema della puntata verteva sulla libertà di stampa e sull’ormai trito tema della scarsa moralità del premier. C’era Vauro, Franceschini e Bocchino, c’erano la De Gregorio e il solito odioso “mr. No” Belpietro, c’era un Mentana che non si capiva se c’era o ci faceva e c’era quel Marco Travaglio la cui testa fa gola a più di un dirigente Rai.

Le polemiche sulla nuova serie della trasmissione, infatti, sono iniziate ancor prima che questa incominciasse: prima il problema dai contratti non firmati a meno di due settimane dalla messa in onda, poi il diktat sottaciuto che voleva Travaglio fuori dalla trasmissione e la querelle tra Masi e Santoro. Ma infine la puntata è andata in onda, con l’editoriale di un Travaglio senza contraddittorio e con un Santoro forzato a richiamare il passato prossimo dei nostri governanti e a spiegare il perché di tanto allarmismo sul rischio censura. Insomma il compagno Michele - come lo dileggiano gli scrivani del premier - è riuscito a scampare agli anatemi di Palazzo Chigi e di Viale Mazzzini, trasmettendo all’Italia la solita gustosa informazione che contraddistingue lui e i suoi collaboratori.

“Tanto rumore per nulla?” chiede Santoro. Buona parte dell’opinione pubblica pensa di sì, ma il fatto che Annozero sia andato in onda giovedì, non è certo un buon motivo per chetare gli animi e assuefarsi nuovamente nella convinzione che in Italia vada tutto bene. Se polemica infatti c’è stata, è perché ci sono i precedenti e Santoro e la sua trasmissione sono proprio uno di questi. Ricorderete tutti l’editto di Sofia del 18 aprile 2002 e ricorderete anche come la stagione seguente, i tre soggetti citati nell’ukase bulgaro fossero divenuti dei desaparecidos dell’etere. Se perciò ci si è sbracciati al punto da indire una manifestazione ufficiale della FNSI il prossimo 3 ottobre, è perché alla stampa che si chiama libera - e anche a quella di parte (opposta) - questa insinuante arroganza dei berluscones su come si deve informare, fa paura.

Tornando alla puntata di giovedì, la triste conferma di quanto stia avvenendo negli ingranaggi giornalistici del paese la dà inaspettatamente Filippo Facci, nemesi di Travaglio dei giornali della famiglia Berlusconi: intervistato da Corrado Formigli, il giornalista di Libero ha ammesso di temere per la sua libertà di espressione e, sebbene la sua sia una dichiarazione in grado di creare profonde crisi di identità, se lo dice lui c’è davvero da crederci.

Quello che però giovedì Annozero cercava di dirci, l’ha espresso con la maestria che lo contraddistinse Giorgio Bocca: “Può darsi che questo tentativo di uccidere la democrazia fallisca, come che abbia successo. Berlusconi è stato molto intelligente a creare un sistema, un regime tollerante, che coltiva tutti i vizi del paese: vi piace rubare? Rubate. Volete la ricchezza? Sposate un miliardario. Quando sento dire che gli italiani sono intelligenti, sono bravi… Ma non è vero! Gli italiani sono poco intelligenti perché stanno distruggendo questo bene che è la libertà e la democrazia”.

Ecco, se gli italiani sono poco intelligenti o se vanno dritti verso la perdita delle proprie libertà intellettuali è perché ormai riescono a vedere il dibattito politico come un’eterna lotta tra il bene e il male, come un continuo rimpallarsi di colpe e di mancanze, e non importa che questo sentimento dualistico sia radicato nel nostrano dna sin dalla notte dei tempi. La colpa di questa sindrome da dicotomia è in buona parte ascrivibile al fatto che la maggioranza dei nostri connazionali s’informa (quando lo fa) solo ed esclusivamente grazie al tubo catodico, si nutre di panini mimouniani e si abbevera alle sorgenti di professionisti conclamati come Fede e Minzolini. In questo desolante panorama, trasmissioni come Che tempo che fa e Parla con me, giornalisti come la Gabanelli e - seppur con tutti i suoi difetti - Santoro sono necessari per equilibrare il mostruoso conflitto d’interesse che attanaglia l’inconsapevole pubblico catodico.

La Rai nei fatti non ha toccato i palinsesti, tutti i programmi sopraccitati andranno comunque in onda durante la stagione autunnale. Ma se l’ha fatto, la ragione non é da cercare in un improvviso attaccamento ai bilanci dell’azienda, perché è pur sempre vero che quei format attirano pubblicità come il miele le mosche. Non è nemmeno causa momentanea debolezza di quei Masi e di quei Liofredi che si impettiscono davanti Padron’ Silvio. La vera ragione è che ormai hanno capito che alzando polvere, si alza solo attenzione, e soprattutto hanno realizzato che l’attenzione che viene data non smuove di un millimetro le convinzioni che gli italiani si sono fatti riguardo a quella che ci ostiniamo a chiamare politica. Lasciare quei programmi è semplicemente fare una cortesia a quei quattro gatti che ancora credono che la parola libertà abbia qualcosa a che fare con il pensiero.

 

di Rosa Ana De Santis

Ebbene sì, le parole dense di allarmismo del Presidente del gruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri, hanno trovato considerazione. C’è l’ok di Palazzo Madama all’indagine sulla pillola RU486 e sull’aborto chimico. Obiettivo dei lavori dovrà essere quello di cogliere eventuali incongruenze o ingiustificate derive applicative del farmaco rispetto alle linee della 194. Nella sostanza di questa indagine, che non può aggiungere alcun dato realmente tecnico alla decisione dell’AIFA, ci sono due silenti tentazioni politiche che vale la pena valorizzare.

La prima, come sintetizza la senatrice radicale Donatella Poretti, è quella di rivedere l’intero corpo della legge 194 scegliendo un metodo di revisione progressiva che non sia frontale e di forte impatto sulla cittadinanza. Si parte dal dato tecnico, quello che sembra più specifico, quello che sembra poter compromettere la salute delle donne, proprio per insidiare un capitale di libertà e un diritto soggettivo che grazie a quella legge é diventato garantito per tutte le donne in assoluta autonomia.

La seconda aspirazione, un tipico distillato di paternalismo nostrano, è quella di riconoscere alla politica la legittimità di un’invasione totalizzante in ogni campo. A quale titolo il Senato all’unanimità, tranne qualche voce dissonante dell’opposizione, mette in moto un’indagine conoscitiva su questo farmaco? L’indagine sulla RU486 parte - solo ed esclusivamente - per le ragioni etico-morali che l’utilizzo di questa pillola rimanda e pone. Se il criterio fosse davvero quello invocato della salute, allora dovremmo assistere – inverosimilmente - a fiumi di indagini sui tantissimi farmaci, che con facilità ben più insidiosa della RU486, entrano nelle nostre case ogni giorno. La possibilità di un aborto restituito con più fluidità a ogni singola donna, senza la mediazione dell’atto chirurgico, è il vero mostro da governare.

La relazione durerà 60 giorni e avrà come relatori l’on. Calabrò, già autore del lodo liberticida sul testamento biologico, e l’on. Dorina Bianchi, portavoce di una corrente fuoriuscita per distrazione dall’UDC e depositata sul Partito Democratico. Il Presidente della commissione Sanita' del Senato, Antonio Tomassini, ha già annunciato le prime 3 audizioni tra il Ministro Sacconi e i vertici AIFA. La sensazione che ben esprime la Finocchiaro, definendo “pretestuoso” il motivo addotto per iniziare questo percorso di approfondimento, é che si lavorerà per impedire l’utilizzo della RU486 esattamente come il tavolo trasversale di studio sul testamento biologico è servito a rafforzare la legittimità del testo Calabrò e il divieto d’interrompere alimentazione e idratazione forzata.

L’ipocrisia procedurale è la stessa. I dati tecnici li ha forniti l’AIFA e nulla di scientificamente rilevante potrà aggiungere la politica, se non commenti e allarmi sul piano etico che serviranno strumentalmente ad alimentare dibattiti e polemiche, timori e pericoli con il rischio abituale di rimanere impaludati. Non ci sorprende il siparietto e non è solo per colpa dell’inquinamento del cattolicesimo romano. Il vizio di forma della vita politica italiana è quello che appiattisce e nutre la funzione legislativa dello Stato a totale svantaggio dell’autonomia personale, appiattendo la legge sul senso del buono, più che sul valore del giusto. Il Parlamento tramortito dalla seduzione del pater familias. Una serie di trappole concettuali che hanno finito per svuotare ogni cittadino della propria autonomia decisionale e nel tempo di ogni maturità morale.
Gasparri vince - per ora - con il suo proclama sulla difesa della vita. E Il Parlamento lavora per un Paese di cittadini bambini. Presi per mano, guidati e ammaestrati con l’alibi indotto di rimanere privi di responsabilità morale. Nessuna paura, ci pensa papà.

di Giovanni Gnazzi

Ha fatto un misero 13% di share, il soliloquio del cavaliere a “Porta a Porta”, quasi come un programmino qualunque. Il risultato é stato il seguente: 3.219.000 telespettatori, con uno share del 13,47%: uno dei più bassi registrati da “Porta a Porta”. Una figuraccia a reti unificate. Tolto Ballarò, tolto Matrix, all’87% della popolazione telecomandata altro non è rimasto che vedere Gabriel Garko in “Onore e rispetto” o la Champions League di calcio con Juventus e Milan. Insomma, il peana a reti unificate, il microfono unico per la telecamera unica, dal salotto della trasmissione unica, è stata l’ennesima mazzata per il comandante in nano dell’etere. Un bilancio simile a quello di un bollettino di regime. Arrivato in studio per pavoneggiarsi con il giornalista-spalla, l’emulo italiano di Ceausescu si è lanciato a testa bassa contro tutto e tutti, ma non l’ha visto quasi nessuno.

La trasmissione unica era stata presentata come una necessaria opera del servizio pubblico in omaggio all’Abruzzo martoriato dal terremoto. Invece è stata un comizio di Berlusconi a suo uso e consumo. Giocava in casa, perché nello studio del conduttore unico si celebrava l’operetta: i prefabbricati della Croce Rossa diventavano, come d’incanto, le case del governo ai terremotati. L’opposizione assente, le voci abruzzesi silenziate, il sultano sciorinava sondaggi e minacce, con il sodale intento a costruire bronci studiati in favore di telecamere per tentare di dare una parvenza di serietà alla pagliacciata.

Di domande degne di tal nome nemmeno a parlarne: un conduttore unico non può inventarsi giornalista. Prova ne sia che quando l’utilizzatore finale (Ghedini docet) ha dato dei “farabutti” ai giornalisti del servizio pubblico, il conduttore prediletto si è ben guardato dall’alzare il neo e rispondere alle contumelie indirizzate ai colleghi e alla stessa azienda che gli paga il sontuoso stipendio. Comprensibile: un conto é l'editore, un altro conto é "l'editore di riferimento".

E, visto che si parla spesso di conti pubblici, andrebbe sottolineato - come fa Rizzo Nervo, consigliere di amministrazione Rai memore dell’obbligo del suo mandato - che é costata "poco meno di 500 mila euro"di mancati spot pubblicitari la puntata speciale di 'Porta a Porta' che ieri sera ospitava il presidente del Consiglio. I 500.000 Euro di perdita sono dovuti alla disdetta dei contratti da parte d’importanti inserzionisti che avevano acquistato gli spot all'interno di “Tutti pazzi per la tele” e di “Ballarò” e che non hanno accettato il cambio con “Porta a Porta” e il film 'La caduta'?".

"Chi si assume la responsabilità?", chiede Nino Rizzo Nervo, che chiama in causa il direttore generale Mauro Masi, ponendogli alcuni interrogativi e chiedendo di fare "chiarezza". Ottimista, Rizzo Nervo: se Masi dovesse chiarire le sue scelte dovrebbe cominciare a spiegare la differenza che passa tra un direttore generale del servizio pubblico con il suo lavoro. Impossibile. Non sarebbe male, invece, che la Corte dei Conti mettesse gli occhi su questo sperpero di denaro pubblico da parte di dirigenti pubblici, Masi in testa.

Quando scese in campo, il cavaliere, sosteneva che non avrebbe avuto bisogno di occupare gli spazi pubblici, dal momento che possedeva quelli privati. Anzi, senza tema di ridicolo, affermava che a fronte di un Emilio Fede che sì, davvero mostrava un affetto smisurato per lui, le altre emittenti del gruppo erano imbottite di sinistrosi e che la libertà d’espressione era più tutelata nelle sue Tv che in quella pubblica.

Il seguito della novella ha poi rimesso al suo posto le balle: la Tv pubblica non c’è più, essendo passata - armi, bagagli, consiglieri e direttori di maggioranza - a quella di re Silvio; quella privata, epurato anche l’ultimo dissenziente (ma moderatamente, molto moderatamente dissenziente) ha definitivamente fatto attraccare in rada tutta la flotta, allineata e disciplinata, fatta di vassalli, valvassini e valvassori. Peccato per lui - e buon per noi - che la flotta, ormai, ha cominciato ad imbarcare acqua. C'é il rischio che non riesca a stare a galla per molto.

di Fabrizio Casari

La polemica tra Gianfranco Fini e Bossi, esprime meglio di qualunque altro scambio d’accuse e rimbrotti quella, più generale, tra il Presidente della Camera e i berluscones. Perché lo scontro tra l’ambizioso e non più silente leader della destra italiana e i resti del fondatore della Lega, ha in sé non solo e non tanto lo scontro tra chi (anche per similitudini di gusti) difende a spada tratta “l’amico Silvio” e chi ritiene, invece, che Berlusconi sia ormai al crepuscolo. Dietro lo scontro tra il padano e Fini c’è tutta la portata della differenza di prospettive politiche del centro-destra: quando Bossi ricorda con il solito stile, garbato e sobrio, che la Lega comanda in virtù del suo numero di parlamentari e che, chi non è d’accordo con ciò, deve prepararsi al voto, conferma direttamente e indirettamente le perplessità (per usare un eufemismo) di chi ritiene che la "leghistizzazione" del Pdl sia la fine del progetto di una destra europea e di governo.

Certo, la sola esistenza di Berlusconi, si dirà, ha impedito - e, a maggior ragione oggi, impedisce - al Pdl di diventare un progetto politico compiuto. Il Pdl del predellino è solo il partito personale di un piccolo despota, ormai privo di misura, senso di sé, della decenza (quello delle istituzioni non l’ha mai intaccato) e capacità d’immaginare una sua eredità politica. Ma proprio qui sta il punto. Nel corso di questo quindicennio berlusconiano, che ha fatto strame della coscienza nazionale, delle istituzioni e della politica, tutti i leader dei partiti che sono confluiti nella cassaforte privata di Berlusconi hanno ritenuto - chi più chi meno - di doverlo appoggiare, nonostante l’imbarazzo, in attesa di riuscire a subentrargli non appena i tempi fossero maturi.

A questo proposito, sia la sua corsa al Quirinale, sia la sua uscita di scena per i motivi privati o pubblici più diversi, sembravano poter essere l’occasione per ereditare un regno senza essere re. Una sorta di lotteria, quella della successione, abilmente alimentata da Berlusconi stesso, che a corrente alternata indicava in Fini, Bossi o Tremonti, il suo “erede politico”. Quello però che ha reso tutto molto più incerto è che la scalata al Quirinale del cavaliere è definitivamente sepolta (se mai è stata in campo per qualcun altro all’infuori di Berlusconi stesso, e c’è da dubitarne seriamente), mentre la necessità di difendere il suo ruolo e i suoi affari (anche da se stesso e dai suoi comportamenti) non gli consente di mollare la presa, di cedere anche solo un metro del suo dominio assoluto sulla sua creatura.

Prova ne sia che il governo in carica ha letteralmente saccheggiato il Paese, espropriando a colpi di scimitarra le prerogative del gioco democratico in ogni campo. Un governo autoritario, un gigantesco esercizio di abuso e prepotenza come non s’era mai visto. Ciò non solo in funzione della famelicità onnivora del capo, ma anche in vista dell’autunno politico che il patriarca dovrà affrontare. Al punto in cui è arrivato, il sovrano non può perdere terreno, non può permettersi armistizi o tregue; la guerra, contro tutto e tutti, è la sua assicurazione unica per sopravvivere politicamente e crescere finanziariamente.

In pochi giorni Berlusconi ha avuto modo di attaccare la maggior parte della stampa europea, i Commissari Ue, la magistratura e il Parlamento. Confindustria e banche sono criticate in modo più soft, ma anch'esse sono sotto tiro tramite Tremonti. In questo quadro, di delfini o eredi inutile parlare. Conta la fedeltà e l’interesse politico reciproco. E qui le strade si dividono, inesorabilmente, tra Bossi e Fini. La rendita di posizione della Lega, che Berlusconi garantisce a cambio dei suoi voti, decisivi per vincere al nord, non può trovare Fini consenziente. Non solo per motivi personali, ma proprio per una cultura politica che, seppure di mala voglia, ha trovato una sintesi nel rifiuto della politica (Pdl) diverge radicalmente quando lo stesso Pdl è chiamato ad assumere un ruolo politico di prospettiva. Non è un caso che sia Tremonti l’uomo della Lega e che Fini stia sempre più stretto in una destra così impresentabile.

Bossi è l’antipolitica, i riti idioti e le furbizie politicanti; l’identità politica della Lega la si può trovare nel fondo del bicchiere di vino in osteria, mentre il suo cavalcare il malcontento e i luoghi comuni, il fascismo sociale e diffuso al nord, il suo accarezzare le frange estreme della destra nazistoide europea, appaiono più un bisogno di rafforzarsi strumentalmente, di rafforzare la sua identità, non certo di elaborare e analisi e prospettiva politica. Urla, ma pensa a sistemarsi, prova ne sia l'aver messo in secondo piano le grida contro Roma ladrona per occupare ogni strapuntino libero, ingrassandosi a spese dei conti pubblici e sfruttando la visibilità mediatica offertagli dalle tv del cavaliere nero.

Fini ha altro per la testa. La definitiva fuoriuscita dalle radici del Msi in vista della formazione di una destra europea, venata di gaullismo e peculiarità italiana. Una destra moderna, riposizionata in un’epoca dove non ci sono più bolscevichi da combattere e agrari da sostenere, ma dove il disordine internazionale e la crisi di leadership statunitense, l’incompiuto progetto europeo, le contraddizioni del modello di sviluppo, la crisi degli stati-nazioni, l’incertezza identitaria dei popoli, obbligano ad un ripensamento generale di tipo sistemico. Altro che secessione e longobardi, altro che acqua del Po e Boeghezio: Fini ha un’idea della destra come destra europea, che assume le coordinate generali del sistema politico democratico che possono essere aggiustate alle singole specificità, ma che non possono considerarsi alternative al sistema di rappresentanza previsto dalla democrazia,anche quando fosse solo formale.

In questo contesto, dunque, Fini si stacca. Prende forma ogni giorno di più il progetto che tenterà di disarcionare il cavaliere prima che, alla maniera di Caligola, deponga lo scettro sul suo cavallo. E’ ormai dato per molto probabile che Berlusconi non finirà la legislatura in modo naturale: dimissioni ed elezioni anticipate sembrano lo sbocco unico a questa crisi di assetti interni. Da molte parti – grande finanza, banche, imprenditoria, sindacati, magistratura – non se ne può più di questo governo (peraltro inutile sul piano delle riforme e del contrasto alla crisi economica) e ci s’industria per capire come mandarlo a casa prima e sostituirlo poi con un progetto d’unità nazionale. Casini, Rutelli e i suoi Teo-dem, Fini, la stessa partecipazione comprimaria del Pd è l’ipotesi che stà prendendo forma. Può far storcere (giustamente) la bocca sentir solo parlare di “unità nazionale”, ma tutto appare lecito e, se non risulta condivisibile, quanto meno appare come male minore, quello di uno sbocco che restituisca il Cavaliere ai suoi cari e l’Italia alla civiltà politica.

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