di Cinzia Frassi

"Rifletteremo assieme per individuare regole e procedure per evitare che sui siti si possano inserire inni d’istigazione all'odio e alla violenza che non fanno bene al Paese e a volte configurano addirittura estremi di reato". Sono queste le parole del presidente del Senato, Renato Schifani, che canta vittoria per l’imminente incontro con il responsabile europeo del social network Richard Allan. A seguito delle polemiche attorno alla rete, Schifani, alzando i toni, aveva etichettato Facebook ed i gruppi che ospita, paragonandolo ai gruppi extraparlamentari degli anni '70.

Alle volte configurano addirittura estremi di reato? In questa espressione, ritagliata dalla recente dichiarazione del presidente del Senato, si concentra la questione “Facebook” cavalcata dal governo Berlusconi e segna il peso di una speculazione strisciante. Infatti, nonostante l'attacco frontale al social network e le accuse di prestarsi a dare spazio ad ogni tipo di contributo, non si è detto tutto e nemmeno sono state espresse le vere finalità di tanta polemica.

Fatto sta che ormai siamo quasi al fatto compiuto. Domani è fissato un incontro tra il big dei social network e il governo Berlusconi. Richard Allan parteciperà in conference call alla riunione con il Viminale, alla presenza dei rappresentanti delle società che forniscono servizi di rete, le associazioni di categoria e i delegati del social network. Il presupposto per una collaborazione proficua, diciamo così, sta nelle parole di Allan, che fa sapere di essere disponibile "a discutere ulteriormente con il Presidente Schifani o con chiunque altro del suo staff e di conoscere il suo punto di vista su come noi possiamo agire ancora più efficacemente in futuro". Il presidente del Senato considera la proposta “un passo estremamente costruttivo”. Sarà l’occasione, aggiunge, per riflettere assieme per “individuare delle regole, delle procedure”. Regole e procedure. Ma quali?

Dopo l'aggressione a Silvio Berlusconi, in quel di Milano, il ministro dell’Interno Maroni aveva caldamente reagito, dichiarando l'intenzione di introdurre con la massima urgenza una serie di interventi straordinari finalizzati a controllare il web e le manifestazioni di piazza proponendo un ddl ad hoc, poi nemmeno messo all'ordine del giorno ma in fase di approfondimento da parte del governo. Questo perché dopo l’aggressione un nutrito gruppo di “amici” si era unito virtualmente al gruppo Facebook di Massimo Tartaglia, inneggiando violentemente contro il Presidente del Consiglio. A dargli man forte il rilancio immediato per bocca di Renato Schifani, che nei giorni scorsi ha perfino chiamato in causa la stagione degli anni di piombo riferendosi alle possibilità di aggregazione e pericolo offerte dal social network.

Tutto ciò contribuisce a dare all’opinione pubblica l'impressione che la rete sia uno spazio incontrollato con i caratteri dell'extraterritorialità, dove vige una sorta d’immunità generalizzata. Eppure non c’è luogo - seppur s’insista a dire virtuale - più sotto controllo della rete: pensiamo al traffico internet, alla tracciabilità di Ip e Dns, alle mail che transitano sui server e che vengono sistematicamente controllate o lo possono essere in ogni momento con il lasciapassare dei motivi di controllo anti terrorismo, per esempio. Pensiamo che se circolo senza cellulare per strada, per una città, per il mondo, nessuno sa dove sono, mentre con le tracce che lascia un pc c’è poco da fare, non ci si può nascondere. Altro che virtuale. Questa sensazione d’immunità richiederebbe una risposta pesante, al limite della censura vigente, in vari paesi assolutamente lontani dalla democrazia, come Iran, Cina, Arabia Saudita.

Va sottolineato come invece le condotte che fuori dalla rete configurano ipotesi di reato, sono le stesse che è possibile perseguire in rete. Lo sanno bene coloro che pubblicano contenuti sul web a vario titolo, come ad esempio blogger, amministratori di forum, gestori di siti internet. L'indirizzo IP è una traccia indelebile di ciascun utente, per non parlare della tracciabilità garantita - o garantibile - dai provider che rende possibile qualsiasi investigazione. Pensiamo al filtring cui già sono sottoposti alcuni siti come nel caso di gioco d’azzardo o di pedofilia.

Il tentativo messo in atto, però - e a quanto pare andato a segno date le dichiarazioni di Richard Allan - è quello di poter intervenire laddove non vi siano ipotesi concrete di reato, diffamazione o istigazione a delinquere; per esempio per chiudere un gruppo e soprattutto avere modo di controllare chi a quel gruppo si è associato. Un elenco di nomi, in sostanza. Lì si vuole arrivare per quanto si voglia invece costruire i presupposti che giustifichino interventi molto più pesanti ma soprattutto arbitrari.

Giusto per fare un esempio di ciò che già accade, proprio alcuni giorni fa, proprio su Facebook, è stato oscurato un gruppo che insultava con disprezzo i bambini maltrattati nell’asilo “Cip e Ciop” di Pistoia, dove di recente sono state arrestate in flagranza di reato due educatrici accusate, anche da filmati, di maltrattamenti e percosse ai danni dei piccoli. In questo caso, a seguito della segnalazione del presidente dell’Osservatorio sui Diritti dei Minori, Antonio Marziale, consulente della Commissione parlamentare per l’Infanzia, il gruppo è stato oscurato dalla Polizia Postale e delle Comunicazioni. Chiuso. Finito. Accade ogni giorno. Giorni fa, in risposta alle dichiarazioni di Schifani, Debbie Frost, portavoce del social network, aveva dichiarato a La Repubblica che “quando le opinioni espresse sul nostro sito si trasformano in dichiarazioni di odio o minacce contro le persone, rimuoviamo i contenuti e possiamo anche chiudere gli account dei responsabili”.

Perfetto. Allora dove sta il problema? Il problema risiede nelle finalità reali, che si tenta di giustificare demonizzando e criminalizzando a priori la rete, o dando di essa proprio questa immagine in modo da poter introdurre una normativa che possa sistematicamente violare la privacy di ogni utente e servire da pozzo di dati personali anche per finalità politiche. Del resto Facebook non ha finalità puramente “sociali”: detiene i dati personali di 350 milioni di utenti e con questi numeri non può essere considerato semplicemente uno spazio per incontrare amici.

Nelle intenzioni del governo pare non ci sia solo la questione legata all'oscuramento di gruppi di Facebook che contengano dichiarazioni ai limiti della legalità, bensì l'introduzione di norme che conferiscono la possibilità di un monitoraggio della rete costante e di perseguibilità degli utenti: in sostanza il social network si sta impegnando con il governo italiano a comunicare, su richiesta, i dati personali degli utenti quando partecipino ad un gruppo giudicato sovversivo, pericoloso, sedizioso. Siamo all'introduzione di reati di opinione. Ciò che si vuole introdurre ha più a che fare quindi con la volontà di arrivare a “monitorare” gli utenti consentendo l'identificazione degli stessi quando facciano parte di gruppi “pericolosi”. Il sapore è quello delle schedature. Quali saranno i gruppi considerati pericolosi e chi stabilirà ciò che si potrà dire?

di Nicola Lillo

Nella fase dell’”amore che vince sull’odio” sembrano (quasi) tutti più buoni, più comprensivi, più predisposti all’“ascolto”. “In questi giorni - afferma Berlusconi - ho sentito vicini anche alcuni leader politici dell'opposizione. Se cambiano i toni, il mio dolore non è inutile”. Sembrano concilianti i toni del premier, vicini al martirio. Il Cavaliere lancia un messaggio alla minoranza: “Se gli esponenti dell'opposizione sapranno davvero prendere le distanze in modo onesto dai pochi fomentatori di violenza, allora potrà finalmente aprirsi una nuova stagione di dialogo”. Nel caso in cui ciò non si dovesse verificare, il Presidente del Consiglio rilancia la volontà di “andare avanti sulla strada delle riforme che gli italiani ci chiedono”. Anche a colpi di maggioranza.

Ma non c’è da preoccuparsi. All’amo lanciato dal Pdl ha subito abboccato il Pd. Sul Corriere della Sera, del 17 dicembre, si legge infatti un’intervista al sempre presente Massimo D’Alema, in cui “pontifica” sulla situazione politica attuale e sembra cogliere al balzo le iniziative di dialogo proposte dal premier. Il “leader Maximo” parla di riforme, incentrando il suo discorso su quella della giustizia. La più cara a Berlusconi. “La riforma della giustizia, per renderla migliore per tutti i cittadini, ci interessa e abbiamo le nostre proposte. Viceversa, quelle per fermare i processi a Berlusconi non sono riforme e non si può certo pretendere che l’opposizione le faccia proprie”. Fin qui il discorso sembra filare. Un ragionamento da opposizione politica, che è coerente con la risposta di Pierluigi Bersani, leader del Pd, che rimanda al mittente i “consigli” del premier: “Quello che dobbiamo fare noi lo sappiamo bene. La maggioranza e Berlusconi pensino a quello che devono fare loro”.

Dunque un secco no “a qualunque legge ad personam”. Nell’intervista D’Alema continua il suo ragionamento contraddicendo, però, se stesso e il suo partito: “Se per evitare il suo processo devono liberare centinaia di imputati di gravi reati, è quasi meglio che facciano una leggina ad personam per limitare il danno all’ordinamento e alla sicurezza dei cittadini”. Un “do ut des” coi fiocchi. O meglio, un inciucio, come solo D’Alema ci ha abituati a fare. Se questa dovesse essere la linea del Pd non potremmo, in alcun modo, parlare di opposizione.

Come può un partito come il Pd essere accondiscendete alle politiche ad personam di un premier con processi a carico? Il discostarsi continuamente dai criteri di generalità e astrattezza della legge, non è incostituzionale e controproducente per l’Italia tutta? La legge non è uguale per tutti o c’è qualcuno più uguale degli altri? E allora, per quale motivo D’Alema si rende disponibile ad accettare compromessi?

Intanto le Commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno impacchettato due regali per il premier: l’approvazione del processo breve e del legittimo impedimento. Provvedimenti, entrambi, atti a far morire in fretta i processi sulle spalle di Berlusconi. L’incostituzionalità rilevata dal Csm è stata del tutto ignorata, così come le conseguenze di amnistia evidenziate dall’Anm. Risultato: il 12 gennaio il processo breve approderà in Senato, il 25 gennaio sarà il turno del legittimo impedimento. I processi Mills e sui diritti tv Mediaset sembrano dunque essere vicini ad uno stop definitivo.
Inoltre, è in progetto da tempo un lodo Alfano in salsa costituzionale. È infatti previsto che, dopo 18 mesi dalla sua entrata in vigore, il legittimo impedimento dovrà essere sostituito da una legge costituzionale “recante la disciplina delle prerogative del presidente del Consiglio e dei ministri, nonché delle modalità di partecipazione degli stessi ai processi”.

E possiamo già aspettarci un provvedimento che renderà difficoltoso (eufemisticamente) processare membri del governo. Da notare, inoltre, come una legge costituzionale abbia bisogno di una maggioranza qualificata. Il Pdl avrà bisogno anche dei voti delle altre forze politiche. D’Alema si è già offerto?

di Mariavittoria Orsolato

Che Giancarlo Galan sarebbe stato sonoramente trombato in occasione delle candidature alle regionali 2010, lo sapevano ormai anche i muri. L’unico che pareva non essersene accorto era proprio il diretto interessato che, raggiunto dalla notizia che a Roma i pollici erano versi, ha dichiarato stizzito che la decisone presa dai colleghi dell’ufficio di presidenza Pdl è stata “peggio di un tradimento e cioè un errore”.

Povero Galan, c’è da capirlo: 15 anni di onorato servizio a Padron’ Silvio certo non sarebbero mai bastati ad assicurare al quasi ex governatore un loculo nel mausoleo personale di Arcore; ma, vista la fatica fatta per arruolare adepti e soprattutto finanziatori durante la fase embrionale di Forza Italia, almeno la poltrona doveva essere garantita. Son tempi difficili proprio per tutti.

Erano anni che la Lega spingeva per avere la presidenza del suo bacino di voti più nutrito e, già durante il luglio del 2008 a Padova, il Senatur nel famoso comizio in cui alzò il dito medio all'indirizzo dell'Inno di Mameli aveva investito come candidato per la Regione Flavio Tosi, fresco sindaco di Verona. Ma in troppi all’interno della cerchia intima dei berluscones storcevano il naso al pensiero di dover lasciare una regione così popolosa ed importante nelle mani del sempre più invadente Carroccio.

Il placet sembra sia arrivato da un Gianfranco Fini contento di aver piazzato l’ossimorica segretaria dell’Ugl Renata Polverini al Lazio anche se, in sostanza, la mossa del Pdl (che oltre al Veneto ha deciso di immolare alla Lega anche il Piemonte) pare voler regalare al temuto alleato buona parte del territorio settentrionale, un’area statisticamente produttiva sia in termini economici che politici.

Le candidature non sono ancora state formalizzate, ma la rosa dei papabili è decisamente limitata. Il ministro per le Politiche Agricole - il trevigiano Luca Zaia, già vicepresidente al fianco di Galan dal 2005 al 2008 - sembra essere in pole position; ma anche il sindaco sceriffo di Verona, quel Flavio Tosi che (citando) potremmo definire più bello che intelligente, pare avere buone chance nella corsa a palazzo Balbi. Se Tosi ha delle speranze è perché un’eventuale sostituzione di Zaia al ministero aprirebbe l’ennesimo conflitto all’interno della maggioranza: la poltrona dell’Agricoltura fa decisamente comodo alle battaglie populiste e forcaiole della Lega e un cambio in questo senso gioverebbe esclusivamente all’esangue Pdl, che avrebbe le mani libere nell’assegnazione del dicastero grazie ai delicati equilibri di coalizione. Il nome definitivo lo farà comunque Bossi, probabilmente di concerto con il pseudo-parlamento veneto della Lega, e non prima di aver chiamato a colloquio entrambi i candidati.

Se a Roma il Risiko delle candidature tiene banco, in Veneto soffia già il vento del divorzio in casa Pdl. Le dichiarazioni contrite di Galan sembrano prospettare una divisone all’interno del partito, con il presidente uscente pronto a creare una lista assieme all’Udc di Casini e deciso in ogni caso a sfidare il candidato leghista i prossimi 21 e 22 marzo. Sarebbero infatti in molti tra i sindaci veneti a non aver apprezzato il magnanimo gesto con cui il Pdl ha omaggiato la Lega, primo tra tutti il veneziano democratico Massimo Cacciari che, intervistato dal Corriere del Veneto, ha affermato: “Con Galan sono maturati rapporti di stima e di amicizia, perciò credo che abbia ragione lui: il Pdl ha commesso un errore a mollarlo e - continua - questo è un cambio che non farà l’interesse del Veneto né quello del Paese”.

Invece, nei piccoli comuni - che sono poi il vero punto di forza della Lega - i sindaci del Carroccio già brindano al futuro governatore, convinti che un rappresentante dello stesso colore politico significhi automaticamente finanziamenti a pioggia, investimenti e infrastrutture in un momento in cui anche per il Veneto, un tempo ricchissimo, è giunta l’ora di fare i conti con le recessione, la crisi e tutti i problemi che naturalmente ne conseguono.

Il risultato della tornata elettorale regionale per il Veneto è già praticamente scritto e il timore condiviso è che la svolta leghista sia una svolta soprattutto per quanto riguarda gli usi e i costumi della società. Se poi le risposte alle ansie dei veneti verranno solo dalle ronde e non, come promesso, dalle casse di palazzo Balbi, allora la Lega avrà poco di che dibattere. Sotto il leone di S. Marco, i schei son sempre schei.


 

di mazzetta

L'aggressione al premier ha rappresentato allo stesso tempo una ferita ingiusta all'uomo e all'istituzione, una piccola disgrazia per il paese e un bel problema per l'opposizione. Nell'occasione l'Italia è sembrata un paese sull'orlo di una crisi di nervi, ma la cacofonia generale è invece frutto di azioni calcolate; spesso male; e mirate a cogliere vantaggi politici dalla notizia del giorno.

Liquidato il campo dalle ipotesi più bizzarre, come quella del “fuoco amico” o del pazzo guidato dagli avversari politici, resta in bella evidenza solo il velocissimo tentativo di approfittare del fattaccio da parte degli associati al premier, perché se avessero veramente a cuore il tono e la qualità del dibattito politico, avrebbero minimizzato e sopito.

Di dichiaranti con il pelo sullo stomaco, capaci di diffondere le peggiori calunnie, ne hanno parecchi e non è stato per niente difficile arruolare gente nella caccia ai “responsabili morali” tra le fila dell'opposizione al sire di Arcore. Anche se è stato chiaro fin da subito che si trattava del gesto di uno sconsiderato isolato.

L'opposizione è rimasta disorientata da accuse del genere e dalla furia con le quali sono state scagliate, anche se non sono accuse nuove, perché negli ultimi mesi è stato proprio il premier, ormai isolato e inviso come un appestato, a gettare continuamente offese e secchiate di letame ai suoi nemici. Offese anche molto pesanti, ribadite dai media che controlla e sostenute dai “politici” che ha miracolato, calunnie a profusione e toni da guerra civile, ogni giorno ad annunciare un golpe o a dar del frocio agli avversari. Il più fesso è stato Di Pietro che, come gli capita spesso, ha trovato le parole sbagliatissime per esprimere la sua ribellione a questa ipocrisia, offrendo benzina al fuoco degli unni. Altri non hanno saputo fare di meglio e hanno dovuto piegarsi al fuoco di fila su televisioni e giornali.

Ad accompagnare tutto le immagini del premier ferito, immagini crude che mettono tristezza e che non possono piacere a nessuno, subito macinate dai media di ogni colore e latitudine, l'inciviltà dell'immagine che strumentalizza il grande comunicatore, che però in questo caso è anche un uomo ferito e sofferente. Ma nessuno ha rinunciato a pubblicarle più e più volte, vendono più di qualsiasi geniale editoriale e la fatica nel pubblicarle equivale a zero.

Un grande rumore che ha scatenato un grande caos, fatto di affermazioni deliranti e anche di veri e propri sciacallaggi istituzionali, come quelli del ministro Maroni, che dopo aver fallito nell'assicurare la sicurezza del premier, adesso vorrebbe chiudere internet e proibire le contestazioni, ridicolo se non facesse sul serio per deflettere le sue responsabilità.

“Italiani, sempre rumore, sempre casino”, lo devono aver pensato quelli di Facebook, tirati in mezzo perché le discussioni e le reazioni degli utenti hanno offerto il pretesto per indicare utili istigatori del crimine in qualche migliaio di balordi che hanno colto, pure loro, l'occasione di spararla grossa. Un cortocircuito per il quale moltissimi tra i molti milioni di messaggi che passano al giorno sul sito, hanno offerto l'occasione di strillare al reato.

Non bastasse questo, alcuni furboni, che si dilettavano a costruire gruppi falsi per recuperare dati degli utenti, hanno di colpo cambiato nome ad alcuni siti-bufala, trasformandoli in pagine a sostegno del premier. Un furto del consenso di una massa enorme di persone, ad esempio il gruppo “No Facebook a pagamento” (una bufala, perché FB non ha mai ipotizzato una cosa del genere), aveva due milioni d’iscritti.

Tutta gente che ieri aveva ancora un diavolo per capello a causa della truffa. Facebook ha reagito salomonicamente, rasando all'ingrosso centinaia di gruppi, forse la risposta migliore alle minacce del governo e al ribollire degli utenti, di sicuro la più semplice e immediata. Gli utenti “innocenti” potranno appellarsi alla procedura interna o rifare comunque un account usando un altro indirizzo mail. Forse il caso relativo è stato almeno un'utile una lezione sullo stare in rete con gli occhi aperti, che gentaglia pronta ad approfittare dell'ingenuità altrui ce ne sarà sempre.

Anche il sito de Il Giornale si è segnalato come una discreta raccolta di letame: dagli inviti a uccidere Travaglio e altri, fino alla proposta di pene medioevali per i “rossi, non si sono fatti mancare proprio niente. Eppure lì i commenti devono essere approvati dalla redazione prima di apparire, non è un sito come Facebook che non filtra nulla o come Indymedia; che in più offre l'anonimato agli utenti, lì appaiono solo quelli che sono ritenuti opportuni. Vedremo che farà Maroni quando si renderà conto che dovrebbe rasare tutti i siti dell'estrema destra e pure chiudere Radio Padania, dalla quale si è incitato al linciaggio di quelli dei “centri sociali”, che non c'entrano niente con l'aggressione a Berlusconi, ma stanno un bel po' sulle balle e sono comunque più intonati all'occasione dei soliti musulmani e anche dei negri.

Caos, rumore che all'opposizione è costato anche il naufragio della fantastica iniziativa della “mille piazze” del Partito Democratico, che doveva essere la forte iniziativa contro il governo, diversa dal No-B Day violetto, del principale partito d'opposizione. Come sia andata non si sa, non ne ha parlato proprio nessuno, come se non si fosse mai tenuta, anche i motori di ricerca restituiscono solo l'immagine del totale disinteresse. Anche il flop di Berlusconi in piazza del Duomo è passato sotto silenzio, c'era poca gente, a far risaltare qualche decina di rumorosi contestatori e il premier che arringava astioso dal palco i fedelissimi adoranti, ripreso ovviamente in campo stretto, a vedere piazza del Duomo dall'alto faceva tristezza per quanto era vuota.

Tutta questa agitazione spettacolare però, non è servita a molto; già oggi il governo ha dovuto mettere la fiducia alla finanziaria, segno che l'attentato non ha per nulla compattato la pur ampia maggioranza e che il timore d'imboscate c'è ancora tutto, mentre la soluzione dei problemi giudiziari di Berlusconi s'allontana correndo.

L'immagine è quella di un fallimento esteso ben oltre il gradimento di piazza, l'aggressione ha offerto una sospensione momentanea della pressione sul leader, ma il partito di maggioranza del paese senza memoria, farà bene a non contarci troppo. Se Berlusconi e i suoi sono cinici bastardi, quelli che si stanno accordando per liberarsi del suo governo non sono certo di primo pelo e, tra qualche giorno, l'effimero impatto mediatico dell'incidente sarà superato. Allora premier si concederà l'inevitabile gesto di magnanima benevolenza verso la famiglia dell'aggressore, ma già si starà parlando d'altro.

Il colpo di statua non è sufficiente a provocare un colpo di stato, ma nemmeno a miracolare un governo che non c'è più da tempo, Berlusconi uscendo dall'ospedale si ritroverà esattamente dov'era prima di domenica.

di Rosa Ana De Santis

La cronaca di una legge faticosa, che andrà avanti tra fiumi di emendamenti, tornerà in aula a fine gennaio. Il dibattito si accende a mesi di distanza dalla morte definitiva di Eluana. Le emozioni si sono fatte più calme, tv e giornali hanno dimenticato le oratorie di quei giorni e l’iter di una legge nata sull’emergenza di un caso individuale si è trasformato in procedura di palazzo. Il silenzio con cui si lavora alla legge sulla fine della vita rischia di consegnare a tutti noi una legge vincolante e restrittiva che di Eluana e del suo messaggio di libertà non conserverà quasi nulla, se non un veto morale.

Il relatore del testo in commissione Affari sociali alla Camera, Domenico Di Virgilio (Pdl), sa bene che la Camera non è il Senato e che lo scontro politico sarà più duro, più arduo il compito della mediazione. Gli emendamenti, soprattutto quelli presentati dai Radicali, sono numerosissimi. Segni evidenti di un atteggiamento ostruzionistico che vuole smascherare la legge per quello che è e che non riesce a diventare. La maggioranza è fiduciosa e ritiene che il testo, con le implementazioni degli emendamenti che lo migliorerebbero nella sostanza scientifica rendendolo più circostanziato, potrà ottenere i consensi trasversali che servono per passare il voto senza ricorrere alla sola asciutta vittoria di maggioranza.

L’estensione di quanti potrebbero beneficiare di questa legge, non solo le persone in stato vegetativo, ma anche coloro che sono in stato di coma, e la relazione stabilita tra idratazione e alimentazione forzata e la salute o l’ipotetico danno alla salute del paziente, dovrebbero rappresentare la possibilità teorica di incontrare il consenso di quanti vogliono vedere in questa legge uno strumento per esercitare la propria autonomia di scelta rinunciando al paternalismo medico o ai valori imposti per mano della legge.

In realtà questa interpretazione ottimistica di adesione trasversale alla legge incontra il solo consenso di quanti la scelta di Eluana e della sua famiglia l’hanno condannata. In quei giorni con formule aspre di condanna, oggi con un linguaggio timido, all’apparenza nutrito di termini e fine preoccupazioni mediche che nasconde però il convincimento di sempre. Un’altra Eluana no. Questa legge viene inquinata nel suo atto di nascita non soltanto dal solito abuso di potere da parte del Vaticano, ma da una diatriba, tutta funzionale al governo e molto più pericolosa, sull’eccesso di potere che le toghe hanno avuto nella consacrazione ufficiale e pubblica della morte di Eluana. Toghe, va ricordato, intervenute a sanare una mancanza della politica, un vuoto legislativo dovuto alla resistenza culturale di rivedere il teorema–tabù dell’indisponibilità dei limiti estremi dell’esistenza.

Paola Binetti e la collega Dorina Bianchi si danno un gran da fare, lo testimonia l’incontro su 'Testamento biologico. Menzogne e verità, per convincerci che il ddl Calabrò è stato modificato, che ha una veste laica e accettabile da tutti, che l’interruzione dell’alimentazione e idratazione artificiale non sarà vietata in modo assoluto. Rassicurazioni che dicono tutto quello che non può essere svelato. La valutazione dei casi come quello di Eluana saranno mediati da valutazioni scientifiche, peraltro difficilmente sostenibili di fronte a persone ridotte in stati irreversibili di coscienza, dal coro dei medici e dei familiari e da valutazioni istituzionali sulla vita, sulla persona e sul senso della morte che non riconoscono mai come assoluta e dirimente la sovranità del singolo. Non è un caso che Mons. Mogavero, presidente della Commissione Affari Giuridici della CEI, non protesti e anzi chieda che questa legge non sia neppure chiamata testamento.

La vita, lui dice, non è una cosa da lasciare in eredità. Non è patrimonio economico, casa o roba. E ha ragione. Non c’è modo di misurarla o di contenerla in confini neutri. Non è la valutazione di un medico e un certificato clinico che basterà a dare valore a ciò che per ognuno di noi potrebbe non averne alcuno. Il caso Englaro ha testimoniato la fatica del rispetto per un modo di vedere la vita che possiamo non capire, anche non sopportare. Una sfida etica di liberalismo dei valori che la politica italiana perderà insieme alla memoria. Eluana sarà dimenticata. Un errore giudiziario, un incidente di percorso. Una superbia di laicismo assecondata dai tribunali. Un peccato che il Parlamento ha già condannato.


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