di Mariavittoria Orsolato

A Natale siamo tutti più buoni e, dato che il partito dell’amore non poteva essere da meno, sotto l’albero ha lasciato un pensierino per il caro amico Murdoch e la sua Sky. Il presente consta di un abbassamento significativo dei tetti pubblicitari imposti per legge alle pay tv e, se la scusa è la solita dell’adeguamento alle direttive europee in materia di tv e servizi audiovisivi, il reale intento è quello di affondare la concorrenza e favorire le aziende del premier. Secondo quanto stabilito dal Consiglio dei Ministri su proposta del viceministro per lo Sviluppo Economico Paolo Romani, il tetto orario agli spot sulle piattaforme a pagamento dovrebbe gradualmente scendere entro il 2012 dall’attuale 18% al 12%, con un scarto di due punti percentuali ogni anno.

Quello che è già stato ribattezzato “decreto ad aziendam” mira soprattutto a inficiare la raccolta pubblicitaria di Sky, già pesantemente penalizzata dall’aumento dell’Iva al 20%, ed ora costretta a diminuire gli spot da dodici minuti per ora a soli sette minuti per ora. Il provvedimento è indirizzato a tutte le tv a pagamento e interessa effettivamente anche Mediaset Premium, ma i dati pervenuti ad oggi indicano come la piattaforma digitale del Biscione non sia ancora arrivata al 12% della raccolta pubblicitaria e rendono così evidente la maliziosa mossa dell’esecutivo. In soldoni, il decreto “ad aziendam" cerca non solo di evitare che i canali del tycoon australiano danneggino i canali free di Mediaset, ma aggirano anche l’ostacolo della concorrenza con le stesse reti a pagamento del gruppo Berlusconi.

Ma se pensate che sia finita qui, sbagliate. Il disegno di legge del viceministro Romani fa un ulteriore favore a Padron’ Silvio e alla sua Pierprole nel momento in cui rende decisamente più elastiche le soglie tollerate per la raccolta di pubblicità destinata alle trasmissioni in chiaro delle tv private. Grazie ad un azzeccato mix tra spot e telepromozioni, la manovra consentirebbe di incrementare fino al 22% l’affollamento pubblicitario negli orari di prime time, aumentando ulteriormente quella fetta di mercato da 63,8 punti percentuali che le televisioni del premier già si accaparrano. Al comma 2 dell’articolo 37 si legge poi come in occasioni di eventi o manifestazioni sportive sia ora consentito inserire televendite, e nei programmi per bambini superiori ai 30 minuti di durata le interruzioni pubblicitarie salgono da una a due.

Ma c’è di più. In un comma di quattro righe presente al titolo II è possibile constatare come ora le autorizzazioni per le trasmissioni via satellite non debbano più essere elargite dall’Autorità per le Comunicazioni, ma debbano passare direttamente al vaglio del Governo: "L'autorizzazione ai servizi audiovisivi o radiofonici via satellite - si legge nel testo - è rilasciata dal Ministero" e con ciò si intende dire che da ora in poi ogni nuovo competitor che avesse intenzioni di lanciarsi sulle piattaforma satellitare, deve necessariamente ottenere un'autorizzazione dall'esecutivo per essere in grado di trasmettere le proprie offerte di audiovisivi.

Come sempre, insomma, quando si tratta di aiutare gli amici, sono stati inseriti diversi ed eterogenei provvedimenti in un decreto che dovrebbe far adeguare la nostra penisola alle direttive europee; il problema è che per una volta tanto l'Italia era già più che allineata a Bruxelles, dato che la Commissione prevedeva per le televisioni satellitari un tetto massimo del 20%. Pazienza.

L'ultimo ed inatteso regalo che il partito dell'amore lascia sotto l'albero riguarda però la tv di stato e i suoi abbonati: è notizia di qualche giorno fa che il canone Rai subirà un rincaro per il prossimo anno di circa l'1,50%, passando dagli attuali 107 euro a 109 euro. Secondo il solito Paolo Romani la misura è il semplice effetto dell'inflazione programmata, ma sono già in molti - soprattutto tra le associazioni dei consumatori - quelli si fanno baluardo del malcontento degli italiani e piccati replicano che l’aumento in bolletta non è assolutamente proporzionato alla modesta qualità dell’offerta.

Dall’opposizione arriva però un plauso quasi unanime, che si discosta dalla linea del Governo solo nella misura in cui auspica una maggiore lotta all’evasione di quella che ormai possiamo definire a tutti gli effetti una tassa sulla televisione. Una tassa che comprende Minzolini e i suoi fidi editoriali, i programmi con i pacchi abbinati alla lotteria e quegli insulsi reality show che nemmeno Mediaset si sognerebbe di ospitare. Più che un Natale, queste feste saranno ricordate dagli operatori televisivi non afferenti a Cologno Monzese, come una Passione.


 

di Nicola Lillo

Nella Procura di Crotone si stanno svolgendo indagini che potrebbero dar vita al più grande scandalo che abbia mai coinvolto una compagnia telefonica italiana. Salvatore Cirafici, ex ufficiale dei carabinieri, e attuale capo della sicurezza Wind, é l’uomo che garantisce un uso corretto dei dati personali dei 17 milioni di clienti Wind. Il suo nome emerge già durante l’inchiesta “Why Not” dell’ex pm Luigi De Magistris, all’interno dei tabulati telefonici di alcuni personaggi coinvolti nell’inchiesta. Il consulente del pm, Gioacchino Genchi, ebbe serie difficoltà ad ottenere i tabulati di Cirafici. L’ex ufficiale è agli arresti domiciliari dall’11 dicembre. È indagato per concorso in rivelazione del segreto d’ufficio, favoreggiamento, falso e induzione a rendere false dichiarazioni.

Il pm di Crotone Pierpaolo Bruni ha infatti scoperto un fatto strano: Enrico Grazioli, maggiore dei Carabinieri, sul quale si stava indagando per rivelazione del segreto istruttorio e favoreggiamento, sapeva di essere intercettato. Il sospetto ricade proprio su Cirafici che - afferma la Procura di Crotone -  “è responsabile dell’organizzazione, gestione e adempimento (…) delle richieste di intercettazioni telefoniche, di informazioni e ogni altra prestazione obbligatoria richiesta dall’Autorità Giudiziaria e dalle forze dell’ordine”. Cirafici avrebbe dunque potuto manomettere e creare buchi all’interno delle inchieste di tutta Italia. Ed è lo stesso Grazioli a rivelarlo durante l’interrogatorio, ammettendo di temere per la propria “incolumità personale”.

Cirafici aveva, in ragione del suo ruolo presso la Wind, “la disponibilità di schede telefoniche Wind non intestate e non riconducibili ad alcuno: erano quindi delle schede coperte - afferma Grazioli - pertanto di pressoché impossibile riconducibilità a un soggetto, qualora fosse stata inoltrata specifica richiesta di intestatario da parte dell’Autorità Giudiziaria”. Grazioli continua, aggiungendo elementi sempre più preoccupanti: “Le schede Wind erano state da lui consegnate per l’uso anche a soggetti ricoprenti ruoli istituzionali di primo piano. Quindi, temeva che, con gli accertamenti curati dal consulente Genchi, si potessero svelare e far emergere tali gravi circostanze e le sue relative responsabilità”. “Era chiaro che Cirafici avesse paura di quello che Genchi poteva fare sul suo conto e sul conto di altri che evidentemente erano a lui collegati”.

La situazione del capo della sicurezza Wind è, dunque, sempre più complicata. Inizialmente indagato per aver rivelato, proprio al maggiore Grazioli, che era sottoposto ad intercettazione, con le nuove dichiarazioni dello stesso maggiore si potrebbero aprire nuovi filoni di indagine. Il pm crotonese Bruni s’imbatté in Cirafici durante alcune indagini su Grazioli. Il telefono del maggiore dell’Arma era intercettato e, tra i numeri intercettati, vi era un’utenza Wind. Il pm si rivolse quindi alla Wind, richiedendo a chi fosse intestato quel numero. La risposta della compagnia telefonica fu sconcertante: “Numero disattivo”.

Il fatto insospettì il pm e la polizia giudiziaria; quel numero era stato intercettato e dunque doveva essere sicuramente attivo. Successivamente, all’insistenza della Procura, la Wind fece sapere che l’utenza era intestata a Cirafici. Scrive Bruni: “ Il dato fornito con la prima risposta inviata via e-mail dalla Wind è assolutamente fuorviante, di conseguenza falso. Ma l’inchiesta, già di per se scottante, si arricchisce di un ulteriore particolare, non meno importante, anzi fondamentale.

L’accusa, condotta dal pm Bruni, afferma che Cirafici avrebbe rivelato al maggiore Grazioli che la sua utenza Wind (di Grazioli) era sotto intercettazione da parte della Procura di Crotone. Ma è sorto un problema: Grazioli non utilizzava un’utenza Wind, bensì Telecom. Se dunque la tesi dell’accusa dovesse essere dimostrata, allora la Procura dovrà sciogliere un altro nodo: come poteva il capo della sicurezza Wind, Cirafici, essere a conoscenza che il telefono di Grazioli, affidato ad un’altra utenza, cioè Telecom, fosse sotto controllo? Da chi è venuto a conoscenza dell’attività della Procura?

Il nuovo particolare, che arricchisce e getta maggiore preoccupazione sull’inchiesta, fa pensare a rapporti fra “talpe” ai piani alti, capaci ed in grado di conoscere le indagini, le intercettazioni e rendere note, agli interessati, le attività giudiziarie in corso. Ma le domande da porsi sono: è un caso isolato o siamo di fronte ad un’”associazione”? È il caso di riscrivere i rapporti fra le Procure e i gestori dell’attività telefonica riguardanti le intercettazioni?

Per quel che riguarda la prima domanda non bisogna far altro che aspettare l’esito delle indagini, con la speranza che arrivino ad una conclusione, visti soprattutto i precedenti (vedi Why not e Poseidone dell’ex pm De Magistris). Rispetto alla seconda domanda, la risposta la darà il Parlamento, attualmente “in altre faccende affaccendato”. Ma non c’è da aspettarsi nulla di positivo: a Palazzo Madama ed a Montecitorio le intercettazioni le vogliono proprio eliminare.

 

 

di Cinzia Frassi

"Rifletteremo assieme per individuare regole e procedure per evitare che sui siti si possano inserire inni d’istigazione all'odio e alla violenza che non fanno bene al Paese e a volte configurano addirittura estremi di reato". Sono queste le parole del presidente del Senato, Renato Schifani, che canta vittoria per l’imminente incontro con il responsabile europeo del social network Richard Allan. A seguito delle polemiche attorno alla rete, Schifani, alzando i toni, aveva etichettato Facebook ed i gruppi che ospita, paragonandolo ai gruppi extraparlamentari degli anni '70.

Alle volte configurano addirittura estremi di reato? In questa espressione, ritagliata dalla recente dichiarazione del presidente del Senato, si concentra la questione “Facebook” cavalcata dal governo Berlusconi e segna il peso di una speculazione strisciante. Infatti, nonostante l'attacco frontale al social network e le accuse di prestarsi a dare spazio ad ogni tipo di contributo, non si è detto tutto e nemmeno sono state espresse le vere finalità di tanta polemica.

Fatto sta che ormai siamo quasi al fatto compiuto. Domani è fissato un incontro tra il big dei social network e il governo Berlusconi. Richard Allan parteciperà in conference call alla riunione con il Viminale, alla presenza dei rappresentanti delle società che forniscono servizi di rete, le associazioni di categoria e i delegati del social network. Il presupposto per una collaborazione proficua, diciamo così, sta nelle parole di Allan, che fa sapere di essere disponibile "a discutere ulteriormente con il Presidente Schifani o con chiunque altro del suo staff e di conoscere il suo punto di vista su come noi possiamo agire ancora più efficacemente in futuro". Il presidente del Senato considera la proposta “un passo estremamente costruttivo”. Sarà l’occasione, aggiunge, per riflettere assieme per “individuare delle regole, delle procedure”. Regole e procedure. Ma quali?

Dopo l'aggressione a Silvio Berlusconi, in quel di Milano, il ministro dell’Interno Maroni aveva caldamente reagito, dichiarando l'intenzione di introdurre con la massima urgenza una serie di interventi straordinari finalizzati a controllare il web e le manifestazioni di piazza proponendo un ddl ad hoc, poi nemmeno messo all'ordine del giorno ma in fase di approfondimento da parte del governo. Questo perché dopo l’aggressione un nutrito gruppo di “amici” si era unito virtualmente al gruppo Facebook di Massimo Tartaglia, inneggiando violentemente contro il Presidente del Consiglio. A dargli man forte il rilancio immediato per bocca di Renato Schifani, che nei giorni scorsi ha perfino chiamato in causa la stagione degli anni di piombo riferendosi alle possibilità di aggregazione e pericolo offerte dal social network.

Tutto ciò contribuisce a dare all’opinione pubblica l'impressione che la rete sia uno spazio incontrollato con i caratteri dell'extraterritorialità, dove vige una sorta d’immunità generalizzata. Eppure non c’è luogo - seppur s’insista a dire virtuale - più sotto controllo della rete: pensiamo al traffico internet, alla tracciabilità di Ip e Dns, alle mail che transitano sui server e che vengono sistematicamente controllate o lo possono essere in ogni momento con il lasciapassare dei motivi di controllo anti terrorismo, per esempio. Pensiamo che se circolo senza cellulare per strada, per una città, per il mondo, nessuno sa dove sono, mentre con le tracce che lascia un pc c’è poco da fare, non ci si può nascondere. Altro che virtuale. Questa sensazione d’immunità richiederebbe una risposta pesante, al limite della censura vigente, in vari paesi assolutamente lontani dalla democrazia, come Iran, Cina, Arabia Saudita.

Va sottolineato come invece le condotte che fuori dalla rete configurano ipotesi di reato, sono le stesse che è possibile perseguire in rete. Lo sanno bene coloro che pubblicano contenuti sul web a vario titolo, come ad esempio blogger, amministratori di forum, gestori di siti internet. L'indirizzo IP è una traccia indelebile di ciascun utente, per non parlare della tracciabilità garantita - o garantibile - dai provider che rende possibile qualsiasi investigazione. Pensiamo al filtring cui già sono sottoposti alcuni siti come nel caso di gioco d’azzardo o di pedofilia.

Il tentativo messo in atto, però - e a quanto pare andato a segno date le dichiarazioni di Richard Allan - è quello di poter intervenire laddove non vi siano ipotesi concrete di reato, diffamazione o istigazione a delinquere; per esempio per chiudere un gruppo e soprattutto avere modo di controllare chi a quel gruppo si è associato. Un elenco di nomi, in sostanza. Lì si vuole arrivare per quanto si voglia invece costruire i presupposti che giustifichino interventi molto più pesanti ma soprattutto arbitrari.

Giusto per fare un esempio di ciò che già accade, proprio alcuni giorni fa, proprio su Facebook, è stato oscurato un gruppo che insultava con disprezzo i bambini maltrattati nell’asilo “Cip e Ciop” di Pistoia, dove di recente sono state arrestate in flagranza di reato due educatrici accusate, anche da filmati, di maltrattamenti e percosse ai danni dei piccoli. In questo caso, a seguito della segnalazione del presidente dell’Osservatorio sui Diritti dei Minori, Antonio Marziale, consulente della Commissione parlamentare per l’Infanzia, il gruppo è stato oscurato dalla Polizia Postale e delle Comunicazioni. Chiuso. Finito. Accade ogni giorno. Giorni fa, in risposta alle dichiarazioni di Schifani, Debbie Frost, portavoce del social network, aveva dichiarato a La Repubblica che “quando le opinioni espresse sul nostro sito si trasformano in dichiarazioni di odio o minacce contro le persone, rimuoviamo i contenuti e possiamo anche chiudere gli account dei responsabili”.

Perfetto. Allora dove sta il problema? Il problema risiede nelle finalità reali, che si tenta di giustificare demonizzando e criminalizzando a priori la rete, o dando di essa proprio questa immagine in modo da poter introdurre una normativa che possa sistematicamente violare la privacy di ogni utente e servire da pozzo di dati personali anche per finalità politiche. Del resto Facebook non ha finalità puramente “sociali”: detiene i dati personali di 350 milioni di utenti e con questi numeri non può essere considerato semplicemente uno spazio per incontrare amici.

Nelle intenzioni del governo pare non ci sia solo la questione legata all'oscuramento di gruppi di Facebook che contengano dichiarazioni ai limiti della legalità, bensì l'introduzione di norme che conferiscono la possibilità di un monitoraggio della rete costante e di perseguibilità degli utenti: in sostanza il social network si sta impegnando con il governo italiano a comunicare, su richiesta, i dati personali degli utenti quando partecipino ad un gruppo giudicato sovversivo, pericoloso, sedizioso. Siamo all'introduzione di reati di opinione. Ciò che si vuole introdurre ha più a che fare quindi con la volontà di arrivare a “monitorare” gli utenti consentendo l'identificazione degli stessi quando facciano parte di gruppi “pericolosi”. Il sapore è quello delle schedature. Quali saranno i gruppi considerati pericolosi e chi stabilirà ciò che si potrà dire?

di Nicola Lillo

Nella fase dell’”amore che vince sull’odio” sembrano (quasi) tutti più buoni, più comprensivi, più predisposti all’“ascolto”. “In questi giorni - afferma Berlusconi - ho sentito vicini anche alcuni leader politici dell'opposizione. Se cambiano i toni, il mio dolore non è inutile”. Sembrano concilianti i toni del premier, vicini al martirio. Il Cavaliere lancia un messaggio alla minoranza: “Se gli esponenti dell'opposizione sapranno davvero prendere le distanze in modo onesto dai pochi fomentatori di violenza, allora potrà finalmente aprirsi una nuova stagione di dialogo”. Nel caso in cui ciò non si dovesse verificare, il Presidente del Consiglio rilancia la volontà di “andare avanti sulla strada delle riforme che gli italiani ci chiedono”. Anche a colpi di maggioranza.

Ma non c’è da preoccuparsi. All’amo lanciato dal Pdl ha subito abboccato il Pd. Sul Corriere della Sera, del 17 dicembre, si legge infatti un’intervista al sempre presente Massimo D’Alema, in cui “pontifica” sulla situazione politica attuale e sembra cogliere al balzo le iniziative di dialogo proposte dal premier. Il “leader Maximo” parla di riforme, incentrando il suo discorso su quella della giustizia. La più cara a Berlusconi. “La riforma della giustizia, per renderla migliore per tutti i cittadini, ci interessa e abbiamo le nostre proposte. Viceversa, quelle per fermare i processi a Berlusconi non sono riforme e non si può certo pretendere che l’opposizione le faccia proprie”. Fin qui il discorso sembra filare. Un ragionamento da opposizione politica, che è coerente con la risposta di Pierluigi Bersani, leader del Pd, che rimanda al mittente i “consigli” del premier: “Quello che dobbiamo fare noi lo sappiamo bene. La maggioranza e Berlusconi pensino a quello che devono fare loro”.

Dunque un secco no “a qualunque legge ad personam”. Nell’intervista D’Alema continua il suo ragionamento contraddicendo, però, se stesso e il suo partito: “Se per evitare il suo processo devono liberare centinaia di imputati di gravi reati, è quasi meglio che facciano una leggina ad personam per limitare il danno all’ordinamento e alla sicurezza dei cittadini”. Un “do ut des” coi fiocchi. O meglio, un inciucio, come solo D’Alema ci ha abituati a fare. Se questa dovesse essere la linea del Pd non potremmo, in alcun modo, parlare di opposizione.

Come può un partito come il Pd essere accondiscendete alle politiche ad personam di un premier con processi a carico? Il discostarsi continuamente dai criteri di generalità e astrattezza della legge, non è incostituzionale e controproducente per l’Italia tutta? La legge non è uguale per tutti o c’è qualcuno più uguale degli altri? E allora, per quale motivo D’Alema si rende disponibile ad accettare compromessi?

Intanto le Commissioni Giustizia di Camera e Senato hanno impacchettato due regali per il premier: l’approvazione del processo breve e del legittimo impedimento. Provvedimenti, entrambi, atti a far morire in fretta i processi sulle spalle di Berlusconi. L’incostituzionalità rilevata dal Csm è stata del tutto ignorata, così come le conseguenze di amnistia evidenziate dall’Anm. Risultato: il 12 gennaio il processo breve approderà in Senato, il 25 gennaio sarà il turno del legittimo impedimento. I processi Mills e sui diritti tv Mediaset sembrano dunque essere vicini ad uno stop definitivo.
Inoltre, è in progetto da tempo un lodo Alfano in salsa costituzionale. È infatti previsto che, dopo 18 mesi dalla sua entrata in vigore, il legittimo impedimento dovrà essere sostituito da una legge costituzionale “recante la disciplina delle prerogative del presidente del Consiglio e dei ministri, nonché delle modalità di partecipazione degli stessi ai processi”.

E possiamo già aspettarci un provvedimento che renderà difficoltoso (eufemisticamente) processare membri del governo. Da notare, inoltre, come una legge costituzionale abbia bisogno di una maggioranza qualificata. Il Pdl avrà bisogno anche dei voti delle altre forze politiche. D’Alema si è già offerto?

di Mariavittoria Orsolato

Che Giancarlo Galan sarebbe stato sonoramente trombato in occasione delle candidature alle regionali 2010, lo sapevano ormai anche i muri. L’unico che pareva non essersene accorto era proprio il diretto interessato che, raggiunto dalla notizia che a Roma i pollici erano versi, ha dichiarato stizzito che la decisone presa dai colleghi dell’ufficio di presidenza Pdl è stata “peggio di un tradimento e cioè un errore”.

Povero Galan, c’è da capirlo: 15 anni di onorato servizio a Padron’ Silvio certo non sarebbero mai bastati ad assicurare al quasi ex governatore un loculo nel mausoleo personale di Arcore; ma, vista la fatica fatta per arruolare adepti e soprattutto finanziatori durante la fase embrionale di Forza Italia, almeno la poltrona doveva essere garantita. Son tempi difficili proprio per tutti.

Erano anni che la Lega spingeva per avere la presidenza del suo bacino di voti più nutrito e, già durante il luglio del 2008 a Padova, il Senatur nel famoso comizio in cui alzò il dito medio all'indirizzo dell'Inno di Mameli aveva investito come candidato per la Regione Flavio Tosi, fresco sindaco di Verona. Ma in troppi all’interno della cerchia intima dei berluscones storcevano il naso al pensiero di dover lasciare una regione così popolosa ed importante nelle mani del sempre più invadente Carroccio.

Il placet sembra sia arrivato da un Gianfranco Fini contento di aver piazzato l’ossimorica segretaria dell’Ugl Renata Polverini al Lazio anche se, in sostanza, la mossa del Pdl (che oltre al Veneto ha deciso di immolare alla Lega anche il Piemonte) pare voler regalare al temuto alleato buona parte del territorio settentrionale, un’area statisticamente produttiva sia in termini economici che politici.

Le candidature non sono ancora state formalizzate, ma la rosa dei papabili è decisamente limitata. Il ministro per le Politiche Agricole - il trevigiano Luca Zaia, già vicepresidente al fianco di Galan dal 2005 al 2008 - sembra essere in pole position; ma anche il sindaco sceriffo di Verona, quel Flavio Tosi che (citando) potremmo definire più bello che intelligente, pare avere buone chance nella corsa a palazzo Balbi. Se Tosi ha delle speranze è perché un’eventuale sostituzione di Zaia al ministero aprirebbe l’ennesimo conflitto all’interno della maggioranza: la poltrona dell’Agricoltura fa decisamente comodo alle battaglie populiste e forcaiole della Lega e un cambio in questo senso gioverebbe esclusivamente all’esangue Pdl, che avrebbe le mani libere nell’assegnazione del dicastero grazie ai delicati equilibri di coalizione. Il nome definitivo lo farà comunque Bossi, probabilmente di concerto con il pseudo-parlamento veneto della Lega, e non prima di aver chiamato a colloquio entrambi i candidati.

Se a Roma il Risiko delle candidature tiene banco, in Veneto soffia già il vento del divorzio in casa Pdl. Le dichiarazioni contrite di Galan sembrano prospettare una divisone all’interno del partito, con il presidente uscente pronto a creare una lista assieme all’Udc di Casini e deciso in ogni caso a sfidare il candidato leghista i prossimi 21 e 22 marzo. Sarebbero infatti in molti tra i sindaci veneti a non aver apprezzato il magnanimo gesto con cui il Pdl ha omaggiato la Lega, primo tra tutti il veneziano democratico Massimo Cacciari che, intervistato dal Corriere del Veneto, ha affermato: “Con Galan sono maturati rapporti di stima e di amicizia, perciò credo che abbia ragione lui: il Pdl ha commesso un errore a mollarlo e - continua - questo è un cambio che non farà l’interesse del Veneto né quello del Paese”.

Invece, nei piccoli comuni - che sono poi il vero punto di forza della Lega - i sindaci del Carroccio già brindano al futuro governatore, convinti che un rappresentante dello stesso colore politico significhi automaticamente finanziamenti a pioggia, investimenti e infrastrutture in un momento in cui anche per il Veneto, un tempo ricchissimo, è giunta l’ora di fare i conti con le recessione, la crisi e tutti i problemi che naturalmente ne conseguono.

Il risultato della tornata elettorale regionale per il Veneto è già praticamente scritto e il timore condiviso è che la svolta leghista sia una svolta soprattutto per quanto riguarda gli usi e i costumi della società. Se poi le risposte alle ansie dei veneti verranno solo dalle ronde e non, come promesso, dalle casse di palazzo Balbi, allora la Lega avrà poco di che dibattere. Sotto il leone di S. Marco, i schei son sempre schei.


 


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