di Rosa Ana De Santis

Il disegno di legge, arrivato alla Camera dei Deputati, cambia sensibilmente. Il governo sembra concedere tutte le modifiche che non spostano granché dell’impostazione di fondo. Il testo Calabrò perde alcuni dei suoi paletti proibizionisti, lasciando forse più insidie di quelle che dovrebbe sanare. Idratazione e alimentazione potranno essere sospese qualora "risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo".

Una definizione sibillina che ruota intorno al significato dell’efficacia. Siamo d’accordo che la nutrizione forzata è necessaria per mantenere le funzioni biologiche di alcuni pazienti: un’evidenza per la medicina e per il buon senso comune di chi ha provato a immaginarsi la condizione di Eluana e dei tanti come lei. Ma non è l’efficacia il cardine che ha mosso la necessità a legiferare sulla fine della vita. Ben altri i termini in gioco. Libertà di scelta, volontà personale, qualità della vita. Nulla che possa essere ricondotto all’efficacia del trattamento di nutrizione e idratazione artificiale.

Il dato che rimane intoccabile è che questa terapia- non terapia non può essere oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento (DAT) e, conseguentemente, potrà essere decisa solo dai medici coinvolti. Un finale coerente con lo scenario di un paese che non riesce ancora ad affrancare la cultura medica e i quesiti bioetici dal paternalismo medico e che depaupera i pazienti di ogni possibilità d’intervento sulla propria esistenza.

Il relatore Di Virgilio, che ha raccolto non a caso il consenso della neo UDC Binetti, nell’emendamento che allarga la platea dei destinatari della legge dai pazienti in stato vegetativo a quelli incapaci di intendere e volere, parla di aperture del testo di legge senza cambiare nulla del divieto categorico di decidere come si vuole vivere e morire. L’unico tema di cui avrebbe dovuto occuparsi seriamente il nostro Parlamento. E anche l’unica domanda che la storia emblematica della famiglia Englaro ha lasciato alla riflessione comune.

La legge che verrà sarà una legge per i soli cittadini che vogliono vivere in quelle condizioni che altri non vogliono e sarà un modo garbato di imporre a tutti l’accanimento terapeutico raccontandocene la sospensione come l’anticamera dell’eutanasia. La verità la dice il Sottosegretario Eugenia Roccella, quando di fronte alle modifiche e all’allargamento della platea dei destinatari si dice attenta a che tutti i cambiamenti siano coerenti e non snaturino il senso centrale del disegno di legge. Chissà se il Partito Democratico, finalmente libero dal cilicio, se ne accorgerà in tempo utile per non cercare convergenze a tutti i costi.

Il lavoro di commissione arriverà in aula dopo le regionali e il PDL su mandato di Berlusconi rivendica la propria libertà di coscienza. La loro, s’intende. Perché a tutti coloro che non avranno la loro stessa libertà di coscienza la legge toglierà tutto. Non ci sarà la nostra volontà, la nostra idea della vita, la parola dei nostri cari e di chi ci ha conosciuto profondamente. A decidere per noi ci sarà un medico. Magari e quasi sicuramente uno di quegli obiettori che nelle strutture pubbliche potranno esercitare indisturbati l’abuso di lasciarci vegetare in nome e per conto del loro dio.

 

di Mariavittoria Orsolato

L’uccisione di un ragazzo egiziano da parte di coetanei sudamericani, ha scatenato lo scorso sabato una vera e propria rivolta in via Padova a Milano. L’esplosione di collera e rabbia cieca non poteva non portare alla memoria quello che abbiamo potuto vedere solo un mese fa a Rosarno, dove i migranti sfruttati e costretti a vivere come bestie, si ribellavano in nome di una visibilità sempre negata. I due fatti di cronaca possono apparire diversi nelle motivazioni e negli esiti ma in realtà condividono gli stessi presupposti: un’integrazione inesistente e una sete di giustizia che inevitabilmente si risolve in una disperata affermazione di forza.

La questione dei migranti è una realtà sempre più evidente ed è pacifico che tutto il legiferare fatto in questi anni non ha sortito nemmeno uno degli effetti che prevedeva ma che, anzi, grazie alle politiche marcatamente xenofobe e alla caccia alle streghe scatenata nei periodi di artefatti allarmi sicurezza, ha finito per isolarli sempre di più. Così, ad oggi, la figura dell’immigrato, pur essendo un attore fondamentale dell’economia nazionale, è relegata a quell’immaginario criminalesco ed oltremodo ottuso secondo cui chiunque non è italiano, è necessariamente un incivile e potenzialmente un delinquente. Che il ragionamento sia lo stesso degli eugenisti che contribuirono al successo di Hitler, pare non interessare a nessuno.

Nella vana attesa che dal mondo politico arrivino risposte seriamente in grado di affrontare il problema – e che soprattutto non si riducano a criminalizzare ulteriormente la condizione sociale di migrante - sono in molti quelli che si sono attivati affinché la voce delle persone che, loro malgrado, occupano il posto più basso nella nostra scala sociale, possa essere sentita. Nate su internet, dai sindacati e dall'associazionismo, queste iniziative hanno il pregio di essere molte ma mancano di quella sostanziale unità di cui abbisognano cause come quella dell’integrazione.

La più attesa di queste manifestazioni è quella prevista per il primo marzo: dopo essersi chiesti cosa succederebbe se i quattro milioni e mezzo di immigrati che vivono in Italia decidessero di incrociare le braccia per un giorno, il movimento Primomarzo2010 ha lanciato uno sciopero nazionale dei migranti “per far capire all'opinione pubblica italiana quanto sia determinante l'apporto dei migranti alla tenuta e al funzionamento della nostra società”. Senza la badante moldava che si preoccupi che il nonno non rimanga senza ossigeno nella bombola, senza i muratori marocchini a costruire in così poco tempo tutte quelle graziose villette a schiera, senza i braccianti senegalesi, polacchi, ivoriani e ghanesi a raccogliere la frutta e la verdura che noi mangiamo, l’Italia andrebbe nel caos più totale.

E se tutti quelli che vorrebbero “mandarli a casa o in galera” non fossero arrivati a capirlo, la mobilitazione prevista tra 10 giorni servirà a ribadire quanto siano irrisori i 7 miliardi di euro spesi per la criminalità, a fronte dei 141 miliardi di euro che gli immigrati con il loro lavoro (regolare ma soprattutto in nero) arrivano a produrre per la nostra moribonda economia.

L'idea dello sciopero non ha però convinto i sindacati che, pur aderendo moralmente, sono ben lungi dall’appoggiarlo realmente: la Cisl ha fatto sapere che il discorso è troppo vago e che certe cose non si possono improvvisare perché “è inutile parlare alla pancia degli immigrati” e la Uil ci ha steso sopra il suo velo pietoso, perché “gli italiani non capirebbero questo genere di sciopero”. La Cgil, su cui pesavano le speranze e le attese degli organizzatori, ha anch’essa declinato l’invito rilanciando il 12 marzo come giornata di mobilitazione unitaria in cui non siano solo i migranti l’oggetto dello scioperare: “Che gli immigrati un giorno si fermino tutti e facciano pesare la loro utilità è una bella suggestione, ma difficilmente realizzabile perché - sentenzia Piero Soldini, responsabile delle Politiche migratorie della Cgil - essi lavorano in condizioni di assoggettamento, soggezione, neo-schiavismo in alcuni casi. Subiscono una forte ricattabilità e questo rende arduo che possano mettersi d’accordo e, anche solo per un giorno, alzare la testa”.

Dalle risposte fornite dai sindacati si può facilmente evincere il disorientamento e la totale anacronisticità del loro atteggiamento: se infatti i licenziamenti, la cassa integrazione, la difficoltà a permettersi una casa sono diventati problemi anche per quella che fu la classe media, per gli immigrati gli effetti della crisi sono ancora più disastrosi, poiché per il tipo di lavoro che svolgono e per la condizione di non-cittadini in cui si trovano, non usufruiscono nemmeno di quei miserabili ammortizzatori sociali previsti per la maggioranza dei lavoratori italiani. Inoltre, la perdita del lavoro significa spesso ripiombare nella condizione di clandestinità, in quanto legge Bossi-Fini lega il possesso del permesso di soggiorno al mantenimento di un’occupazione. In questo contesto la solidarietà tra lavoratori non può essere né un vezzo, né una semplice velleità: la giustizia sociale non ha colore.


 

di Rosa Ana De Santis

Il clamore ancora una volta si è scatenato intorno al mondo delle donne e del sesso mercenario. Il piatto succulento del gossip. Il centro benessere di Via Salaria e il lavoro generoso delle massaggiatrici sembrerebbe esser diventato l’argomento di punta delle contestazioni a Guido Bertolaso. Anche qui, come nel caso illustre del premier, del privato e delle abitudini erotiche degli uomini di potere, potrebbe non importare granché a nessuno, se non alle famiglie coinvolte. Quando le donne diventano però moneta corrente, un premio, un favore o una tangente, quando lo scambio sessuale è solo il segno tangibile di una circolazione sommersa di favori e relazioni poco onorevoli, allora esiste un problema che è tutto politico e che chiama in causa il peccato originario della corruzione.

Interessa quindi poco con chi si rilassa Bertolaso: a rendere dovute le sue dimissioni bastano i rapporti amichevole con gli sciacalli. Ma quando il prode Bertolaso dice di essere disposto a dimettersi solo se glielo chiederà il suo capo, esprime tutta la cultura - rilassata? - che ha del servizio pubblico. Roba loro è; se non lo fosse, se fosse al servizio del Paese, avrebbe avuto pochi denari, diverso percorso e diverso esito. La Protezione Civile Italiana, invece, proprio perché roba loro, ha conquistato negli ultimi anni un potere enorme e una straordinaria libertà d’azione. A reti unificate è stata spacciata la presunta neutralità/capacità di Bertolaso, incensato come sacerdote della sicurezza nazionale tanto dal governo come dall’opposizione, come sempre inerte e letargica. Peccato che oltre al tempismo dell’intervento in emergenza, con corredo di appalti fulminanti e costruttori sorridenti - come confermerebbero le intercettazioni sul caso del terremoto dell’Aquila - siano state disattese del tutto le opere di prevenzione. Le frane di Messina, per citarne solo alcune, fino ai recenti episodi dei paesi circostanti, ne sono purtroppo l’ennesima amara conferma.

Il Bertolodo, come già lo chiamano, è la riproduzione caricaturale di una pantomima di governo cui siamo già abituati. Condottieri integerrimi assediati da uomini sbagliati e da giudici faziosi. Brave persone in pasto ai comunisti togati. Gare fantasma necessarie alla conservazione del potere. Potere che deve essere assoluto, al di sopra della legge; intoccabile per essere efficiente ed efficace contro lo Stato lento e ostaggio dei partiti. Questo ha raccontato la propaganda televisiva mentre sui morti caldi qualcuno, così pare, disegnava già la ricostruzione dell’Aquila aumentando gli zeri del proprio conto in banca.

Il business principale é rappresentato dalla trasformazione di ogni intervento pubblico - ricostruzione e grandi eventi - a questione in capo alla Protezione Civile. In nessun'altro Paese del mondo é così, ma nessun'altro Paese ha questo governo. Senza controlli della magistratura contabile, senza i lacci delle gare pubbliche, mascelle allenate all'alta voracità hanno visto il modo per avere "il Paese in mano". Quella degli appalti pubblici e delle grandi opere, insieme alla sanità privata e alle commesse all'estero, é dunque il grande collettore della corruttela pubblica e privata; rappresenta, in tutta evidenza, la relazione tra politica e affari, laddove per politica s'intendono i padrini dell'emergenza e per affari i bilanci dei macabri nottambuli telefonici, i mascalzoni delle fatture immaginate sulla contabilità della disperazione.

Un altro esempio é stata La Maddalena, prima circuita e poi abbandonata dalla banda degli onesti: solo una delle manifestazioni tangibili di come lo scempio sia il core business dei presunti imprenditori. E mentre L’Aquila e la sua provincia ancora aspettano il raggiungimento minimo della percentuale di aiuti promessi, c’è chi si rilassa entrando dalle porte sul retro. Le indagini in corso, che sembrerebbero individuare un intreccio sordido tra il Mangiafuoco degli appalti dei Grandi Eventi della Protezione civile, l’imprenditore Anemone, e i ringraziamenti “megagalattici” organizzati per sdebitarsi con Guido Bertolaso, dovrebbero bastare, per pudore, a sospendere per sempre il decreto del governo sulla trasformazione della Protezione Civile in SpA.

La norma, ha comunicato Fini ieri sera, é stata stralciata. Del resto, persino il gran visir del governo, Letta, aveva suggerito alcune modifiche di sostanza al provvedimento di privatizzazione. Vedremo se verrà ripresentata con un clima più propizio o definitivamente abbandonata, la voracità delle ‘ndrine degli amici spesso supera la decenza. Sarà bene quindi vigilare. Ma l'importante non é solo evitare la trasformazione in S.p.a. della protezione civile: é altrettanto importante che essa sia ricondotta alle funzioni istituzionali cui é predisposta, non permettendo che venga trasformata in una società edilizia per ogni opera, grande o piccola che sia; si deve riconsegnarla alle verifiche ed ai controlli della Corte dei Conti. Le emergenze declinate come eventi diventerebbero altrimenti la tavola imbandita degli appalti e dei profitti e, ogni prevenzione di disastri, un inutile quanto furbo trapasso di denaro pubblico verso agli affari privati. Le risate sadiche nella notte del sisma ci hanno già dato l’idea del gusto che hanno gli affari della morte.

Il decreto che ora é stato stralciato, permetteva non a caso di bloccare ogni azione giudiziaria fino al 31 gennaio 2011, oltre a bloccare tutte quelle pendenti. Vedremo cosa verrà fuori dall'inchiesta della magistratura. vedremo se avranno ancora voglia di ridere sui cadaveri che diventano business. Quello della banda Anemone é un sorriso che viene dall’inferno e vederli marcire in galera sarebbe una paga buona per simili esseri. Quella invece di vigilare affinché l'inchiesta non faccia sconti è un’occasione di lotta che un’opposizione sveglia non dovrebbe perdere: per cantarle chiare non serve Sanremo. Serve invece mobilitare il Parlamento e le piazze per un’emergenza nazionale. La prima senza Bertolaso. 

di Giovanni Cecini

Disse Emile Zola nel suo J’accuse: «E’ un delitto sfruttare il patriottismo ai fini dell’odio». Ebbene la storia è piena zeppa di uomini, fatti e comportamenti che hanno commesso azioni delittuose in questo senso. La retorica patriottica, nobile quanto genuina in moltissimi casi, diviene un’arma micidiale quando si trasforma in egoista e becero nazionalismo. In tutti i Paesi del mondo esiste questa piaga, anche perché in un contesto sempre più multietnico e globalizzato, quei confini identitari e culturali appaiono più flebili e incerti. I colori nazionali, se mai fossero stati pieni e brillanti, sono ormai sfocati a seguito di migrazioni, conquiste, annessioni e dichiarazioni d’indipendenza.
  
L’Italia non è indenne da questo fenomeno, se anch’essa dopo secoli di fratture interne e invasioni straniere si è cimentata - una volta unita e indipendente - in una propagandistica azione d'imperialismo sfrenato. A partire dai governi liberali a cavallo tra ‘800 e ‘900, fino alla catastrofe dell’esperienza fascista, Roma si pose come obiettivo quello di realizzare un sogno mitico. Per questo ha iniziato ad assoggettare altri popoli e Nazioni, col tempo anche lontani per storia e cultura a una possibile comunanza di idem sentire italico.

Da queste premesse può partire un discorso pacato e riflessivo sul significato del Giorno del Ricordo, che cade il 10 febbraio, data in cui venne firmato il Trattato di Parigi del 1947, che assegnò a Belgrado i territori occupati durante il conflitto dalle armate di Tito. La ricorrenza venne istituita dallo Stato italiano nel 2004, per offrire rispetto e memoria ai tanti connazionali vittime di violenze nel contesto del confine orientale alla fine della Seconda guerra mondiale.

La geopolitica della regione, che sin dall’esperienza asburgica era stata aggravata dalle innumerevoli differenze etnico-culturali, dimostra come sia molto difficile distinguere le popolazioni più affini a un contesto latino piuttosto che a quello slavo. Sta di fatto che tra il 1919 e il 1947 in tale zona si è andando consumando uno stillicidio di brutalità, dove le cause e gli effetti si confondono a vicenda, non senza strascichi ideologici fino ai nostri giorni.

Per questi motivi, anche a fini politici, la risposta slovena non si è fatta attendere, se nel 2005 Lubiana ha istituito la giornata del 15 settembre come Festa nazionale del ritorno del Litorale alla madrepatria. Le polemiche incrociate non sono mancate e, ancora oggi, un certo attrito permane non tanto tra i due Paesi, quanto tra le due sensibilità interne, che spesso interpretano la logica delle rispettive ricorrenze come un ulteriore strumentalizzazione a quel nazionalismo di cui si è parlato all’inizio.

Una riflessione serena e risolutiva di questi contrasti, che investirebbe in casa nostra tutti i partiti senza distinzione di colore e collocazione, dovrebbe portare alla piena legittimazione del Giorno del Ricordo, al pari della Festa della Liberazione, come un momento di saggia riflessione morale e politica. Consapevoli dello sprezzo aggressivo del fascismo operato nei territori jugoslavi, è giusto, oltre che doveroso, offrire rispetto alle migliaia di cittadini italiani uccisi per le colpe dello Stato dittatoriale di cui facevano parte.

La Prima guerra mondiale e la pace di Parigi nel 1919, pur tra mille contraddizioni, aveva consegnato all’Italia terre e popolazioni affini alla Penisola, che nessun crimine fascista può rendere responsabili, tanto da meritare una condanna a morte così brutale come quella inferta nelle foibe. Parimenti l’invasione e il saccheggio che le Forze armate di Mussolini hanno perpetrato nei Balcani permettono di comprendere, una volta che gli aggressori siano stati scacciati, il diritto degli sloveni e dei croati di un riconoscimento e di un riscatto nazionale anche territoriale.

Le clausole firmate a Parigi del 1947, entrate in vigore appunto il 15 settembre, non vollero essere giuste, se per giustizia intendiamo il riconoscimento oggettivo dei diritti di cittadinanza. Esse vollero essere la risposta e la lezione offerta a un Paese, come l’Italia, che nella sua megalomania non si era accontentato di annettersi degli italiani della Venezia Giulia, dell’Istria e delle isole dalmate, ma pretendeva anche di sopraffare uomini e donne che mai si erano sentiti legati alla Patria di Dante, Raffaello, Mazzini e Garibaldi. In questo senso è inappellabile la decisione che ha portato i dalmati, i giuliani e gli istriani a trovarsi sotto la sovranità della Repubblica socialista federale di Jugoslavia.

Ben inteso, altra cosa è invece lo scempio fatto su queste stesse popolazioni, vessate oltre misura perché giudicate diverse o perché pedissequamente definite fasciste in quanto italiane. Ecco perché non deve e non sembra accettabile vedere la Giornata del Ricordo e la Festa del Litorale come alternative, in opposizione e in contrasto tra di loro, tanto da generare a vicenda recriminazioni, ripicche e offese reciproche, generate da enfasi ideologiche.

E’ ovvio che le ragioni di politica diplomatica mal si conciliano con le ragioni del cuore e dei sentimenti, ma è vero pure che a oltre sessanta anni di distanza, a maggior ragione in un contesto di integrazione europea, le decisioni prese nella capitale francese alla fine di un trentennio di odi viscerali furono l’unica risposta dopo una guerra infame e totalizzante. Per tutti questi motivi sarebbe quindi opportuno e legittimo che le città di Gorizia, Trieste, Pula, Rijeka e Postojna (o in qualsiasi altra forma linguistica le si voglia chiamare) fossero accomunate oggi e per l’avvenire da un sentimento comune europeo e non da uno sciovinismo dietrologo pari a quello onomastico sul chiamare Londonderry o semplicemente Derry la città dell’Irlanda del Nord.

di Mariavittoria Orsolato

Ci è voluto quasi un anno ma, alla fine, inesorabile, la scure di Maria Stella Gelmini si è abbattuta anche sulle scuole superiori. Lo scorso giovedì il Consiglio dei Ministri ha infatti dato il via libera ai tre decreti che a partire dal prossimo anno scolastico rivoluzioneranno (in peggio) i licei, gli istituti professionali e quelli tecnici. Tutti i tagli agli orari sono stati confermati e anche lo smembramento delle sperimentazioni ha avuto atto: seppure i licei rimarranno sostanzialmente inviolati - fatta eccezione per i nuovi licei delle scienze umane e musicali - sull’altare sacrificale del bilancio sono finiti gli istituti di settore, spolpati degli indirizzi e ridotti ad affidarsi a stage con aziende private.

Non sono quindi valse a nulla le proteste e gli scioperi che durante tutto l’anno scorso hanno infiammato il settore scolastico: secondo la ministra, fresca di nozze, la sua è una “riforma epocale” grazie a cui il nostro disastrato paese potrà avvicinarsi agli standard richiesti dall’Unione Europea.

Peccato che, in realtà, le modifiche predisposte per il nostro ordinamento scolastico, oltre a non tenere in minimo conto le trasformazioni sociali e culturali che interessano questa velocissima generazione di ragazzi, siano ben lontane dalle eccellenze svedesi o tedesche. Il più macroscopico punto debole dell’epocale riforma sta infatti nel drastico taglio agli orari, non solo delle lezioni ma anche di funzionamento dei plessi scolastici. Pare infatti che la ministra, nella sua spasmodica ricerca di perfezione storica, abbia grossolanamente tralasciato l’assunto fondamentale secondo cui l’orario delle lezioni non è lo stesso dell’orario scolastico. Tagliando quest’ultimo si produce l’inevitabile riduzione del tempo in cui gli studenti potranno fruire di strutture didattiche come palestre, biblioteche, teatri e laboratori: secondo il modello europeo questi apparati sono il naturale corollario ad un tempo scolastico che non è, e non deve essere, solo quello dell’apprendimento frontale, tant’è che la maggior parte delle attività didattiche si consuma e si sviluppa proprio in questo segmento.

Se infatti pensiamo che nella stragrande maggioranza dei sistemi educativi comunitari il tempo pieno è una risorsa grazie alla quale poter organizzare e veicolare il tempo libero dei ragazzi, mal si capisce come mai Berlusconi - immancabilmente presente all’illustrazione dei provvedimenti - abbia sottolineato come “l’Italia avrà delle scuole comparate a quelle degli altri Paesi europei e saranno in linea con gli istituti dei paesi più avanzati”. Non importa, infatti, che le attività organizzate nell’orario fuori dalle lezioni siano di stampo culturale, di approfondimento disciplinare o di semplice svago; nei tanto decantati modelli europei la scuola è un’istituzione in grado di trasmettere significati e comportamenti in un ambito protetto e di valorizzare quelle che, mano a mano, emergono come eccellenze o semplici competenze.

Per i ragazzi italiani, chiamati sempre più insistentemente a uniformarsi ai criteri di preparazione d’oltralpe, questa scuola non ha invece praticamente nulla da offrire a meno che essa per prima non venga presentata come un’istituzione credibile, capace di tradurre quelli che sono gli insegnamenti impartiti in comportamenti civici. Che sia forse per ovviare a questa “obsoleta” funzione che dai licei, da sempre fucine della futura classe dirigente, è stato cancellato l’insegnamento di diritto?

In ogni caso, la diminuzione dell’orario scolastico in Italia significherà un sostanziale imbarbarimento delle nuove leve generazionali: costretti ad autorganizzarsi, gli adolescenti nostrani saranno inevitabilmente portati ad assimilare comportamenti non codificati, a riunirsi nei famigerati branchi o, al meglio, a lobotomizzarsi su siti di social networking o di altre amenità, col risultato che gli atteggiamenti prenderanno ad essere sempre più discostati dalla società civile, sopraffatti dall’irragionevolezza di messaggi commerciali (come quelli del marchio Diesel che trionfanti ti impongono un “Be Stupid”) e impoveriti dal linguaggio becero delle tv pomeridiane.

Non stupiamoci allora se i nostri ragazzi sono il fanalino di coda di Eurolandia: le indiscutibili competenze di un avvocatessa che gioca a fare la ministra premaman, non hanno tenuto in debito conto i soggetti ai quali la riforma è rivolta. Soggetti che hanno subito mutazioni repentine sia nell’aspetto che nella sostanza, giovani adolescenti dai comportamenti sempre più adulti e praticamente privi di una qualsiasi mediazione che non sia quella data dall’autoformazione, spesso e volentieri traviante.

Ma i giovani italiani diventano un problema solo quando taglieggiano i compagni, danno fuoco a poveri barboni “per vedere l’effetto che fa”, o vendono il proprio corpo in cambio di ricariche o vestiti firmati. Questa è la politica governativa per la scuola: piangere sul latte versato in settant’anni di fallimenti didattici. Nel frattempo le decine di migliaia di insegnanti condannati dalla riforma a lasciare le loro cattedre, aspettano a braccia conserte di essere cancellati dalla pubblica istruzione come segni di gesso sulla lavagna.


 


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