di Ilvio Pannullo

È da un po’ di tempo che la questione del futuro della Fiat sta tenendo banco sulle prime pagine dei giornali. Dopo gli interrogativi sul futuro di due centri di produzione di Termini Imerese e Pomigliano d’Arco, nevralgici per le rispettive economie locali, i problemi occupazionali adesso incominciano a presentarsi anche al Nord. Dopo le due settimane di cassa integrazione per 30 mila operai, a cavallo tra febbraio e marzo - la prima è già cominciata - l’azienda di Torino ha stabilito altre due settimane di cassa integrazione agli Enti Centrali della Fiat. Non solo operai, dunque.

Il calo degli ordini per le vetture del Gruppo Fiat ha spinto l'azienda, già ferma sul piano produttivo, a bloccare per due settimane il lavoro degli impiegati. Secondo quanto riferiscono i sindacati, i “colletti bianchi” degli Enti centrali di Mirafiori sono stati posti in cassa integrazione dal 22 al 28 marzo e dal 5 all'11 aprile. Nello specifico, alla Fiat Group Automobiles, saranno in cig 1200 persone nella prima settimana e 2400 nella seconda. Alla Powetrain di Torino Stura saranno 400 nella prima settimana e 800 nella seconda, mentre all'ufficio Acquisti saranno 100 nella prima settimana e 400 nella seconda.

"Temiamo che anche per i colletti bianchi questo sia solo l'inizio", ha detto il segretario generale della Fiom torinese, Giorgio Airaudo. "La Fiat continua ad adeguarsi al mercato con il ricorso alla cassa integrazione", ha aggiunto.  In ogni caso ad andarci di mezzo sono sempre i lavoratori che - è bene ricordarlo - svolgono le loro mansioni in stabilimenti tutti costruiti con soldi pubblici. Che la situazione sia paradossale è cosa, infatti, nota a tutti. Nonostante nel corso degli anni l’industria automobilistica torinese sia stata ricoperta di soldi pubblici, al punto da mettere lo Stato nelle condizioni di rilevarne la proprietà se solo ve ne fosse stata la volontà, ad oggi a tirare i fili del gioco sono ancora gli eredi della famiglia Agnelli.

E sarebbe difficile il contrario visti i loro antagonisti: davanti alla chiara volontà, manifestata dai vertici dell’azienda, di delocalizzare la produzione con effettivi catastrofici per le aree dove esistono gli stabilimenti, il governo ha opposto il ministro dello Sviluppo Claudio Scajola. Proprio a lui, l’unico ministro italiano che, il 29 aprile 2009, diceva: "L’accordo tra Fiat e Chrysler consentirà di trainare quegli stabilimenti in Italia, come Pomigliano d’Arco o Termini Imprese che oggi soffrono ancora".

In questa crudele partita tra l’azienda di Torino e il governo, i ruoli appaiano abbastanza definiti: l'amministratore delegato Sergio Marchionne interpreta il ruolo del poliziotto cattivo che a più riprese grida ai mercati e ai lavoratori la volontà chiara dell'azienda di chiudere Termini Imerese e il totale disinteresse di questa per eventuali ulteriori incentivi, mentre il presidente Luca di Montezemolo gioca il ruolo del poliziotto buono, che cerca di salvare rapporti con la politica, rapporti di cui il Lingotto continuerà ad avere comunque bisogno. Alle loro spalle, più regista che spettatore, silenzioso ma sempre presente, c'è il grande azionista: John Elkan, vicepresidente di Fiat.

Per capire il ruolo di Elkan in questa fase bisogna partire da una scelta tattica che è stata letta come un errore di comunicazione. Lunedì 25 gennaio il consiglio di amministrazione Fiat annunciava di aver chiuso l'anno 2009 con una perdita netta di 848 milioni di euro ma che, nonostante questo, nonostante un indebitamento netto a 4,4 miliardi di euro, verrà distribuito un dividendo complessivo di 237 milioni. Due giorni dopo Marchionne metteva in cassa integrazione 30.000 dipendenti del gruppo per il calo della domanda gennaio.

La concomitanza dei due eventi - dividendo e cassa integrazione - contribuisce ragionevolmente a far infuriare gli operai che in alcuni stabilimenti, soprattutto Termini Imerese, organizzano scioperi spontanei. C'è stato chi ha sostenuto che quei soldi servissero all'erede dell'avvocato per sistemare i conti della Juventus, ma alla Exor, la finanziaria che controlla la Fiat, camera di compensazione degli eredi Agnelli di cui Elkann è presidente e che incasserà 67 milioni dei 237 del dividendo, danno un'altra spiegazione: Marchionne -  come rilevato anche dal quotidiano La Stampa  - sta per invadere gli schermi americani con gli spot delle nuove Chrysler firmate Fiat. Aveva quindi bisogno di lanciare un messaggio di credibile ottimismo ai mercati finanziari, ancora non tutti convinti che l'espansione internazionale del Lingotto, si rivelerà davvero un successo.

In questo scenario è molto importante comprendere le intenzioni del grande azionista e soprattutto capire quale sia la sua idea per il futuro dell'azienda, un'azienda - non bisognerà mai smetterlo di ripetere - che oggi esiste solo grazie ad una serie infinita di incentivi, agevolazioni, sconti ed intermediazioni sopportate dalle tasche del contribuente italiano. John Elkann, da presidente Exor, sostiene in prima persona la linea di apertura internazionale della Fiat. Si racconta che è sempre più spesso in Asia, quasi sempre in Cina. I primi risultati degli interessi asiatici del rampollo della famiglia Agnelli si sono visti  a luglio, quando la Fiat ha siglato una joint venture con la Guangzhou Automotive Company per la produzione di 140.000 vetture e 220.000 motori all'anno, un investimento da 400 milioni di euro nello stabilimento di Changsha, provincia dello Hunan, operativo dall'autunno 2011.

Si comprende bene, dunque, che tutto questo frutto di una scelta strategica, che ha alla base il convincimento che in Italia avviare nuove iniziative sia semplicemente inutile. Se vi fosse giustizia, davanti ad un simile progetto, che per l’Italia significherebbe un tracollo totale di alcune aree importanti  del paese, il governo dovrebbe imporre alla Fiat la restituzione di tutto quanto indebitamente ottenuto in questi anni. Ma questa - si sa - è pura utopia, tra simili non si mordono.

È il mercato a fare le regole e produrre in Cina è sicuramente meno costoso e logisticamente più efficiente.  Il punto è che le carte sono regolari solo perché è il tavolo da gioco ad essere truccato. La delocalizzazione della produzione da parte di una società che senza il poderoso aiuto del contribuente italiano oggi non esisterebbe, è possibile solo grazie all’intreccio d’interessi tra Governo e Confindustria. Le due facce della stessa medaglia.

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