di Mariavittoria Orsolato

L’uccisione di un ragazzo egiziano da parte di coetanei sudamericani, ha scatenato lo scorso sabato una vera e propria rivolta in via Padova a Milano. L’esplosione di collera e rabbia cieca non poteva non portare alla memoria quello che abbiamo potuto vedere solo un mese fa a Rosarno, dove i migranti sfruttati e costretti a vivere come bestie, si ribellavano in nome di una visibilità sempre negata. I due fatti di cronaca possono apparire diversi nelle motivazioni e negli esiti ma in realtà condividono gli stessi presupposti: un’integrazione inesistente e una sete di giustizia che inevitabilmente si risolve in una disperata affermazione di forza.

La questione dei migranti è una realtà sempre più evidente ed è pacifico che tutto il legiferare fatto in questi anni non ha sortito nemmeno uno degli effetti che prevedeva ma che, anzi, grazie alle politiche marcatamente xenofobe e alla caccia alle streghe scatenata nei periodi di artefatti allarmi sicurezza, ha finito per isolarli sempre di più. Così, ad oggi, la figura dell’immigrato, pur essendo un attore fondamentale dell’economia nazionale, è relegata a quell’immaginario criminalesco ed oltremodo ottuso secondo cui chiunque non è italiano, è necessariamente un incivile e potenzialmente un delinquente. Che il ragionamento sia lo stesso degli eugenisti che contribuirono al successo di Hitler, pare non interessare a nessuno.

Nella vana attesa che dal mondo politico arrivino risposte seriamente in grado di affrontare il problema – e che soprattutto non si riducano a criminalizzare ulteriormente la condizione sociale di migrante - sono in molti quelli che si sono attivati affinché la voce delle persone che, loro malgrado, occupano il posto più basso nella nostra scala sociale, possa essere sentita. Nate su internet, dai sindacati e dall'associazionismo, queste iniziative hanno il pregio di essere molte ma mancano di quella sostanziale unità di cui abbisognano cause come quella dell’integrazione.

La più attesa di queste manifestazioni è quella prevista per il primo marzo: dopo essersi chiesti cosa succederebbe se i quattro milioni e mezzo di immigrati che vivono in Italia decidessero di incrociare le braccia per un giorno, il movimento Primomarzo2010 ha lanciato uno sciopero nazionale dei migranti “per far capire all'opinione pubblica italiana quanto sia determinante l'apporto dei migranti alla tenuta e al funzionamento della nostra società”. Senza la badante moldava che si preoccupi che il nonno non rimanga senza ossigeno nella bombola, senza i muratori marocchini a costruire in così poco tempo tutte quelle graziose villette a schiera, senza i braccianti senegalesi, polacchi, ivoriani e ghanesi a raccogliere la frutta e la verdura che noi mangiamo, l’Italia andrebbe nel caos più totale.

E se tutti quelli che vorrebbero “mandarli a casa o in galera” non fossero arrivati a capirlo, la mobilitazione prevista tra 10 giorni servirà a ribadire quanto siano irrisori i 7 miliardi di euro spesi per la criminalità, a fronte dei 141 miliardi di euro che gli immigrati con il loro lavoro (regolare ma soprattutto in nero) arrivano a produrre per la nostra moribonda economia.

L'idea dello sciopero non ha però convinto i sindacati che, pur aderendo moralmente, sono ben lungi dall’appoggiarlo realmente: la Cisl ha fatto sapere che il discorso è troppo vago e che certe cose non si possono improvvisare perché “è inutile parlare alla pancia degli immigrati” e la Uil ci ha steso sopra il suo velo pietoso, perché “gli italiani non capirebbero questo genere di sciopero”. La Cgil, su cui pesavano le speranze e le attese degli organizzatori, ha anch’essa declinato l’invito rilanciando il 12 marzo come giornata di mobilitazione unitaria in cui non siano solo i migranti l’oggetto dello scioperare: “Che gli immigrati un giorno si fermino tutti e facciano pesare la loro utilità è una bella suggestione, ma difficilmente realizzabile perché - sentenzia Piero Soldini, responsabile delle Politiche migratorie della Cgil - essi lavorano in condizioni di assoggettamento, soggezione, neo-schiavismo in alcuni casi. Subiscono una forte ricattabilità e questo rende arduo che possano mettersi d’accordo e, anche solo per un giorno, alzare la testa”.

Dalle risposte fornite dai sindacati si può facilmente evincere il disorientamento e la totale anacronisticità del loro atteggiamento: se infatti i licenziamenti, la cassa integrazione, la difficoltà a permettersi una casa sono diventati problemi anche per quella che fu la classe media, per gli immigrati gli effetti della crisi sono ancora più disastrosi, poiché per il tipo di lavoro che svolgono e per la condizione di non-cittadini in cui si trovano, non usufruiscono nemmeno di quei miserabili ammortizzatori sociali previsti per la maggioranza dei lavoratori italiani. Inoltre, la perdita del lavoro significa spesso ripiombare nella condizione di clandestinità, in quanto legge Bossi-Fini lega il possesso del permesso di soggiorno al mantenimento di un’occupazione. In questo contesto la solidarietà tra lavoratori non può essere né un vezzo, né una semplice velleità: la giustizia sociale non ha colore.


 

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