di Giovanni Cecini

Fino ad ora poco si è parlato dell’imminente sciopero generale indetto dalla Cgil per il prossimo 12 marzo. In effetti è un provvedimento nato da lontano, se si considera l’ampia e costante attività del principale sindacato nazionale verso le politiche dell’occupazione, in una visione globale riguardante i diritti sociali e le risposte contro la crisi. Questo appuntamento rappresenta un importante banco di prova per testare la reazione dei lavoratori dipendenti, settore sensibile del Paese in tempo di crisi economica e, per questo, spesso laboratorio di mostruosi esperimenti contrattuali.

A tutto ciò si aggiunge la recente astensione dal lavoro degli stranieri residenti, altro strato sociale disagiato, ma non sempre adeguatamente rappresentato. I fenomeni di Rosarno hanno sì acceso più di un riflettore sulla problematica, che agli occhi dei più rasenta la schiavitù, ma non abbastanza per avviare una serie riflessione umana prima che sociale e politica. La realtà é che gli immigrati sono allo stesso tempo una preoccupazione in termini elettorali, soprattutto per consistenti frange conservatrici e xenofobe del Governo, ma anche una preziosa e indispensabile risorsa, se su di essi si basa una pesante fetta del Pil nazionale e dei relativi tributi e contribuzioni.

Nella logica globale - o più semplicemente continentale - lo spettro della Grecia è presente in modo costante e le colpe dei finanzieri sono puntualmente pagate dai comuni cittadini. Anche per questi motivi lo sciopero rappresenta un appuntamento serio e di valore, proprio alla vigilia per la Cgil di un Congresso nazionale, in cui la presenza di due mozioni contrapposte sta scaldando oltre misura la temperatura delle assemblee di base.

Di fronte al segretario confederale uscente, Guglielmo Epifani, si è schierata una variegata formazione capeggiata da Domenico Moccia, Carlo Podda e Gianni Rinaldini, rispettivamente segretari delle Federazioni sindacali del credito e assicurazioni, della funzione pubblica e dei metalmeccanici. Alla luce delle posizioni proposte, più che una fase congressuale costruttiva e innovativa, sembra in realtà un confuso assalto alla diligenza dell’unica istituzione di Sinistra rimasta in Italia.

Dopo le ripetute frammentazioni partitiche post Ulivo-Unione e la scomparsa politica di alcune storiche formazioni dagli scranni parlamentari, la possibilità di lacerare dall’interno anche la Confederazione Generale Italiana del Lavoro rappresenterebbe, oltre a un’azione sciocca, l’ennesima e ultima azione masochista tanto in voga tra i cosiddetti “sinistrati”. A ben vedere la contrapposizione, secondo l’opinione della tanto ricercata generazione dei giovani sindacalisti, non sarebbe costruttiva, perché incentrata su logiche di segreteria, più che di reazione organica allo stato di crisi e all’unilateralismo nei quali Governo e Confindustria esprimono interessi egoistici, facendo ricadere il costo delle scelte su lavoratori e pensionati. Anche qui, le grida dei dimostranti ellenici sono ammonitrici, se proprio in questi giorni ad Atene si parla d’inasprimenti «all’italiana» dopo i rincari su benzina, tabacchi ed alcolici.

In questo clima si rischia di perdere l’obiettivo democratico del Congresso Cgil, ossia quello di selezionare la migliore classe dirigente e poter rispondere alle reali esigenze sociali ed economiche di un Paese che, spesso, fa della burocrazia e dell’illegalità diffusa i capri espiatori per la mancanza di serie riforme strutturali. Di fronte a una carrellata incessante di provvedimenti legislativi e contrattuali, sbandierati come rinnovamenti e cambiamenti, l’Italia, anno dopo anno, ha perso credibilità internazionale, quote di mercato a vantaggio delle realtà emergenti e, non da ultimo, il potere d’acquisto di quello che si chiamava ceto medio, impoverito oltre misura.

Ecco perché esaminando la mozione - cosiddetta riformatrice - dei vari Moccia, Podda e Rinaldini, verrebbe da chiedersi in che modo le rispettive Federazioni sindacali (Fisac, Fp e Fiom) stanno reagendo allo smantellamento dei contratti nazionali e, da ultimo, alle forme privatistiche tra aziende e singoli lavoratori per esonerare le prime dagli obblighi contenuti dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Dopo i casi di Fiat, Alcoa, Yamaha, la precarizzazione di scuola e funzione pubblica in genere, gli accordi di Intesa Sanpaolo rivolti ad assumere cassintegrati, ma a condizioni subcontrattuali, ci sembra di essere entrati in una giungla, in un sistema darwiniano dove solo l’umiliazione salariale e dei diritti dei singoli può garantire un posto di lavoro, a patto che poi sia comunque liquidabile unilateralmente e senza un adeguato sistema di ammortizzatori sociali.

Tutto ciò dovrebbe essere la priorità del Congresso, che si svolgerà a Rimini il prossimo maggio, dove una Cgil rafforzata dallo sciopero, sanando quel conflitto tra anziani e giovani al suo interno, riaffermerebbe quella concordia sociale che deve essere raffermata tra padri e figli, spezzando quel divario generazionale che, ormai da anni, si sta sviluppando nel nostro sistema giuslavorista.

di Nicola Lillo

Anche la prostituzione nell’indagine sulla “cricca” che gestiva i Grandi eventi. Per di più, con il coinvolgimento di un uomo legato al Vaticano. In un capitolo dell’informativa dei carabinieri, si evidenzia come “l’ingegner Balducci, per organizzare incontri occasionali di tipo sessuale, si avvale dell’intermediazione di due soggetti che si ritiene possano far parte di una rete organizzata, operante soprattutto nella capitale, di sfruttatori o comunque favoreggiatori della prostituzione maschile”. Su questo punto è stata avviata un’indagine parallela, frutto di numerosissimi messaggi sms, intercettazioni che riguardano i costumi sessuali di Angelo Balducci, ex numero uno del Consiglio dei Lavori Pubblici in carcere nell'ambito dell'inchiesta sui Grandi eventi.

Il tutto si concentra sull’attività di Chinedu Thiomas Ehiem, il corista nigeriano della Cappella Giulia, o anche “reverenda Cappella Musicale della Sacrosanta Basilica Papale di San Pietro”. Sarebbe lui, insieme a Lorenzo Renzi, residente nella capitale, ad offrire le prestazioni dei ragazzi, per lo più stranieri, in cambio di soldi e favori. All’anagrafe di Roma il corista è registrato come “religioso”, anche se in Vaticano hanno precisato: “Chinedu non è un religioso, né un seminarista”. La reazione della Santa Sede è stata immediata, con la cacciata dal coro del giovane nigeriano.

Ma non sembra finire qui. Dalle intercettazioni risultano anche coinvolti alcuni seminaristi, invischiati nei festini gay. In un’intercettazione si legge, infatti, la domanda di Balducci ad Ehiem: “A che ora deve ritornare in Seminario?”. E nell'inchiesta compare anche il nome dell'ex direttore del Sismi, Nicolò Pollari, grande guru delle barbe finte deviate. A che titolo e con quali responsabilità lo vedremo (forse).

Balducci intratteneva rapporti stretti con il Vaticano. È il direttore del Tg1, Augusto Minzolini a riferirlo. Tra i due intercorrevano ottimi rapporti. In un’intercettazione è lo stesso Balducci a chiedere un favore a Minzolini per suo figlio (attore in un film Rai), favore poi concretizzatosi con un’intervista di Mollica. “Sì, ma il film che interpretava era importante, e mi pare fosse Rai”, si difende così Minzolini, aggiungendo che “Balducci era una mia ottima fonte in Vaticano. Mi dette quindici giorni prima la notizia della nomina di Bagnasco. Una volta cenai da lui con monsignor Sandri. Diego Anemone l’ho conosciuto attraverso di lui. Ma sono contatti di lavoro. Mi invitavano alla partita, ma per fortuna io non vado mai. Magari per telefono posso averlo chiamato “tesoro”. Ma lo faccio con tutti. Non vorrei passare per…”.

Inoltre Balducci faceva parte di quel gruppo che un tempo veniva chiamato i “Cavalieri di spada e cappa”, ora meglio noti come “Gentiluomini di Sua Santità”. Faceva dunque parte della “Famiglia Pontificia”, composta da uomini che “si distinguono per il bende delle anime e la gloria del nome del Signore”. Dopo la divulgazione di queste intercettazioni, però, è stato depennato. Membro dal 2001, oggi “non può ottemperare agli impegni di gentiluomo pontificio ed è comunque implicato in seri problemi”. Balducci non è il primo. Già Umberto Ortolani, coinvolto sia nel caso Calvi sia nella P2, fu eliminato dall’elenco degli appartenenti alla Famiglia.

Intanto, scherzo del destino, Benedetto XVI sabato riceverà volontari e personale della Protezione Civile. Un appuntamento fissato già prima dell’inchiesta. Ma che lascia un certo imbarazzo nella Santa Sede.

di Mariavittoria Orsolato

“La Democrazia è in pericolo!”. No, non pensate che lo sia perché per un mese la già flebile informazione nostrana sarà privata dei contenuti politici o perché, a quanto è dato capire, le nostre istituzioni pullulano di corrotti e corruttori. Se la democrazia rischia grosso è perché i giudici non hanno ammesso le liste Pdl alle regionali in Lazio e Lombardia, parola di Mr. B. e della sua cricca.

Le Corti d’Appello di Milano e Roma hanno rigettato il listino di Formigoni “Per la Lombardia” per l’invalidità di 514 firme, mentre in Lazio hanno escluso le liste Pdl per Renata Polverini in virtù di un clamoroso ritardo - complice il panino di Alfredo Milioni - nella consegna della documentazione utile. Se per la candidata alla presidenza del Lazio la Corte d’Appello di Roma ha fatto dietrofront, accogliendo il ricorso all’esclusione del listino, per il casto e pio Formigoni potrebbero non esserci santi che tengano.

Le motivazioni dei giudici amministrativi milanesi non hanno nulla di eversivo, è pacifico; ma la consultazione elettorale della regione azzurra per antonomasia, privata del vessillo del partito che dovrebbe essere di maggioranza, è un’anomalia cui il brainstorming di berluscones vuole porre rimedio, possibilmente con un decreto legge ad hoc. Il premier, decisamente contrariato, avrebbe dapprima pensato alla solita legge/pezza, convinto erroneamente di poter ammiccare all’opposizione: poi, vista la sola disponibilità dell’Udc di Casini, pare aver optato per un decreto d’urgenza. Di certo non c’è ancora nulla e l’incontro tra Berlusconi e Napolitano non pare aver sciolto i dubbi su quali e quante eccezioni il Pdl potrà contare. Forse un altro Consiglio dei Ministri, straordinario, darà modo di piegare le correnti interne al Pdl. La voce del padrone si farà sentire.

Nel frattempo Roma e Milano sono state tappezzate a tempo di record con manifesti recanti la scritta “Vogliono cancellare la democrazia. Fatti sentire” e un implicito invito a fare le barricate per sostenere il diritto alla vita elettorale delle liste “vittime di un sopruso”. Fermo restando che il Popolo della libertà ha un innato sense of humor - vedi le manifestazioni “contro il regime” di Romano Prodi - la reazione scomposta del partito del premier, costretto a chiedere la protesta contro le istituzioni e le regole da esso rappresentate, denota quella mancanza di lucidità che solitamente prelude al caos partitico: se infatti qualcosa in pericolo c’è, quello è proprio il partito di governo.

La faciloneria con cui il centrodestra si sta preparando a quello che dovrebbe essere il rendez-vous con un elettorato inevitabilmente colpito dagli ultimi scandali, dimostra chiaramente come ormai la voce di Padron’ Silvio non incuta più quel timore reverenziale che in 16 anni ha fatto del leader quella figura in grado di concertare corpi e assonàre animi. Formigoni e Polverini sono gli agnelli sacrificali di quello che più che una banale svista sembra un ammutinamento: dopo la vittoria del 2008 Berlusconi non ha dimostrato di voler cambiare il suo registro fatto di autoritarismo populista e persecuzione di obiettivi personali; al contrario, ha continuato nelle sue sperequazioni, dimostrando come in realtà la sua corte politica non conti nulla ai suoi occhi e alle sue tasche.

I continui battibecchi a mezzo stampa con Fini e l’astio manifesto tra i due correntoni del partito del predellino, stanno a comprovare come il collante concettuale della macchina berlusconiana ormai non faccia più presa. Proprio la mancanza di questa base ha reso macroscopici gli errori commessi in Lazio e Lombardia, delegittimando per l’ennesima volta il premier e aprendo la strada a quello che sarà l’inevitabile divorzio tra i forzisti devoti ad Arcore ed i finiani della fu An.

C’è quindi puzza di decomposizione: il frettoloso trapianto dei due cuori del centrodestra in quel frankestein politico che ormai da due anni ci governa, ha avuto più d’una crisi di rigetto e ormai serve ben poco inveire contro giudici “talebani” complottanti e fantomatici “furbi” a cui piacerebbe falsare i risultati (ovviamente plebiscitari) della tornata elettorale. Gli specchietti per allodole mediatiche confezionati dai Minzolini di turno non hanno più senso davanti alla manifesta incapacità della leadership di gestire una situazione di crisi a cui nemmeno San Bertolaso saprebbe porre rimedio.

Non resta che aspettare e rimanere in questo limbo politico: perché, sia chiaro, se anche Berlusconi e i suoi dovessero improvvisamente scomparire dalla scena - fagocitati da chissà quale scandalo o dal semplice autodafé - allo stato attuale delle cose non esiste né una figura, né un partito in grado di colmare decentemente quello che è un vuoto istituzionale in regime da decenni. Se la bolla berlusconiana dovesse effettivamente scoppiare, i risultati potrebbero essere esplosivi.


 

di Giovanni Gnazzi

Si chiama Milioni, Alfredo Milioni. Per combinazione freudiana presenta lui le liste del PDL per la provincia di Roma. O meglio, così dovrebbe essere, perché galeotto fu un panino. Così, almeno, racconta la versione romanzata della figuraccia che i berluscones hanno guadagnato nella presentazione della lista. Vuoi il panino, vuoi il ritardo, vuoi la rigidità della norma, il fatto è che arrivano tardi, fuori tempo massimo; comunque oltre i limiti stabiliti dalla legge che disciplina modalità e tempi per la consegna regolare delle liste elettorali. Il perché è ancora tutto da chiarire.

Rotondi, una delle menti più lucide della destra, parla d’idiozia e d’incapacità diffusa. Berlusconi è furioso. Lo stesso La Russa si dice affranto da tanta leggerezza, ma rimanda al dopo voto la resa dei conti interna. La vicenda, effettivamente, di per sé racconta di un’imperizia al limite dell’idiozia. Di dilettantismo spinto oltre ogni limite, di mancanza di capacità amministrative inquietanti per chi si candida a governare. Se nemmeno un minimo atto formale - per quanto delicato - riescono a fare senza danni, chissà che farebbero amministrando una regione.

Ma che sia imperizia o altro, che sia allergia certificata alle norme, qualsiasi esse siano; che sia una manifestazione indiretta di arroganza politica, che fa pensare di essere al di sopra delle norme e delle leggi (tendenza non proprio nuova, va detto), il fatto genera ilarità. I peones del cavaliere ora urlano, strepitano; gli ex-fascisti parlano di golpe (sono intenditori della materia) e invocano l’intervento del Capo dello Stato, che ovviamente è costretto a ricordargli, con aplomb istituzionale, che le funzioni costituzionali del Colle niente hanno a che vedere con quelle dei tribunali.

Ma sarebbe più interessante vedere davvero cosa c’è in quel panino. E scoprire, per esempio, che la compilazione della lista è stata una battaglia interna con feriti e abbandonati. Che sulla lista laziale del PdL si sono incrociate le lame dello scontro interno alla destra. Vittima designata proprio la stessa Polverini, fortemente voluta da Gianfranco Fini e per suo conto colpita più volte. Intendiamoci: Renata Polverini avrà comunque la lista sua, quella di Storace e quella dell’UDC di Casini a sostenerla, con i loghi ben in vista. Sono proprio Storace e Casini, infatti, che più hanno da guadagnare dall’assenza del logo del PdL sulla scheda; gli elettori di destra che decideranno di votare Polverini, con lei voteranno infatti i consiglieri regionali delle liste apparentate regolarmente presenti sulla scheda. E forse, in quel panino, c'era l'ultimo gesto disperato destinato a cambiare la composizione di quella lista.

Casini, opportunamente, ricorda con un po’ di perfidia che “non basta salire su un predellino per fare un partito: si deve saper fare politica”. Anche in Lombardia qualche problema c’è: Formigoni vede rigettare la propria lista dal Tribunale e, anche al Pirellone, il segno di un conflitto interno appare ben visibile. Non è un caso, insomma, se anche il Giornale di famiglia sia andato giù contro il suo stesso partito con espressioni violentissime che non lasciano margini d’interpretazione sullo scontro interno al PdL.

Il centrosinistra, Bonino in testa, ritiene naturalmente che ogni forzatura rappresenterebbe una palese violazione della legge e che, per ciò stesso, renderebbe illegale la campagna elettorale. Chiede dunque alla politica di fare un passo indietro e lasciare che la Corte D’Appello, alla quale si è rivolta il Pdl con un ricorso, decida senza subire pressioni. Posizione ineccepibile sul filo della logica politica, certo. Ma, aldilà dell’impossibilità di spiegare alla destra italiana che le funzioni della magistratura vanno rispettate e che la divisione dei poteri non è l’architettura complottistica di un regime khmer, sarebbe comunque auspicabile vedere la loro lista presente sulla scheda elettorale.

Sarebbe opportuno, da parte del centrosinistra, un appello all’ammissibilità della lista del PdL. L’assenza della loro lista li ricompatterebbe contro un presunto “nemico”, sia essa la “burocrazia” o la sinistra. La presenza della lista risulterebbe, invece, un’arma micidiale rivolta contro se stessa. Perché trasferirebbe all’interno del PdL il conflitto, facendo emergere le diverse opzioni che, nel quadro di una guerra intestina senza ormai più fronzoli, otterrebbe la deflagrazione del gruppo dirigente berlusconiano a Roma e non solo a Roma. E alla fine perché una sconfitta possibile della destra - e certo dopo questa prova di credibilità più probabile - ha bisogno di essere vissuta fino in fondo, senza alibi e senza polemiche e scontri che partirebbero dal non riconoscimento del risultato elettorale. L’ingovernabilità che ne seguirebbe metterebbe a dura prova la convivenza civile nella regione.

Se pure con la sua lista la destra perdesse, la resa dei conti interna sarebbe violentissima; se anche vincesse, le scorie della campagna elettorale peserebbero moltissimo al suo interno sin dal giorno dopo. O sconfitta o vittoria di Pirro, insomma. Per una volta, sarebbe opportuno batterli con quella lungimiranza politica che distingue, come sempre, l’intelligenza dall’arroganza. Le idee, a volte, valgono più dei Milioni.

di Mariavittoria Orsolato

La questione morale, invocata a gran voce dopo la sequela di scandali che hanno scosso la politica nostrana in modo pressoché bipartisan, e le imminenti elezioni regionali stanno costringendo il governo a escogitare delle misure che, almeno in apparenza, tutelino l’onorabilità e soprattutto la credibilità delle istituzioni. Se il provvedimento anti-corruzione - varato in tutta fretta per metter una pezza agli affaires Bertolaso e Di Girolamo - non ha per ora oltrepassato la linea di fuoco del Consiglio dei Ministri, a tentare di redarguire i molti che hanno fatto della politica una ghiotta occasione di lucro dovrebbe arrivare ora un inaspettato giro di vite sull’eleggibilità dei condannati.

Il disegno di legge approvato in questi giorni in Parlamento è stato in realtà elaborato ben 15 anni fa dal giudice calabrese Romano De Grazia e dal penalista professor Mario Alberto Ruffo, e riguarda il divieto per i sorvegliati speciali di svolgere propaganda elettorale “in favore o in pregiudizio di candidati e simboli”. Se di per sé il testo non aggrava le sanzioni per i malavitosi dediti agli intrallazzi politici (già privati del diritto di voto attivo e passivo), il ddl Lazzati va però a colpire quei politicanti che in ragione di una vittoria agognata si appellano ai suddetti soggetti per ampliare il consenso: per loro il nuovo ordinamento prevede la reclusione da 1 a 6 anni e, se la sentenza passa in giudicato, è contemplata l’ineleggibilità del candidato per un periodo non inferiore a 5 anni e non superiore a 10. Inoltre, nel caso in cui il candidato sia stato effettivamente eletto attraverso il cosiddetto voto di scambio, l’organo istituzionale di appartenenza ha il dovere di dichiararne la decadenza formale dall’incarico.

Che questo sia uno dei pochissimi “mirabili atti” del governo Berlusconi quater sono in molti ad ammetterlo ma, dal momento che il lupo pur perdendo il pelo non necessariamente perde il congenito vizio, l’approvazione del disegno di legge ha scatenato una vera e propria diaspora all’interno del Popolo delle Libertà e della già fragile coalizione con la Lega; uno scontro in cui - come da copione - vediamo giustapposte l’ala finiana e i forcaioli padani contro la parte forzitaliota che ha fatto del garantismo la sua necessaria ragione di sopravvivenza e consenso.

La battaglia era già cominciata in Commissione Affari Costituzionali dove i commissari incaricati di valutare la costituzionalità della proposta, avevano discusso animatamente sui requisiti necessari alla decadenza del candidato colluso: i dubbi riguardavano soprattutto l’incertezza nel definire quale comportamento del candidato costituisse il discrimine tra la consapevolezza e la leggerezza.
Le remore però sono state messe da parte in nome di una rapida approvazione, volta soprattutto a dare un segnale concreto di contrasto alla criminalità dei colletti bianchi in vista delle delicate elezioni regionali, che si terranno tra meno di un mese ma che potrebbero rivelare l’effetto boomerang di una siffatta misura.

Al momento della votazione a Montecitorio si consuma infatti l’ennesima rottura tra i deputati della defunta AN e i leghisti, determinati ad arrivare ad un’approvazione in tempi rapidi, ed i pidiellini fedeli alla linea di Arcore che, forti della loro storia partitica, vedevano nella convalida del testo una “clava giudiziaria da armeggiare da parte di un Ciancimino qualsiasi”. Se a questo si aggiunge il fatto che Lega ed ex An premono per estendere il ddl Lazzati a tutti i candidati iscritti nelle liste per le regionali, ben si capirà l’agitazione che serpeggia tra i banchi della maggioranza.

Siamo quindi alle solite, con una parte del governo che attacca i magistrati e con l’altra che li difende, con un presidente della Camera che crede che “una destra con la bava alla bocca non piaccia” e con un premier che, ormai incontenibile e incontentabile, paragona i pm ai talebani di Al Quaeda. Che nel Popolo delle Libertà non esistesse più una linea politica condivisa lo avevano svelato gli atteggiamenti di aperta sfida che Fini aveva adottato nei confronti delle derive berlusconiane; ma su questa delicata questione è evidente che ormai le distanze non sono più tanto sul piano della mera tattica, quanto piuttosto toccano i principi fondamentali e gli assunti che stanno alla base dell’idea di centrodestra attuale.

Una versione della politica che ha una fisionomia sprezzante e che non può e non vuole ricorrere a figure di garanzia interposte - come appunto i magistrati - per avvalorare la bontà del suo operato, ma che si fonda sul consenso aprioristico creato da interminabili sequele di annunci ad effetto e dall’innegabile forza centripeta della figura di Mr. B., prova vivente della fallacia di una giustizia forzatamente portata da essere, se mai fosse possibile, ancor più intempestiva.

 


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