di Mariavittoria Orsolato

“La Democrazia è in pericolo!”. No, non pensate che lo sia perché per un mese la già flebile informazione nostrana sarà privata dei contenuti politici o perché, a quanto è dato capire, le nostre istituzioni pullulano di corrotti e corruttori. Se la democrazia rischia grosso è perché i giudici non hanno ammesso le liste Pdl alle regionali in Lazio e Lombardia, parola di Mr. B. e della sua cricca.

Le Corti d’Appello di Milano e Roma hanno rigettato il listino di Formigoni “Per la Lombardia” per l’invalidità di 514 firme, mentre in Lazio hanno escluso le liste Pdl per Renata Polverini in virtù di un clamoroso ritardo - complice il panino di Alfredo Milioni - nella consegna della documentazione utile. Se per la candidata alla presidenza del Lazio la Corte d’Appello di Roma ha fatto dietrofront, accogliendo il ricorso all’esclusione del listino, per il casto e pio Formigoni potrebbero non esserci santi che tengano.

Le motivazioni dei giudici amministrativi milanesi non hanno nulla di eversivo, è pacifico; ma la consultazione elettorale della regione azzurra per antonomasia, privata del vessillo del partito che dovrebbe essere di maggioranza, è un’anomalia cui il brainstorming di berluscones vuole porre rimedio, possibilmente con un decreto legge ad hoc. Il premier, decisamente contrariato, avrebbe dapprima pensato alla solita legge/pezza, convinto erroneamente di poter ammiccare all’opposizione: poi, vista la sola disponibilità dell’Udc di Casini, pare aver optato per un decreto d’urgenza. Di certo non c’è ancora nulla e l’incontro tra Berlusconi e Napolitano non pare aver sciolto i dubbi su quali e quante eccezioni il Pdl potrà contare. Forse un altro Consiglio dei Ministri, straordinario, darà modo di piegare le correnti interne al Pdl. La voce del padrone si farà sentire.

Nel frattempo Roma e Milano sono state tappezzate a tempo di record con manifesti recanti la scritta “Vogliono cancellare la democrazia. Fatti sentire” e un implicito invito a fare le barricate per sostenere il diritto alla vita elettorale delle liste “vittime di un sopruso”. Fermo restando che il Popolo della libertà ha un innato sense of humor - vedi le manifestazioni “contro il regime” di Romano Prodi - la reazione scomposta del partito del premier, costretto a chiedere la protesta contro le istituzioni e le regole da esso rappresentate, denota quella mancanza di lucidità che solitamente prelude al caos partitico: se infatti qualcosa in pericolo c’è, quello è proprio il partito di governo.

La faciloneria con cui il centrodestra si sta preparando a quello che dovrebbe essere il rendez-vous con un elettorato inevitabilmente colpito dagli ultimi scandali, dimostra chiaramente come ormai la voce di Padron’ Silvio non incuta più quel timore reverenziale che in 16 anni ha fatto del leader quella figura in grado di concertare corpi e assonàre animi. Formigoni e Polverini sono gli agnelli sacrificali di quello che più che una banale svista sembra un ammutinamento: dopo la vittoria del 2008 Berlusconi non ha dimostrato di voler cambiare il suo registro fatto di autoritarismo populista e persecuzione di obiettivi personali; al contrario, ha continuato nelle sue sperequazioni, dimostrando come in realtà la sua corte politica non conti nulla ai suoi occhi e alle sue tasche.

I continui battibecchi a mezzo stampa con Fini e l’astio manifesto tra i due correntoni del partito del predellino, stanno a comprovare come il collante concettuale della macchina berlusconiana ormai non faccia più presa. Proprio la mancanza di questa base ha reso macroscopici gli errori commessi in Lazio e Lombardia, delegittimando per l’ennesima volta il premier e aprendo la strada a quello che sarà l’inevitabile divorzio tra i forzisti devoti ad Arcore ed i finiani della fu An.

C’è quindi puzza di decomposizione: il frettoloso trapianto dei due cuori del centrodestra in quel frankestein politico che ormai da due anni ci governa, ha avuto più d’una crisi di rigetto e ormai serve ben poco inveire contro giudici “talebani” complottanti e fantomatici “furbi” a cui piacerebbe falsare i risultati (ovviamente plebiscitari) della tornata elettorale. Gli specchietti per allodole mediatiche confezionati dai Minzolini di turno non hanno più senso davanti alla manifesta incapacità della leadership di gestire una situazione di crisi a cui nemmeno San Bertolaso saprebbe porre rimedio.

Non resta che aspettare e rimanere in questo limbo politico: perché, sia chiaro, se anche Berlusconi e i suoi dovessero improvvisamente scomparire dalla scena - fagocitati da chissà quale scandalo o dal semplice autodafé - allo stato attuale delle cose non esiste né una figura, né un partito in grado di colmare decentemente quello che è un vuoto istituzionale in regime da decenni. Se la bolla berlusconiana dovesse effettivamente scoppiare, i risultati potrebbero essere esplosivi.


 

di Giovanni Gnazzi

Si chiama Milioni, Alfredo Milioni. Per combinazione freudiana presenta lui le liste del PDL per la provincia di Roma. O meglio, così dovrebbe essere, perché galeotto fu un panino. Così, almeno, racconta la versione romanzata della figuraccia che i berluscones hanno guadagnato nella presentazione della lista. Vuoi il panino, vuoi il ritardo, vuoi la rigidità della norma, il fatto è che arrivano tardi, fuori tempo massimo; comunque oltre i limiti stabiliti dalla legge che disciplina modalità e tempi per la consegna regolare delle liste elettorali. Il perché è ancora tutto da chiarire.

Rotondi, una delle menti più lucide della destra, parla d’idiozia e d’incapacità diffusa. Berlusconi è furioso. Lo stesso La Russa si dice affranto da tanta leggerezza, ma rimanda al dopo voto la resa dei conti interna. La vicenda, effettivamente, di per sé racconta di un’imperizia al limite dell’idiozia. Di dilettantismo spinto oltre ogni limite, di mancanza di capacità amministrative inquietanti per chi si candida a governare. Se nemmeno un minimo atto formale - per quanto delicato - riescono a fare senza danni, chissà che farebbero amministrando una regione.

Ma che sia imperizia o altro, che sia allergia certificata alle norme, qualsiasi esse siano; che sia una manifestazione indiretta di arroganza politica, che fa pensare di essere al di sopra delle norme e delle leggi (tendenza non proprio nuova, va detto), il fatto genera ilarità. I peones del cavaliere ora urlano, strepitano; gli ex-fascisti parlano di golpe (sono intenditori della materia) e invocano l’intervento del Capo dello Stato, che ovviamente è costretto a ricordargli, con aplomb istituzionale, che le funzioni costituzionali del Colle niente hanno a che vedere con quelle dei tribunali.

Ma sarebbe più interessante vedere davvero cosa c’è in quel panino. E scoprire, per esempio, che la compilazione della lista è stata una battaglia interna con feriti e abbandonati. Che sulla lista laziale del PdL si sono incrociate le lame dello scontro interno alla destra. Vittima designata proprio la stessa Polverini, fortemente voluta da Gianfranco Fini e per suo conto colpita più volte. Intendiamoci: Renata Polverini avrà comunque la lista sua, quella di Storace e quella dell’UDC di Casini a sostenerla, con i loghi ben in vista. Sono proprio Storace e Casini, infatti, che più hanno da guadagnare dall’assenza del logo del PdL sulla scheda; gli elettori di destra che decideranno di votare Polverini, con lei voteranno infatti i consiglieri regionali delle liste apparentate regolarmente presenti sulla scheda. E forse, in quel panino, c'era l'ultimo gesto disperato destinato a cambiare la composizione di quella lista.

Casini, opportunamente, ricorda con un po’ di perfidia che “non basta salire su un predellino per fare un partito: si deve saper fare politica”. Anche in Lombardia qualche problema c’è: Formigoni vede rigettare la propria lista dal Tribunale e, anche al Pirellone, il segno di un conflitto interno appare ben visibile. Non è un caso, insomma, se anche il Giornale di famiglia sia andato giù contro il suo stesso partito con espressioni violentissime che non lasciano margini d’interpretazione sullo scontro interno al PdL.

Il centrosinistra, Bonino in testa, ritiene naturalmente che ogni forzatura rappresenterebbe una palese violazione della legge e che, per ciò stesso, renderebbe illegale la campagna elettorale. Chiede dunque alla politica di fare un passo indietro e lasciare che la Corte D’Appello, alla quale si è rivolta il Pdl con un ricorso, decida senza subire pressioni. Posizione ineccepibile sul filo della logica politica, certo. Ma, aldilà dell’impossibilità di spiegare alla destra italiana che le funzioni della magistratura vanno rispettate e che la divisione dei poteri non è l’architettura complottistica di un regime khmer, sarebbe comunque auspicabile vedere la loro lista presente sulla scheda elettorale.

Sarebbe opportuno, da parte del centrosinistra, un appello all’ammissibilità della lista del PdL. L’assenza della loro lista li ricompatterebbe contro un presunto “nemico”, sia essa la “burocrazia” o la sinistra. La presenza della lista risulterebbe, invece, un’arma micidiale rivolta contro se stessa. Perché trasferirebbe all’interno del PdL il conflitto, facendo emergere le diverse opzioni che, nel quadro di una guerra intestina senza ormai più fronzoli, otterrebbe la deflagrazione del gruppo dirigente berlusconiano a Roma e non solo a Roma. E alla fine perché una sconfitta possibile della destra - e certo dopo questa prova di credibilità più probabile - ha bisogno di essere vissuta fino in fondo, senza alibi e senza polemiche e scontri che partirebbero dal non riconoscimento del risultato elettorale. L’ingovernabilità che ne seguirebbe metterebbe a dura prova la convivenza civile nella regione.

Se pure con la sua lista la destra perdesse, la resa dei conti interna sarebbe violentissima; se anche vincesse, le scorie della campagna elettorale peserebbero moltissimo al suo interno sin dal giorno dopo. O sconfitta o vittoria di Pirro, insomma. Per una volta, sarebbe opportuno batterli con quella lungimiranza politica che distingue, come sempre, l’intelligenza dall’arroganza. Le idee, a volte, valgono più dei Milioni.

di Mariavittoria Orsolato

La questione morale, invocata a gran voce dopo la sequela di scandali che hanno scosso la politica nostrana in modo pressoché bipartisan, e le imminenti elezioni regionali stanno costringendo il governo a escogitare delle misure che, almeno in apparenza, tutelino l’onorabilità e soprattutto la credibilità delle istituzioni. Se il provvedimento anti-corruzione - varato in tutta fretta per metter una pezza agli affaires Bertolaso e Di Girolamo - non ha per ora oltrepassato la linea di fuoco del Consiglio dei Ministri, a tentare di redarguire i molti che hanno fatto della politica una ghiotta occasione di lucro dovrebbe arrivare ora un inaspettato giro di vite sull’eleggibilità dei condannati.

Il disegno di legge approvato in questi giorni in Parlamento è stato in realtà elaborato ben 15 anni fa dal giudice calabrese Romano De Grazia e dal penalista professor Mario Alberto Ruffo, e riguarda il divieto per i sorvegliati speciali di svolgere propaganda elettorale “in favore o in pregiudizio di candidati e simboli”. Se di per sé il testo non aggrava le sanzioni per i malavitosi dediti agli intrallazzi politici (già privati del diritto di voto attivo e passivo), il ddl Lazzati va però a colpire quei politicanti che in ragione di una vittoria agognata si appellano ai suddetti soggetti per ampliare il consenso: per loro il nuovo ordinamento prevede la reclusione da 1 a 6 anni e, se la sentenza passa in giudicato, è contemplata l’ineleggibilità del candidato per un periodo non inferiore a 5 anni e non superiore a 10. Inoltre, nel caso in cui il candidato sia stato effettivamente eletto attraverso il cosiddetto voto di scambio, l’organo istituzionale di appartenenza ha il dovere di dichiararne la decadenza formale dall’incarico.

Che questo sia uno dei pochissimi “mirabili atti” del governo Berlusconi quater sono in molti ad ammetterlo ma, dal momento che il lupo pur perdendo il pelo non necessariamente perde il congenito vizio, l’approvazione del disegno di legge ha scatenato una vera e propria diaspora all’interno del Popolo delle Libertà e della già fragile coalizione con la Lega; uno scontro in cui - come da copione - vediamo giustapposte l’ala finiana e i forcaioli padani contro la parte forzitaliota che ha fatto del garantismo la sua necessaria ragione di sopravvivenza e consenso.

La battaglia era già cominciata in Commissione Affari Costituzionali dove i commissari incaricati di valutare la costituzionalità della proposta, avevano discusso animatamente sui requisiti necessari alla decadenza del candidato colluso: i dubbi riguardavano soprattutto l’incertezza nel definire quale comportamento del candidato costituisse il discrimine tra la consapevolezza e la leggerezza.
Le remore però sono state messe da parte in nome di una rapida approvazione, volta soprattutto a dare un segnale concreto di contrasto alla criminalità dei colletti bianchi in vista delle delicate elezioni regionali, che si terranno tra meno di un mese ma che potrebbero rivelare l’effetto boomerang di una siffatta misura.

Al momento della votazione a Montecitorio si consuma infatti l’ennesima rottura tra i deputati della defunta AN e i leghisti, determinati ad arrivare ad un’approvazione in tempi rapidi, ed i pidiellini fedeli alla linea di Arcore che, forti della loro storia partitica, vedevano nella convalida del testo una “clava giudiziaria da armeggiare da parte di un Ciancimino qualsiasi”. Se a questo si aggiunge il fatto che Lega ed ex An premono per estendere il ddl Lazzati a tutti i candidati iscritti nelle liste per le regionali, ben si capirà l’agitazione che serpeggia tra i banchi della maggioranza.

Siamo quindi alle solite, con una parte del governo che attacca i magistrati e con l’altra che li difende, con un presidente della Camera che crede che “una destra con la bava alla bocca non piaccia” e con un premier che, ormai incontenibile e incontentabile, paragona i pm ai talebani di Al Quaeda. Che nel Popolo delle Libertà non esistesse più una linea politica condivisa lo avevano svelato gli atteggiamenti di aperta sfida che Fini aveva adottato nei confronti delle derive berlusconiane; ma su questa delicata questione è evidente che ormai le distanze non sono più tanto sul piano della mera tattica, quanto piuttosto toccano i principi fondamentali e gli assunti che stanno alla base dell’idea di centrodestra attuale.

Una versione della politica che ha una fisionomia sprezzante e che non può e non vuole ricorrere a figure di garanzia interposte - come appunto i magistrati - per avvalorare la bontà del suo operato, ma che si fonda sul consenso aprioristico creato da interminabili sequele di annunci ad effetto e dall’innegabile forza centripeta della figura di Mr. B., prova vivente della fallacia di una giustizia forzatamente portata da essere, se mai fosse possibile, ancor più intempestiva.

 

di Nicola Lillo

La Cassazione ha emesso la sua sentenza. “Il reato è prescritto”. Il processo a David Mills, consulente Fininvest per la finanza estera inglese, si conclude così. Secondo i titoli del Tg1 delle 13.30 l’avvocato inglese è assolto. Libero, invece, titola direttamente: “Silvio assolto”. Il Giornale non è da meno: “vittoria di Berlusconi”. Siamo sicuri? Non è proprio così. La sentenza cancella la condanna di Mills a 4 anni e mezzo, ma lo riconosce in sostanza come un corrotto. E, se esiste un corrotto, a rigor di logica dovrà pure esserci un corruttore. Mills commise, infatti, falsa testimonianza a favore di Berlusconi, per ricevere in seguito il pagamento per il favore fatto al nostro Premier. Una corruzione definita “susseguente”.

La Suprema Corte si è soffermata sul momento consumativo di quella “corruzione in atti giudiziari susseguente”. Secondo il pg Gianfranco Ciani, il periodo è il novembre 1999, quando Mills ricevette i soldi promessi dal top manager di Fininvest, Carlo Bernasconi (oggi scomparso). Secondo l’accusa del pm Fabio De Pasquale, invece, il giorno era il 29 gennaio 2000, cioè quando Mills li staccò e se li intestò. Questa differente lettura giuridica fa cambiare, e di molto, le sorti dei due imputati. I tre mesi di scarto, infatti, modificano i tempi di prescrizione. Seguendo la linea dell’accusa, ad oggi, il reato non sarebbe prescritto. Visione, però, non seguita dalla Suprema Corte, che al contrario ha deciso di annullare la condanna ai 4 anni e mezzo in Appello.

Questo è anche il risultato di una delle tante leggi ad personam: la ex-Cirielli del 2005, secondo cui i tempi di prescrizione sono gli stessi della pena massima del rispettivo reato per cui si è imputati. Per la corruzione si passa dunque dai 15 anni di prescrizione ai 10, il massimo di anni, appunto, che possono essere inflitti ad un imputato per questo reato. La condanna per Mills sarà ora, esclusivamente, pecuniaria. Le statuizioni civili disposte in Appello di 250 mila euro alla Presidenza del Consiglio, come “danni arrecati all’imparzialità dell’amministrazione della giustizia, rappresentata da Palazzo Chigi, tramite l’avvocatura dello stato” (Corriere della Sera).

E le conseguenze per Berlusconi? Bene, ma non benissimo. È probabile, infatti, che il processo a carico del Presidente del Consiglio arrivi ad una condanna in primo grado, cosa che il Premier non desidera. Nel 2011, poi, si prevede anche per lui la prescrizione. “Favolose” le dichiarazioni, rilasciate al Corriere, dall’avvocato Ghedini: “La Cassazione non ha detto che Mills è colpevole, ma ha detto che la sua sentenza di condanna va annullata perché il reato è prescritto, e cioè perché sono passati più di dieci anni dal momento in cui sarebbe stato compiuto. Tutto qui: nessun accertamento di responsabilità”.

Purtroppo per l’avvocato e per il suo assistito non è così. In primo luogo, nel caso in cui, la Cassazione non avesse “accertato alcuna responsabilità”, detta alla Ghedini, avrebbe ammesso che il fatto contestato non è reato, dunque assolto. Ma questo non è avvenuto. In secondo luogo, il risarcimento alla Presidenza del Consiglio c’è, sintomo che nel civile una condanna si è verificata. In terzo luogo bisogna dire che per prescrizione si intende l'estinzione di un reato sul presupposto del trascorrere di un determinato periodo di tempo. Traduzione: trascorsi un definito numero di anni il processo non può più andare avanti, ed il reato si ritiene estinto.

Questo, però, non implica il fatto che i crimini contestati non siano stati commessi. Mills, infatti, secondo la sentenza della Suprema Corte, è un corrotto; ma non lo si può condannare, poiché la legge (voluta dal suo corruttore) impedisce di proseguire il processo. Se c’è il corrotto, c’è anche il corruttore, come detto prima. Cioè Silvio Berlusconi, che intestò all’avvocato inglese 600.000 dollari come “ringraziamento” per “aver tenuto Mr. B. fuori da un mare di guai” (parole di Mills).

In previsione del processo che porterà, molto probabilmente, alla condanna in primo grado del Premier, si prevedono fuochi d’artificio: delegittimazione delle toghe, leggi e leggine pronte ad impedire qualsiasi condanna. Su tutti il processo breve. Il legittimo impedimento, infatti, congela i tempi del processo, non risolvendo il problema. Il ddl sul processo breve, invece, risolve eccome tutti i patemi di Mr. B. Non risolve però i numerosi problemi della giustizia. Anzi. Lui intanto è per l’ennesima volta salvo. La mandria di azzeccagarbugli-parlamentari servirà pure a qualcosa, no?

di Ilvio Pannullo

È da un po’ di tempo che la questione del futuro della Fiat sta tenendo banco sulle prime pagine dei giornali. Dopo gli interrogativi sul futuro di due centri di produzione di Termini Imerese e Pomigliano d’Arco, nevralgici per le rispettive economie locali, i problemi occupazionali adesso incominciano a presentarsi anche al Nord. Dopo le due settimane di cassa integrazione per 30 mila operai, a cavallo tra febbraio e marzo - la prima è già cominciata - l’azienda di Torino ha stabilito altre due settimane di cassa integrazione agli Enti Centrali della Fiat. Non solo operai, dunque.

Il calo degli ordini per le vetture del Gruppo Fiat ha spinto l'azienda, già ferma sul piano produttivo, a bloccare per due settimane il lavoro degli impiegati. Secondo quanto riferiscono i sindacati, i “colletti bianchi” degli Enti centrali di Mirafiori sono stati posti in cassa integrazione dal 22 al 28 marzo e dal 5 all'11 aprile. Nello specifico, alla Fiat Group Automobiles, saranno in cig 1200 persone nella prima settimana e 2400 nella seconda. Alla Powetrain di Torino Stura saranno 400 nella prima settimana e 800 nella seconda, mentre all'ufficio Acquisti saranno 100 nella prima settimana e 400 nella seconda.

"Temiamo che anche per i colletti bianchi questo sia solo l'inizio", ha detto il segretario generale della Fiom torinese, Giorgio Airaudo. "La Fiat continua ad adeguarsi al mercato con il ricorso alla cassa integrazione", ha aggiunto.  In ogni caso ad andarci di mezzo sono sempre i lavoratori che - è bene ricordarlo - svolgono le loro mansioni in stabilimenti tutti costruiti con soldi pubblici. Che la situazione sia paradossale è cosa, infatti, nota a tutti. Nonostante nel corso degli anni l’industria automobilistica torinese sia stata ricoperta di soldi pubblici, al punto da mettere lo Stato nelle condizioni di rilevarne la proprietà se solo ve ne fosse stata la volontà, ad oggi a tirare i fili del gioco sono ancora gli eredi della famiglia Agnelli.

E sarebbe difficile il contrario visti i loro antagonisti: davanti alla chiara volontà, manifestata dai vertici dell’azienda, di delocalizzare la produzione con effettivi catastrofici per le aree dove esistono gli stabilimenti, il governo ha opposto il ministro dello Sviluppo Claudio Scajola. Proprio a lui, l’unico ministro italiano che, il 29 aprile 2009, diceva: "L’accordo tra Fiat e Chrysler consentirà di trainare quegli stabilimenti in Italia, come Pomigliano d’Arco o Termini Imprese che oggi soffrono ancora".

In questa crudele partita tra l’azienda di Torino e il governo, i ruoli appaiano abbastanza definiti: l'amministratore delegato Sergio Marchionne interpreta il ruolo del poliziotto cattivo che a più riprese grida ai mercati e ai lavoratori la volontà chiara dell'azienda di chiudere Termini Imerese e il totale disinteresse di questa per eventuali ulteriori incentivi, mentre il presidente Luca di Montezemolo gioca il ruolo del poliziotto buono, che cerca di salvare rapporti con la politica, rapporti di cui il Lingotto continuerà ad avere comunque bisogno. Alle loro spalle, più regista che spettatore, silenzioso ma sempre presente, c'è il grande azionista: John Elkan, vicepresidente di Fiat.

Per capire il ruolo di Elkan in questa fase bisogna partire da una scelta tattica che è stata letta come un errore di comunicazione. Lunedì 25 gennaio il consiglio di amministrazione Fiat annunciava di aver chiuso l'anno 2009 con una perdita netta di 848 milioni di euro ma che, nonostante questo, nonostante un indebitamento netto a 4,4 miliardi di euro, verrà distribuito un dividendo complessivo di 237 milioni. Due giorni dopo Marchionne metteva in cassa integrazione 30.000 dipendenti del gruppo per il calo della domanda gennaio.

La concomitanza dei due eventi - dividendo e cassa integrazione - contribuisce ragionevolmente a far infuriare gli operai che in alcuni stabilimenti, soprattutto Termini Imerese, organizzano scioperi spontanei. C'è stato chi ha sostenuto che quei soldi servissero all'erede dell'avvocato per sistemare i conti della Juventus, ma alla Exor, la finanziaria che controlla la Fiat, camera di compensazione degli eredi Agnelli di cui Elkann è presidente e che incasserà 67 milioni dei 237 del dividendo, danno un'altra spiegazione: Marchionne -  come rilevato anche dal quotidiano La Stampa  - sta per invadere gli schermi americani con gli spot delle nuove Chrysler firmate Fiat. Aveva quindi bisogno di lanciare un messaggio di credibile ottimismo ai mercati finanziari, ancora non tutti convinti che l'espansione internazionale del Lingotto, si rivelerà davvero un successo.

In questo scenario è molto importante comprendere le intenzioni del grande azionista e soprattutto capire quale sia la sua idea per il futuro dell'azienda, un'azienda - non bisognerà mai smetterlo di ripetere - che oggi esiste solo grazie ad una serie infinita di incentivi, agevolazioni, sconti ed intermediazioni sopportate dalle tasche del contribuente italiano. John Elkann, da presidente Exor, sostiene in prima persona la linea di apertura internazionale della Fiat. Si racconta che è sempre più spesso in Asia, quasi sempre in Cina. I primi risultati degli interessi asiatici del rampollo della famiglia Agnelli si sono visti  a luglio, quando la Fiat ha siglato una joint venture con la Guangzhou Automotive Company per la produzione di 140.000 vetture e 220.000 motori all'anno, un investimento da 400 milioni di euro nello stabilimento di Changsha, provincia dello Hunan, operativo dall'autunno 2011.

Si comprende bene, dunque, che tutto questo frutto di una scelta strategica, che ha alla base il convincimento che in Italia avviare nuove iniziative sia semplicemente inutile. Se vi fosse giustizia, davanti ad un simile progetto, che per l’Italia significherebbe un tracollo totale di alcune aree importanti  del paese, il governo dovrebbe imporre alla Fiat la restituzione di tutto quanto indebitamente ottenuto in questi anni. Ma questa - si sa - è pura utopia, tra simili non si mordono.

È il mercato a fare le regole e produrre in Cina è sicuramente meno costoso e logisticamente più efficiente.  Il punto è che le carte sono regolari solo perché è il tavolo da gioco ad essere truccato. La delocalizzazione della produzione da parte di una società che senza il poderoso aiuto del contribuente italiano oggi non esisterebbe, è possibile solo grazie all’intreccio d’interessi tra Governo e Confindustria. Le due facce della stessa medaglia.


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