di Laura Viviani

Ventitre anni fa l’80% degli italiani si schierarono contro le centrali nucleari. Un no secco e deciso. Il 23 luglio 2009 il governo ha emanato però una legge che, tra le altre cose, prevede la reintroduzione del nucleare in Italia. Il provvedimento aveva come buon proposito quello di dare uno scossone all’economia del nostro paese, così è stata motivata la scelta nucleare. Il Governo comunque non ha ancora reso noto il suo piano nucleare, molto probabilmente si pronuncerà solo dopo le elezioni regionali. Un tema troppo scottante per discuterne in campagna elettorale? Pare proprio di sì, tanto che Legambiente e Greenpeace hanno lanciato un appello a tutti i candidati alla carica di governatore regionale affinché si esprimessero in modo chiaro e deciso sulla questione del nucleare.

Sono tredici le regioni chiamate al voto domenica 28 e lunedì 29 marzo: Piemonte, Lombardia, Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria, Lazio, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria. La campagna elettorale televisiva, la più incisiva, non è delle più accese, dato che i riflettori dei maggiori talk show di approfondimento politico sono stati oscurati con forza dai dirigenti Rai. Il dibattito politico è stato così rilegato ad una comunicazione politica vecchio stile. Tribune politiche soporifere che altro non sono che delle vetrine per i candidati che, indisturbati, ripetono ai cittadini le linee guida studiate a tavolino dai partiti. Il ruolo di garanzia informativa che il giornalista dovrebbe rappresentare per i cittadini viene assolutamente cancellato. Sarà il cittadino che, suo malgrado, dovrà fare un bel po’ di sforzi in più per conoscere e capire i programmi dei candidati e, per esempio, le loro posizioni sulla riapertura del governo all’energia nucleare.

Approvata il 23 luglio 2009, la legge 99, dal titolo "Disposizioni per lo sviluppo e l'internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia", contempla appunto la reintroduzione del nucleare in Italia e affida al governo la decisione ultima in merito alla localizzazione delle centrali, degli impianti per la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi e per lo smantellamento degli stessi. Potere decisionale che contrasta con quanto stabilito dal Titolo V della Costituzione sui poteri concorrenti delle regioni in materia di governo del territorio.

Solo i presidenti di regione avranno la possibilità di opporsi alla costruzione di centrali, come peraltro hanno già fatto undici regioni che hanno presentato ricorso alla Corte costituzionale ed è quindi essenziale sapere cosa hanno dichiarato riguardo l’utilizzo dell’energia nucleare gli ipotetici governatori.

I candidati di centro sinistra si schierano apertamente per il no al nucleare. Mercedes Bresso, governatore uscente della regione Piemonte, si dice “contraria a questo nucleare ma a favore della ricerca”, dato che ha finanziato studi sulla piccola fusione nucleare. Sì quindi ad un nuovo tipo di nucleare se esiste, ma non a quello che il presente ci offre. Sulla stessa lunghezza d’onda il candidato del Pd per la Lombardia, Filippo Penati, che afferma che solo tra 25 anni sarà possibile intravedere una prospettiva che induca a valutare il ritorno alla tecnologia atomica, ma “oggi questo nucleare non ci serve: non porterebbe neppure lavoro alle aziende italiane”. Più di un candidato esprime preoccupazione per la volontà del governo di scavalcare la competenza delle regioni nella sua scelta di consentire o meno l’impianto di centrali nucleari sul territorio.

Piuttosto indecisi i candidati dell’Udc. Savino Pezzotta, candidato in Lombardia, non accenna all’argomento nel suo programma di governo, ma a domanda diretta risponde che “servono maggiori certezze sulla sicurezza del nucleare, anche se noi siamo tendenzialmente favorevoli”.  Di opinione opposta il suo collega di partito in corsa nel Veneto, Antonio De Poli, che attacca il suo avversario Pdl Luca Zaia: “Zaia tace perché sa sul nucleare, perché siede in Consiglio dei Ministri. Parlerà quando potrà farlo senza perdere voti. Non ha un compito difficile, il ministro Zaia. Deve solo dire, come dico io: se sarò governatore mi opporrò con tutte le forze ad una centrale nucleare in Veneto”.

De Poli centra il nocciolo della questione e le relative perplessità che scaturiscono dalle dichiarazioni della maggior parte dei candidati Pdl. Non si schierano contro la decisione del governo di reintroduzione del nucleare ma, vuoi l’autosufficienza a livello energetico, vuoi le condizioni sfavorevoli a livello territoriale, non vogliono il nucleare nelle loro regioni. Roberto Formigoni (Lombardia), Renata Polverini (Lazio), Luca Zaia (Veneto), Sandro Biasotti (Liguria), Monica Faenzi (Toscana), Fiammetta Modena (Umbria), Erminio Marinelli (Marche), Stefano Caldoro (Campania), Rocco Palese (Puglia), Giuseppe Scopelliti (Calabria): sono loro i candidati che hanno scelto la posizione più comoda, quella definita con l’acronimo NIMBY, dall’inglese “non nel mio cortile”. In parole povere: sì al nucleare perché fa risparmiare, ma non nella mia regione perché i cittadini non lo vogliono. La posizione più chiara è quella di Roberto Cota, Pdl, che appoggia il nucleare anche nel suo Piemonte, perché pensa che “il nucleare sia una fonte di energia pulita”.

Merita una riflessione la scelta del governo di non rivelare i possibili siti prescelti per il nucleare. Si emana una legge, la si vota in Parlamento, ma non si comunica ai cittadini se si vogliono costruire le centrali nelle loro regioni, perché si ha paura di perdere voti. Ci si chiede come si possa relegare il nucleare ad un tema di scarsa importanza di cui non si parla, di cui non si deve dire, anziché essere chiari con i cittadini che devono ragionare ed essere consapevoli delle loro scelte di voto.

 

 

di Nicola Lillo

“E Annozero può ricominciare…”. È così che Santoro dà il via a “raiperunanotte”. In uno studio allestito in poco più di 24 ore all’interno del palazzo dello sport di Bologna, va in scena la libertà di informazione. Quella libertà sottrattaci dall’oscuramento dei talk show politici in campagna elettorale. Una censura che ha mobilitato e smosso gli animi. Erano, infatti, in seimila dentro al Paladozza, e altrettanti all’esterno del palazzetto. Ma il più era a casa, davanti al proprio computer: 120 mila gli accessi contemporanei sul web e primato italiano di maggior evento seguito sulla rete. Tanti gli ospiti. Applauditissimi.

Il primo è Travaglio, che ha ricostruito i passaggi della vicenda delle intercettazioni della procura di Trani sul caso Rai e Agcom. Poi Floris e Lerner. Norma Rangeri, Barbara Serra e Loris Mazzetti. Quest’ultimo sospeso dalla Rai per alcuni articoli contro la sua azienda scritti su Il Fatto Quotidiano. Riccardo Jacona e l’intervento video di Milena Gabanelli. Sandro Ruotolo, che ricostruisce l’audio delle intercettazioni di Trani. Numerosi anche gli artisti, come Elio e le Storie Tese e Venditti. Presente anche Morgan, che lascia il palco prima della fine della serata, probabilmente per alcune contestazioni.

C’erano le operaie della Omsa, un’azienda italiana che funziona, ma che licenzia perché delocalizza in Serbia per consentire maggiori utili all’imprenditore. Sono intervenuti anche il trio Medusa, Crozza e le immancabili vignette di Vauro. Tante anche le interviste. Ad Emilio Fede, che sciorina falsità una dietro l’altra: “Berlusconi non ha mai chiesto la chiusura di Annozero”. Basterebbe leggere qualche giornale, addirittura quello del capo.

Riempie gli schermi poi l’estro di Benigni, intervistato da Sandro Ruotolo. Una ventata di buon umore con abbracci sorrisi e baci (in bocca a Ruotolo stesso), e tanta improvvisazione. Intervista anche al grande regista Mario Monicelli, che parla di “rivoluzione”. Un taboo ormai: “La rivoluzione è necessaria, soprattutto in un paese come l’Italia che non ne ha mai fatta una”. Poi il ricordo di Enzo Biagi, applaudito anche lui. Mancava solo uno dei tre epurati dell’editto Bulgaro.

“Come si chiama quello..?” Berlusconi dixit. Si chiama Luttazzi. Al suo ingresso la platea esplode pronta ad una delle sue solite performance teatrali: il rapporto anale come metafora della situazione politico sociale italiana. Applausi a scena aperta e “standing ovation”. Il finale a sorpresa. Il giuramento di Santoro, Vauro, Travaglio, Ruotolo e tutta la troupe di Annozero, ripetuta poi all’unisono dal pubblico in piedi: “Giuro solennemente che ora e sempre la faremo fuori dal vaso”. L’idea è: niente censura e niente bavaglio! Applausi scroscianti e un Santoro che esce dal Paladozza di corsa insieme alle ex operaie della Omsa immergendosi nei cinque mila fuori dal palazzetto.

Non si sono fatte attendere le reazioni del Pdl. Nel corso della notte, infatti, Silvio Berlusconi da Bruxelles parla di Santoro: “L'Agcom dovrebbe impegnare le sue forze per sanzionare alcune trasmissioni che sono un obbrobrio incivile e barbaro”. Parole durissime. Pochi minuti prima aveva però spiegato di non voler commentare la serata perché, afferma “dovrei essere molto severo nei confronti di ciò che è stato fatto in queste trasmissioni”. Ed infatti…Continua poi chiedendo all’Agcom di sanzionare le trasmissioni del giornalista e non Tg1 e Tg5.

È infatti di ieri la notizia di una sanzione di 100 mila euro ad entrambi i telegiornali per aver mandato in onda troppo Pdl durante la par condicio. Una segnale per dire che ci sono, che l’Agcom c’è ed è operativa. Ma non basta una multa per far valere i propri ruoli. Dopo lo scandalo di Trani l’Autorità di garanzia sembra non avere troppa credibilità. Sembra il minimo dopo uno scandalo di tale portata, che in altri Paesi avrebbe portato alle dimissioni sia del Presidente del Consiglio, sia dei membri Rai e dell’Agcom.

Ma d’altronde siamo in Italia e se Barbara Serra, giornalista di Al Jazeera a Londra, commenta dicendo che “all’estero la stampa non parla più degli scandali italiani, come le liste o le intercettazioni di Trani, e sembra quasi che queste cose siano divenute abitudine in Italia, e i giornali non si stupiscono più di certe anomalie”, allora vuol dire che siamo caduti molto in basso. E ce ne siamo accorti. Meglio tenere a mente le parole profonde di Monicelli e il loro denso e ideale significato.

 

di Rosa Ana De Santis

Questa volta la denuncia arriva dalle pagine del New York Times ed è rivolta direttamente al Cardinal Bertone e al Santo Padre. Avrebbero occultato, per proteggere la Chiesa dallo scandalo, le violenze e gli abusi commessi dal reverendo Lawrence C. Murphy, di cui sono stati vittime 200 bambini sordi di una scuola del Wisconsin, dove l’uomo di Dio ha insegnato dal 1950 al 1977. E’ forse la proporzione dello scandalo che investe in questi ultimi tempi la Chiesa che può spiegare la missiva della condanna che il Papa ha rivolto alla Chiesa Irlandese. In altri tempi sarebbe arrivata con secoli di ritardo, come ben ci ha dimostrato il Pontificato di Wojtyla.

Solo qualche giorno fa, infatti, i giornali parlavano degli abusi sulle voci bianche del coro di Ratisbona, dove Padre Georg Ratzinger, il fratello maggiore di Papa Benedetto XVI, era stato direttore 1964 al 1994. Punizioni corporali di cui ha riferito di aver qualche annebbiato ricordo e violenze sessuali di cui dice di non aver mai saputo nulla. E poi il silenzio dell’arcidiocesi di Monaco, dove venivano sistematicamente sepolte denunce e scomode testimonianze proprio quando era guidata da Papa Ratzinger,

Anche sul caso americano ci sono documenti tangibili. Missive cui Ratzinger non rispose. Infine le disposizioni di Bertone nel 1996 che bloccarono anche il processo canonico per un reato ormai in prescrizione. Nessuna punizione per il prete pedofilo. Né ufficiale, né clandestina. Fu lasciato comodo nella sua vita di religioso senza alcuna preoccupazione per le sue piccole vittime.

Questa è la Chiesa che leggiamo in cronaca ed è per questo che suona ancora più disgustosa l’intromissione di queste ultime ore di campagne elettorale nella scena politica italiana rivendicando un ruolo di guida morale sui cosiddetti “valori non negoziabili” attraverso cui dare precise indicazioni di voto per i cristiani elettori. Caduta la tesi del complotto anti-papalino ed emersi i numerosi casi di pedofilia, la situazione per i vertici della Chiesa Cattolica si fa sempre più imbarazzante. E’ rimasto solo il presidente del Consiglio a far finta di niente e a ricordare la distinzione tra peccato e peccatore come via dell’indulgenza. Deve saperne qualcosa di questa flessibilità teologica ad personam.

La novità che salta fuori da questi ultimi scandali ci dice invece molto di più. Non ci sono singoli preti pedofili, singoli reati isolati e segnalati. Piuttosto una sistematica omertà, un’osmosi di colpa tra i carnefici e i protettori seduti in Vaticano che diffonde un’ombra di sospetto su tutta la Chiesa. Un modus operandi che ha contraddistinto del resto l’istituzione ecclesiastica in tutta la sua storia e che rimanda al nodo irrisolto della temporalità e del potere politico di cui la Chiesa ha bisogno per tutelare i propri privilegi e patrimoni.

Per questa ragione il documento della CEI che inizia con la condanna assoluta dell’aborto e di quei candidati come la Bonino che su certe battaglie civili hanno costruito la propria storia di militanza, avvicinato al crimine della violenza sessuale e al silenzio del Vaticano sui carnefici,  non può che suscitare una grottesca reazione di biasimo. Se è questa la Chiesa che può dare lezioni di rettitudine, che può comminare sanzioni sui costumi dei cittadini, sulle unioni di fatto, sull’omossessualità e sulla contraccezione, iniziano a chiederselo sempre più fedeli.

Dalle pagine de Il Foglio, Ruini - ormai in pensione ma non per questo meno pericoloso - qualche giorno fa fotografava bene l’atteggiamento della Chiesa di fronte ai propri peccati. I pedofili non sono tutti preti - scriveva - e quelli che lo sono é per colpa di una società troppo ossessionata dal sesso. Non una parola sulle vittime sacrificate, sull’assenza di giustizia voluta dall’alto. Una manciata di parole che dice moltissimo di questa schizofrenia ecclesiastica. L’oscurantismo per gli altri e l’assoluzione in casa. La morale di fuoco del nostro Papa teologo e l’eccezione estesa ai proprio uomini.

Del resto solo ricorrendo a queste ragioni possiamo spiegare la marcia indietro dei vescovi sul documento pre-elettorale. La distinzione tra valori “non negoziabili” quali la difesa della vita e quelli “negoziabili” quali i diritti degli immigrati, raccontava in effetti con troppa onestà cosa fosse diventata l’etica cristiana in mano agli uomini di Chiesa. Nessuna meraviglia, quindi, se sono capaci di tollerare con disinvoltura un crimine contro bambini già nati, mentre lanciano anatemi integralisti sull’interruzione di sviluppo per un grumo di cellule indifferenziate. Un non senso morale per cui chiediamo un aiuto d’interpretazione al Papa teologo, un maestro dell’etica duale. Scomunica per tutti i cittadini e abito sacro indosso ai pedofili. Un esempio sublime di come si possa essere eccezionali capi di Stato e i peggiori uomini di Dio.

 


 

di Rosa Ana De Santis

La piazza del milione taroccato ha nascosto il corteo che sabato scorso in quelle stesse ore sfilava per difendere l’oro blu. In testa il profetico Padre Zanotelli, le numerose associazioni impegnate, fedeli di chiese cristiane e cittadini comuni. La Giornata mondiale dell’acqua rende ancora più gravi le scelte del nostro governo. Anche su questo la maggioranza ha deciso di andare avanti a colpi di fiducia, togliendo a una questione politica di così grande rilievo ogni dignità e ogni possibilità di approfondimento.

Il Parlamento messo all’angolo non può ragionare - se non a vuoto - su cosa questo comporterà nelle regioni in cui c’è un problema forte di accesso all’acqua, delle conseguenze nefaste per l’agricoltura, dell’iniquità fuori controllo dei canoni e delle tariffe regionali e, soprattutto, dell’immoralità su cui poggia la speculazione del profitto sulla risorsa primaria della vita. E’ ancora una volta l’Italia dei Valori ad alzare i toni e a reagire scomposta all’ennesima immoralità del governo.

Lo scenario internazionale spinge alla ricerca di nuove soluzioni. La scarsità di acqua è - e sarà sempre di più - il motore di nuovi conflitti. La scelta dell’Italia arriva inoltre in controtendenza con quella di molti altri Paesi Europei. La Francia, ad esempio, ha già deciso di tornare indietro sulla questione dell’acqua, riconoscendo il fallimento anche economico della scelta della privatizzazione. Prezzi da capogiro e cattive gestioni, che miglioravano solo in prossimità del rinnovo, hanno costretto molti comuni francesi a ritornare alla proprietà pubblica. La qualità certificata della risorsa idrica pubblica, grazie alla buona pubblicità, non è presa in considerazione, né considerata attendibile e l’Italia è arrivata così ad essere il terzo paese al mondo per consumo di acqua in bottiglia. Un prodotto tra tanti altri sul bancone del supermercato.

Il far west dei canoni sulle minerali - ad esempio - basta a preparaci al peggio su quello che potrà accadere quando nelle nostre case entreranno le Spa dell’acqua senza passare per le bottiglie di plastica. A parte il Veneto e il Lazio, infatti, Legambiente e Altreconomia denunciano tutte le altre Regioni italiane come inadempienti rispetto ai canoni previsti dalle linee guida nazionali. Una giungla normativa di cui le Istituzioni centrali sembrano curarsi davvero poco.

Segnala Bruxelles inoltre che i numeri dell’Italia sull’erogazione dell’acqua sono tutt’altro che positivi. Il sistema idrico ha gravissime falle, disperde enormi quantità d’acqua e il nostro Sud è sempre più assetato. L'Istituto nazionale di economia agraria - Inea - (controllato dal Ministero delle Politiche Agricole), studi alla mano parla di ammodernamento delle reti idriche e di educazione al risparmio come misure anti-siccità. Ma qualcuno, in quale altro angolo del Palazzo, ha altri piani.

Molte regioni dell’Europa del Sud ricorrono sempre di più a desalinizzare l’acqua del mare, denunciando una situazione climatica sempre più difficile da sostenere e un bisogno crescente. Un buon motivo per fare affari a quanto pare.

La Giornata mondiale dell’acqua ci consegna numeri neri. Un miliardo di persone oggi sul pianeta ha difficoltà nell’accesso all’acqua e, entro il 2030, una persona su tre vivrà in zone in cui scarseggerà. Ogni giorno 4.900 bambini muoiono per tutte le malattie connesse all’assenza di acqua potabile. Moltissimi Paesi, ad esempio il Kenya, hanno la mancanza di acqua in cima alla lista dei loro problemi; il business di chi potrebbe aiutarli, forse come ha fatto finora la Nestlè con il latte in polvere per tantissime donne africane mandate a morire di dissinteria, è facile immaginare. Un mercato diabolico che arriva a mettere i tentacoli sulla fonte della vita.

Sorella Acqua, umile e preziosa, come la celebrava Francesco d’Assisi, sembra non risvegliare nulla di quella mistica reverenza che ostenta vistosa il Presidente del Consiglio nel ringraziare il Papa per le parole dure - e in ritardo di anni -  contro i pedofili, ricambiando la cortesia con la radiazione di Busi. Un mercato della fede che fa audience e che dà la nausea. Mentre gli assetati sono già succulenti numeri a tanti zeri, al santo Padre rimane giusto il tempo di una preghiera.


 

di Mariavittoria Orsolato

Le proteste, i ricorsi e le sentenze non sono serviti a nulla: il consiglio d'amministrazione della Rai non sblocca i programmi di approfondimento politico e, sebbene il direttore generale Mauro Masi -  impegnato con devozione  ad “aggiustare” gli innumerevoli problemi della tv pubblica - abbia invitato la commissione di vigilanza a sondare eventuali strade alternative, pare ormai chiaro che fino al 30 marzo non potremo più assistere a programmi come Annozero, Ballarò e, si, anche Porta a porta.

Il continuo rimpallo di colpe, responsabilità e giurisdizione, oltre a dare l’ennesima prova (se mai ce ne fosse ancora bisogno) di come a viale Mazzini l’abbonato non conti un bel niente, ha finito col privare gli elettori di quella finestra sull’Italia apparentemente in grado di mostrare una realtà diversa da quella confezionata dai proclami elettorali. Per sopperire a questa mancanza, il regolamento sulla par condicio affida l’informazione alle tribune elettorali - di per sé inguardabili - e ai telegiornali, da sempre considerati il medium più efficace e diretto per arrivare in modo incisivo nelle case degli italiani. Tutto questo avrebbe un senso se i diretti interessati, ovvero gli spettatori, considerassero autorevoli i mezzobusti che a pranzo e a cena li ragguagliano sul quotidiano: pare infatti che l’opinione che i cittadini hanno dei tg non sia delle migliori, anzi.

Secondo l’indagine condotta dalla società indipendente di ricerche, Simulation Intelligence, la stragrande maggioranza degli italiani considera i telegiornali alla stregua di organi di partito e non riesce a fidarsi del taglio dato alle notizie, troppo parziali per poter rendere appieno la verità. Si scopre così che notiziari intoccabili sotto il punto di vista dello share, come Tg1 e Tg5, sono ritenuti obiettivi da meno di un italiano su quattro e non va meglio agli altri, attestati tutti (con l’eccezione del 21% concesso al Tg3) su percentuali inferiori al 20%. Nel dettaglio possiamo vedere come Sky Tg24 riscuota solo il 19%, il Tg2 arrivi a malapena la 18% e il TgLa7 si piazzi male con il 15%, non ci sono sorprese invece per i due fanalini di coda, Studio Aperto e Tg4, attestati rispettivamente al 14% e al 13% della credibilità.

La spietatezza dei telespettatori non si esaurisce però solo nel giudizio di merito: secondo il campione intervistato dai sondaggisti, il 58% ritiene i telegiornali per nulla interessanti, il 79% non li reputa accurati e completi e, come sopraccitato, l’82 per cento non li considera imparziali e obiettivi. Quella che si profila agli occhi del giornalismo televisivo è quindi praticamente un ecatombe professionale e, dati i risultati del sondaggio, pare che agli elettori non mancheranno poi così tanto i volti di Santoro, Floris e Bruno Vespa.

Il monito all’informazione è chiaro ed evidente, ma forse la colpa non è proprio tutta dei giornalisti: nel regno catodico e politico del Caimano, i tentativi di obiettività si sono tramutati per proclama in attacchi ad personam, in iettature da sibille dark e in faziosi contro-altari, atti solo a dimostrare come il re e la sua corte siano nudi. L’esempio più lampante è proprio quel Marco Travaglio che, seppur esecrabile nei suoi modi altezzosi, è sempre stato tacciato di comunismo pur essendo dichiaratamente un uomo di destra. Non che qui si voglia fare l’apologia del buon giornalismo, ma è evidente che la percezione delle notizie ha subìto in questi 15 anni una forte distorsione, un’alterazione che tinge necessariamente di rosso o nero la fattualità di una notizia e che spinge i telespettatori ad orientarsi solo in base all’appartenenza partitica di questa o quella testata.

Certo, “colleghi” come Fede o Minzolini, con il loro lampante servilismo, non aiutano la causa e se teniamo conto che ben il 92,8% dell’approvvigionamento informativo ha sede nel tubo catodico, non possiamo biasimare gli italiani in merito al loro giudizio sulle news televisive. Che il web sia una soluzione lo pensano già in molti ed anche gli “epurati temporanei” come Santoro e Floris hanno deciso di sfruttarne le potenzialità per aggirare il divieto di messa in onda posto dalla Rai: se il primo ha organizzato per il 25 marzo a Bologna “Rai per una notte” - un evento da trasmettere in streaming e sulle piattaforme satellitari - il secondo è partito lo scorso 17 marzo con una trasmissione itinerante in 4 tappe “calde” come Torino, L'Aquila, Roma e Cosenza, visualizzabile sul sito della FNSI. Che però i rischi connessi al medium siano tanti lo dimostrano i continui allarmi su Facebook - ormai microcosmo designato - e i suoi gruppi virulenti.

La scelta dell’informazione “fai da te” non implica solo il desiderio di conoscere per giudicare; sottintende un giudizio negativo e senz’appello nei confronti dell’informazione di regime. Vedova del giornalismo d’inchiesta, orfana di editori coraggiosi e vittima di verità confezionate sulla pelle della realtà, l’aspirazione ad una informazione libera in quanto indipendente - e indipendente perché libera - giace sotto i faccioni del minzolinismo.

Il giornalismo italiano - diversamente da quanto sarebbe auspicabile e da ciò che la deontologia prevederebbe - non svolge da quasi 30 anni il ruolo di cane da guardia del potere; né, tanto meno, difende gli utenti dalle menzogne dello stesso. Inevitabile quindi, la crisi di credibilità. I fatti, come diceva qualcuno, hanno la testa dura.

 


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