di Mariavittoria Orsolato

A quanto si è potuto apprendere dai fascicoli sui “grandi eventi”, ereditati dalla procura perugina, i tentacoli della cricca Anemone&co sono arrivati fin dentro il Cupolone. Quello che è già considerato il supertestimone, il tunisino naturalizzato italiano Laid Ben Fathi Hidri - handyman di Angelo Balducci e autista del costruttore romano - ha infatti esteso le sue testimonianze dalla politica al Vaticano, tirando in ballo “un importante monsignore” da cui spesso accompagnava Anemone. L’identità del prelato è stata svelata quasi subito: si tratta di Francesco Camaldo, cerimoniere del Papa e, per quindici anni, segretario particolare del vicario di Roma, cardinal Ugo Poletti.

Fino ad oggi gli unici legami di Diego Anemone con l’universo della Santa Sede stavano nel fatto che, atti alla mano, alcune compravendite di appartamenti passavano da enti religiosi come “Propaganda Fide”, di cui Angelo Balducci - l’ormai ex gentiluomo di Sua Santità, con il vizietto - era consigliere. Con le nuove dichiarazioni di Hidri, si è venuti invece a scoprire che i rapporti di Anemone con gli alti prelati erano molto più stretti e frequenti di quanto non si desse a intendere. Il momento di svolta, per la cricca che si è accaparrata la fetta più grossa degli appalti pubblici, pare collocarsi nel 2000, all’epoca del grande Giubileo romano, ma per adesso gli inquirenti stanno ancora vagliando le reali connessioni.

Le interdipendenze che legano il palazzinaro romano e soci a San Pietro, si possono però intuire collocando gli uomini nei tempi e negli spazi che le cronache ci hanno fornito. Sappiamo, infatti, che Angelo Balducci è stato nominato consigliere della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli dal potente cardinale Crescenzio Sepe, dopo che questi l’aveva visto all’opera in veste di provveditore alle opere pubbliche per la regione Lazio durante i giorni del Giubileo. Assumendo una carica all’interno di “Propaganda Fide” - presieduta prima da Sepe, oggi arcidiacono di Napoli, e poi dall’ex arcivescovo di Bombay Ivan Dias  - Balducci s’inserisce nel cuore del dicastero vaticano attinente alle attività missionarie.

Dicastero che, in virtù degli immensi territori di missione, ha attribuite facoltà e funzioni normalmente esercitate da altre congregazioni e che, appunto, per la sua incisività sul mondo cattolico, fa chiamare ufficiosamente il suo prefetto, il Papa rosso. Balducci, in quanto membro del comitato che ha il compito di collocare l’ingentissimo patrimonio di “Propaganda Fide” - un patrimonio perlopiù fatto di immobili concentrati a Roma e all’estero - ha quindi in mano una moneta di scambio decisamente ghiotta per Anemone, almeno a quanto raccontano le cronache.

Sappiamo inoltre che il porporato chiamato in causa dall’autista tunisino era già stato “attenzionato” dalla magistratura. Nel 2006 viene infatti sentito a Potenza dal pm Henry John Woodcock, per una storiaccia dai contorni torbidi riguardante aficionados della massoneria e uomini dei Servizi Segreti. Nella testimonianza rilasciata alla procura, monsignor Camaldo avrebbe detto di aver chiesto un prestito di 280.000 Euro a Balducci in quanto assillato da un debito relativo all’acquisto di una villa ai Castelli Romani; somma che quest’ultimo, una volta interrogato, dichiarerà di aver messo a disposizione dell’alto prelato tramite un giroconto allo Ior. Non ci è dato sapere se il prestito autorizzato da Balducci sia mai rientrato.

Quella che però potrebbe essere la chiave di volta di questo immenso sistema fondato sul do ut des, porta il nome don Evaldo Biasini, economo e tesoriere della Congregazione missionaria del Preziosissimo Sangue - sottobranca della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. L’ottantatreenne sacerdote romano, amico di lunga data della famiglia Anemone, avrebbe infatti custodito nella cassaforte missionaria svariate mazzette di contanti, pronti ad essere erogati al costruttore in caso di necessità. Interrogato a seguito della perquisizione dei Ros nell’Istituto, don Biasini avrebbe poi candidamente affermato di aver messo a disposizione di Anemone i conti intestati all’Ente, di fatto utili al deposito di assegni al prelievo di contanti puliti.

Questi gli antefatti che potrebbero portare gli inquirenti a chiarire le dinamiche degli scambi intercorsi tra Anemone e alcuni esponenti della Santa Sede. I quesiti che affollano le menti dei magistrati e dei cronisti potrebbero essere risolti con facilità dal costruttore romano, ormai ufficialmente al centro di quella che è già stata impropriamente ribattezzata “la nuova Tangentopoli”. Ma il silenzio che l’ha accompagnato in questi tre mesi di carcere è difficile che venga sciolto entro domenica, quando Diego Anemone sarà nuovamente un uomo libero.

 

 

di Nicola Lillo

Montagne di assegni circolari, soldi in nero, evasione fiscale e bugie di ministri della Repubblica. E non si sa cosa ci si possa aspettare ancora dallo scandalo nato dall'inchiesta sugli appalti per i Grandi Eventi, che ha preso quota lo scorso febbraio dalla Procura di Firenze. Tuttora in carcere i tre alti funzionari della presidenza del Consiglio, Angelo Balducci, Fabio De Santis e Mauro Della Giovamapaola. Arrestati insieme a Diego Anemone, il giovane imprenditorie con contatti e amicizie nelle più alte stanze del palazzo. Indagato insieme a loro, e a piede libero, Guido Bertolaso, coinvolto anche in uno scandalo di natura sessuale, con prestazioni offerte proprio da imprenditori, i quali avrebbero ricevuto in cambio, secondo l'accusa, grosse fette di appalti dal capo della Protezione Civile.

Negli ultimi giorni il tornado dell'inchiesta sui Grandi Eventi si sta abbattendo proprio sul Consiglio dei Ministri. In particolar modo su Claudio Scajola. Le indagini della Procura di Perugia, città dove l'inchiesta è stata spostata per competenza, rimbalzando prima da Firenze a Roma, poi dalla capitale a Perugia, si stanno interessando ad alcuni “strani” movimenti finanziari, a partire da quelli del ministro dello Sviluppo Economico (non indagato), il quale avrebbe acquistato una casa con vista sul Colosseo. Compravendita non del tutto chiara. Non tornano, difatti, diversi conti.

L'architetto Zampolini, già collaboratore di Anemone, afferma di aver ricercato per diverso tempo, su commissione proprio dell'imprenditore ora agli arresti, un immobile per il ministro. Trovato l'appartamento sono iniziati gli accordi sul prezzo di vendita. Le allora proprietarie, Beatrice e Barbara Papa, raccontano che il prezzo convenuto era di 1,7 milioni di Euro. Ma sarà Zampolini a predisporre gli assegni, che avrebbero poi coperto la parte in nero.

Infatti, nell'atto vergato dal notaio Gianluca Napoleone, le parti dichiarano di vendere i 9,5 vani catastali a 610 mila Euro, meno della metà del prezzo convenuto. E il restante denaro? È proprio Zampolini, su incarico di Anemone, a fornire i contanti: 80 assegni per 900 mila euro. La legge prevede, infatti, che ciascun assegno non superi i 12,500 euro, per una funzione anti-elusiva. Ed è proprio questa la ragione dei numerosi assegni circolari che fanno insospettire gli inquirenti. I titoli sembrano provenire dal ministro, ma la provvista è fornita da Anemone.

Scajola non è indagato, ma certamente si aspetta una risposta e un chiarimento agli eventi incresciosi di cui si sta parlando su tutti i giornali. Numerose le interviste rilasciate sui maggiori quotidiani nazionali, dove comunque sembra che il ministro voglia far capire di essere innocente in quanto… innocente. Tautologia a parte, il Premier Berlusconi ha già rigettato le sue dimissioni. Sarebbero state le seconde, in seguito a quelle inviate dopo le polemiche per la scorta tolta a Marco Biagi, ucciso dalle Nuove Br, poiché definì il giuslavorista un “rompicoglioni”.

Anche su un altro uomo del Pdl - l’ex ministro e ora deputato Pietro Lunardi - si sono rivolte le attenzioni degli inquirenti. Un personaggio abituato a dichiarazioni sconcertanti, proprio come il suo compagno di partito e ora ministro, Scajola. “Lo Stato deve abituarsi a convivere con la mafia”, disse nel 2001, da ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. In questi giorni la Procura di Perugia sta indagando su alcune buste dal contenuto “sconosciuto” consegnate a “vari soggetti, alcuni dei quali ministri”, per conto di Angelo Balducci e di Diego Anemone. Ed è spuntato fuori proprio il nome di Lunardi.

Un nuovo testimone, infatti, il tunisino Laid Ben Hidri Fathi, già interrogato a Firenze il 25 marzo scorso, ha rivelato alcune informazione interessanti. L'uomo è stato in passato “l’autista tuttofare e uomo di fiducia di Angelo Balducci e di Diego Anemone e da loro aveva ottenuto deleghe bancarie per operare sui conti correnti”. Nel 2004 prese 200 mila euro e sparì dalla circolazione. Dopo due anni riuscì a riallacciare i contatti con i due, in seguito al suo pentimento.

Pochi giorni fa è stato riascoltato dai pm di Perugia. Il tunisino riferisce nuovamente del suo passato di “autista tuttofare” di Angelo Balducci e Diego Anemone, quest'ultimo conosciuto nel 2000 tramite lo stesso Balducci. In quel periodo si verifica una stretta collaborazione e lo stesso imprenditore Anemone lo avrebbe autorizzato a operare su alcuni conti delle società del Gruppo. In questa circostanza Fathi fa il nome di Angelo Zampolini.

Il tunisino rivela che è a lui che ha consegnato somme di denaro, in quanto l'architetto faceva operazioni immobiliari per conto di Balducci e Anemone. Riferisce poi che, ancora per conto dei due datori di lavoro, avrebbe intrattenuto rapporti con vari soggetti, tra cui ministri ai quali consegnava messaggi o buste di contenuto sconosciuto. Ed è qui che nomina Lunardi. Sono in corso verifiche per accertare le parole di Fathi e gli eventuali incontri.

Intanto gli inquirenti continuano a concentrasi sull’acquisto dell’appartamento per Claudio Scajola. Lo stesso Hidri Fathi avrebbe infatti dichiarato di aver consegnato lui stesso all’architetto una somma di 500.000 Euro in contanti. Somma che sarebbe servita all’acquisto di un immobile dietro il Colosseo. Per i magistrati non c'è alcun dubbio sul fatto che si tratti proprio della casa del ministro. Inoltre, nell'interrogatorio del 23 aprile scorso, è stato proprio Zampolini a confermare tutte le circostanze raccontate dal testimone, aggiungendo che “oltre a Fathi, anche altri autisti e la segretaria di Anemone si occupavano di consegnarmi i contanti”.

Sono ancora tante le zone d'ombra della ragnatela di intrecci economici e politici che aleggiano su questa inchiesta. Certamente quello che è emerso è sufficiente per qualche dimissione. Ma in questo Paese per arrivare a tanto cosa dobbiamo aspettarci ancora?

 

di mazzetta

C'era una volta un mondo nel quale il primo maggio era la festa dei lavoratori. Erano i lavoratori i protagonisti della festa ed era il lavoro, il motore sudante che muoveva tutto il paese. Lavoro come strumento di riscatto sociale, come via di fuga dalla miseria e dall'abbruttimento, passaporto per una vita dignitosa e tranquilla, anche se consumata in gran parte da una routine abbracciata più per dovere che per amore.

Il lavoro era tutto questo e una società appena uscita da un medioevo rurale durato secoli, bramava riscatto e lavoro, per avere lavoro e riscatto. Poi qualcosa ha cominciato a cambiare lentamente, il fallimento del “socialismo reale” ha aperto le porte alle pretese del padronato e della grande finanza e in pochi anni i media controllati dall'elite hanno trasformato prima l'immagine e poi la sostanza stessa del lavoro e dei lavoratori.

La meccanizzazione e l'informatizzazione hanno fatto il resto, consentendo di ottimizzare i processi produttivi e di diminuire la quantità di lavoro necessaria per unità di prodotto. Poi è arrivata la delocalizzazione e, con essa, la concorrenza di altri lavoratori che lavorano per molto meno, lavoratori ancora affamati di quell'atavico riscatto, bramosi di sedere alla grande tavola del consumo e, per questo, disposti a tutto. Miliardi di braccia gettate su un mercato con sempre meno barriere per le imprese e sempre più severo nel controllo delle masse lavoratrici.

Così il lavoro è diventato sempre di meno, è pagato sempre peggio e alla fine ha perso molto del suo valore reale e simbolico. Perché se oggi gli stipendi sono in proporzione più bassi, è altrettanto evidente che il lavoro come mezzo per la realizzazione personale e il riscatto sociale ha esaurito la sua funzione. Uno stato di cose testimoniato anche dal crollo della mobilità sociale nelle economie avanzate, dalla strage di competenze mandate al macero insieme ad intere generazioni di laureati e della sostanziale svalutazione di quelle organizzazioni sindacali che tanto avevano contato nello strappare diritti e dignità per i lavoratori.

Oggi, dopo una non troppo lunga trasformazione economica e sociale, il lavoro non c'è più e quello che c’è vale poco. È un dato di fatto: non c'è abbastanza lavoro per poter assicurare un reddito a tutti o quasi tutti, non c'è nelle economie avanzate e non c'è nemmeno in quelle emergenti, che emergono proprio perché hanno un serbatoio inesauribile di braccia pronte a tutto per entrare nel grande gioco.

Nel nostro paese il fenomeno è molto evidente, anche se poco dibattuto. La quota di italiani che ha un lavoro o un reddito da lavoro è bassissima, imbarazzante: tra i paesi dell'OSCE stanno peggio solo Turchia e Messico e, anche una volta che si faccia la tara dell'economia sommersa, si resta ben lontani dai paesi che stanno messi meglio. Tutti comunque in peggioramento, non solo per la crisi incombente.

La mancanza di lavoro e lo scarso valore dello stesso pongono una sfida enorme alla politica e allo stesso sistema ultra-liberista che negli ultimi tempi è sembrato a lungo privo di alternative. L'alternativa alla disgregazione sociale e all'impoverimento di intere società dovrebbe essere un argomento di dibattito interessante, ma la vilificazione della politica, funzionale all'ideologia che reclama il primato delle élite economiche proprio sulla stessa politica, sembra un antidoto efficace a qualsiasi tipo di discorso appena serio.

Non che le forze storicamente interessate al progresso sociale aiutino molto: da tempo i sindacati confederali hanno trovato il loro baricentro nella tutela dei pensionati e il loro stile nella concertazione, tanto che da qualche anno “festeggiano” il primo maggio con un grande concerto, passata la festa non ne rimane niente. Musica sì, proposte no. Nemmeno le forze politiche di sinistra sembrano troppo attive, pochi arrivano ora a concepire l'idea di un reddito di cittadinanza come necessaria misura di un nuovo welfare, non più legato al lavoro (workfare) che non c'è più, eppure si tratta di strumenti già presenti in varie forme in quasi tutta la UE. Eppure il Partito Socialista francese discute di “un nuovo modello produttivo” e addirittura di un “nuovo modello di civiltà” che ripensi fiscalità e welfare. Discorsi troppo complicati per l'Italia del ventunesimo secolo?

Già, chiedere lavoro ha poco senso, perché oggi il lavoro non è più il passaporto sufficiente a una vita serena, se pur applicata alla produzione di ricchezza, perché questa ricchezza è distribuita in maniera sempre più ineguale e nei paesi privi di stato sociale può addirittura succedere che i lavoratori si ritrovino disoccupati, senza assistenza sanitaria e titolari per parte uguale di un debito pubblico mostruoso, esploso proprio per pagare le scommesse sconsiderate di chi già si era accaparrato quasi tutto il frutto e il valore del lavoro del paese.

È evidente che qualcosa debba cambiare. Parlavano di qualità totale e intendevano la meccanizzazione dei processi produttivi; parlavano di sinergie e intendevano la concentrazione societaria e la costituzione di monopoli e cartelli; parlavano di flessibilità e intendevano la frantumazione della forza lavoro e la guerra tra poveri per lavori pagati sempre di meno. Flessibilità al ribasso, pagata di meno invece che di più, tanto che oggi può non essere sufficiente il salario per vivere, in particolare se si parla di quello dei lavoratori più “flessibili”.

Un cambiamento che da anni chiedono i movimenti e i gruppi riuniti sotto la protezione di San Precario, che sfilano a Milano per il decennale della Mayday e in altre città europee, chiedendo continuità di reddito e sostegno per i precari, che sono ormai la metà della forza lavoro, la più negletta, ma una forza che rifiuta di dare battaglia ai lavoratori (più) garantiti e di etichettare come privilegi i loro residui diritti. Un rifiuto della guerra tra poveri che va necessariamente esteso ai lavoratori migranti, in tempo di crisi perfetto capro espiatorio e già indicati come “ladri di lavoro” dai furboni che prosperano proprio sulle guerre tra poveri.

È tempo di un nuovo welfare, è necessario riprendere il cammino del progresso sociale e per farlo è necessario che i cittadini (e i lavoratori) muovano il dibattito in questa direzione, perché vivere sperando non basterà e la storia recente dimostra che si può fare ben poco affidamento sulla corrottissima classe dirigente italiana.

 

 

di Mariavittoria Orsolato

La fronda finiana che da tempo si poteva dedurre tra le righe dell’empio dibattito politico, è esplosa la scorsa settimana nel battibecco in diretta tv tra i due padri putativi del partito del predellino. Nemmeno dieci giorni e la prima testa a rotolare nel Transatlantico di Montecitorio è proprio quella di Italo Bocchino, ormai ex vice-capogruppo Pdl alla Camera, nonché primo nella lista nera berlusconiana emanata in quello che, secondo tradizione, potrebbe essere ribattezzato l’editto di Roma.

Colpevole con le sue affermazioni di “aver esposto il partito del premier al pubblico ludibrio”, Bocchino è stato coattato alle dimissioni ed è ora dato in pasto alle dichiarazioni virulente dei suoi colleghi di partito. “Ha chiesto la mia testa - lamenta l'esponente finiano - c’è stata una direttiva di Berlusconi durante Ballarò che chiedeva la mia testa. C'è un evidente tentativo, da parte di Berlusconi in prima persona, di arrivare a un'epurazione mia per colpire l'area a me vicina” ha detto Bocchino sfogandosi con i cronisti alla Camera.

Che il giovane delfino di Fini avesse alzato la cresta in più di un’occasione lo hanno visto e sentito tutti negli ultimi mesi, ma è stato probabilmente l’ennesimo scivolone della maggioranza sull’arbitrato ad esacerbare una situazione già tesa più di una corda di violino. Lo scorso martedì sono iniziati a Montecitorio i lavori di discussione sugli emendamenti al ddl sul lavoro e se “per un punto Martin perse la cappa”, qui per un voto (225 favorevoli e 224 contrari) la possibilità di utilizzare l’istituto dell’arbitrato nella risoluzione delle controversie sul licenziamento è stata definitivamente accantonata.

L’emendamento a firma Pd, su cui il Governo è stato battuto, riguarda il comma 9 dell’articolo 31 e stabilisce che l’eventuale ricorso alla figura stragiudiziale dell’arbitro possa essere usata solo nel caso in cui la contese siano già in atto e non in quelle che “dovessero insorgere”, come voluto dal testo originale tanto caro al Governo e a Confindustria. Viene perciò ulteriormente ridimensionata l’utilità effettiva dell’arbitrato, che ora non ha più ragione di esistere all’interno di un’eventuale clausola compromissoria in sede di stipula del contratto: un ottimo risultato per i lavoratori, un tremendo autogol per la maggioranza.

A incidere in modo decisivo sul risultato finale è stata, infatti, la defezione di ben 95 deputati in forza al Pdl, che secondo il deputato della libertà Giancarlo Lehner - protagonista addirittura di uno scontro fisico con l’ex An Antonino Lo Presti - è stata dovuta solo ed esclusivamente ad una trappola della fronda finiana, decisa ormai ad affondare ogni tentativo di riforma della maggioranza berlusconiana.

Per quanto la cosa possa apparire plausibile nel quadro confuso di questa lotta fratricida - che di solito colpisce più volentieri a sinistra che a destra - è difficile vedere questa plateale sconfitta sul ddl lavoro come un’imboscata degli ex An, anche se per il capogruppo Pd alla Camera, Dario Franceschini, “quasi cento deputati di maggioranza assenti su una norma così importante non sono mai un caso”.

Così deve averla pensata anche Padron’ Silvio, che non ha esitato a telefonare all’ormai ex alleato Bocchino intimandogli “farai i conti con me”. Detto fatto: il fedelissimo di Fini è stato ostracizzato ed ora la sua unica funzione è quella di monito vivente a chiunque, da ora in poi, decida di uscire dal seminato preposto dal premier e dai suoi grevi fedelissimi. Se è vero che, come ha affermato Berlusconi nella recente cena con i senatori a palazzo Grazioli, “la fedeltà degli alleati verrà misurata all’interno delle aule Parlamentari”, allora è bene che l’ala finiana si prepari: il partito dell’amore si trasformerà definitivamente in quel Comitato di Salute Pubblica che nella Francia rivoluzionaria mozzò tante teste quante riucì a scovarne. In tutto questo bailamme c’é però una nota positiva ed è rappresentata dal fatto che, a oggi, non sia solo più l’opposizione a sperare che Berlusconi faccia la fine di Robespierre.

 

di Carlo Benedetti

MOSCA. Le credenziali dei russi ex sovietici, quanto a centrali nucleari, non sono proprio doc. C'é sempre aperta quella pagina di Cernobyl. Ma a Villa Gernetto, in Brianza, (dimora settecentesca del premier italiano) nessuno ha voluto ricordare quella tragica avventura del 26 aprile del 1986, quando esplose il reattore numero quattro della centrale nucleare sovietica di Chernobyl. E così Putin e compagni (i boss del "Gazprom" e del ministero dell’Energia Nucleare) arrivati da Berlusconi in qualità di commessi viaggiatori della nuova elite dominante, hanno messo a segno il loro obiettivo.

Berlusconi ha accolto tutte le proposte russe e ha siglato l'accordo che segna l'avvio di un progetto nucleare di conio russo, unico nel suo genere. Tutto nel segno della "profonda amicizia ed affetto" che lo lega a Putin. In pratica una intesa in famiglia per lo sviluppo della fusione nucleare con la creazione di un reattore sperimentale, denominato Ignitor, che porta alla nascita della prima partnership pubblico-privata del settore in Russia.

Il memorandum di Villa Gernetto - siglato dal Ceo dell’Enel Conti e da Boris Kovalchuk, presidente della russa Inter Rao Ues - prevede l’avvio di una cooperazione sul nucleare, in vista della costruzione di nuovi impianti e di una collaborazione su innovazione tecnica, efficienza energetica e distribuzione sia in Russia che nei Paesi dell’Est europeo. Il frutto della prima partnership pubblico-privata sul settore nucleare sarà la realizzazione della centrale nucleare di Kaliningrad, che utilizzerà la tecnologia di ultima generazione Vver 1200 e che sarà composta da due gruppi da 1170 megawatt l’uno.

L’avvio della produzione è previsto tra il 2016 e il 2018, con una quota rilevante dell’energia prodotta destinata ai mercati europei. Inter Rao Ues detterà i termini e le condizioni per la partecipazione di investitori stranieri al nuovo progetto di reattore nucleare mentre ad Enel toccherà studiare gli aspetti tecnici, economici e normativi del progetto valutando condizioni e modalità di una possibile partecipazione. Nel corso di una conferenza stampa Berlusconi ha annunciato che i lavori per la costruzione di nuove centrali nucleare “inizieranno entro la legislatura”.

Per quanto riguarda invece l’altro tema affrontato nel vertice, Putin, ricordando che nel progetto South Stream, partecipano pariteticamente Eni e Gazprom, ha spiegato che “tutto procede bene”. In Turchia “sono terminati i lavori nella zona economica speciale”, ha aggiunto il primo ministro russo. Per il gasdotto, ha continuato, “abbiamo già un progetto realizzato per posare i tubi sul fondo del Mar Nero e abbiamo già costruito il gasdotto in Turchia”. South Stream “avrebbe una tratta un po’ diversa, ma niente di particolarmente nuovo”.

Il primo ministro russo ha poi annunciato che il gruppo francese Edf “parteciperà al progetto e ha chiesto di avere una partecipazione del 20%”. Stesso discorso per la pipeline North Stream, Putin ha infatti sottolineato che “non ci sono disguidi o ritardi” e “anche se l’Italia non è azionista del progetto, partecipa con le tecnologie”. Berlusconi ha invece ricordato che la costruzione del South Stream è prevista per il primo semestre 2012.

Quindi l'annuncio che entro la legislatura verrà avviata la costruzione della prima centrale nucleare in Italia. Nel frattempo, l'Eni potrà ampliare la sua collaborazione con il colosso energetico russo Gazprom anche fuori dall'Europa, ad esempio in Africa, così come l'Enel dà vita alla prima partnership pubblico-privata con la società russa Inter Rao Ues. Il tutto in un clima in cui ciò che viene esaltato è, appunto, il grande legame Berlusconi - Putin.

Berlusconi, intanto, si affretta a spiegare che l'energia nucleare «potrà essere creata per fusione e non più per scissione», in un programma che «potrà cambiare gli scenari per la produzione di energia per le nuove generazioni». Nessuna notizia, comunque, sul luogo in cui il governo italiano intende edificare la centrale, però per il premier va avviata un'opera di «convincimento», visto che la gente è terrorizzata all'idea di vivere accanto ad un sito. Eppure, rassicura, «noi eravamo all'avanguardia, tanto che nel 1967, avevamo ben tre centrali funzionanti, ma poi sotto la spinta degli ecologisti estremi abbiamo dovuto rinunciare. Oggi - puntualizza il Cavaliere attraverso la radio di Mosca - non è possibile restare fuori da questa opportunità».

La Russia, dal canto suo, è disponibile a collaborare al progetto di ritorno al nucleare in Italia attraverso «linee di credito» o di una eventuale «cessione di combustibile», secondo quanto anticipa Putin, spiegando che nel suo Paese è stato adottato «un programma ambizioso, che prevede uno sviluppo dell'energia atomica» con l'obiettivo di farla crescere dal 15-16 per cento del totale al 25 per cento. Tutto questo per dire e ribadire che Cernobyl è preistoria.

Intanto a Mosca i maggiori media - riferendo dell'intesa Berlusconi-Putin sul nucleare - riportano anche le posizioni dell'italiana "Legambiente". E in proposito ricordano che l'incidente, avvenuto nella centrale ucraina, causò, secondo il rapporto ufficiale redatto da agenzie dell'ONU, sessantacinque morti accertati con sicurezza e altri quattro mila presunti, per tumori e leucemie, su un arco di ottanta anni, ma che numerose associazioni stimano in una cifra di gran lunga più alta il prezzo pagato in vite umane. Il governo italiano - notano alcuni commentatori russi - si appresta ora a rilanciare l'energia atomica in Italia, affermando che le centrali di ultima generazione sono sicure". C'è però chi alla stazione radio Eco di Mosca lancia un "Auguri!" che non sappiamo come definire...


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