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di Rosa Ana de Santis
La domanda é: sono delinquenti perché clandestini o clandestini perché delinquenti? La risposta forse l'ha fornita il Sindaco di Milano, Letizia Moratti, con le dichiarazioni xenofobe rilasciate al convegno "Per un'integrazione possibile”. Le parole della Moratti interpretano bene gli umori nazionali e, a sprezzo di tanta cronaca che pure avrebbe dovuto indicare diversi percorsi d’interpretazione del fenomeno, insistono come un’ossessione sul tema del reato di clandestinità. L’espulsione immediata di quanti sono irregolari e l’equazione di fondo tra irregolarità e delinquenza non tiene conto di alcuna attenta osservazione su quanto accade nel nostro Paese.
Chissà se la Moratti, quando parla di delinquenti stranieri in quanto clandestini, pensa alle domestiche che quasi tutte le famiglie hanno in casa, o non stia piuttosto pensando agli schiavi di Rosarno, o magari agli operai nordafricani arrampicati nel vuoto delle gru delle imprese edili del bresciano.
La clandestinità diventerebbe così il reato per eccellenza e l’espulsione immediata la panacea dei nostri mali. Nessuna valutazione degli effetti che questo avrebbe sull’economia italiana che ha imparato in fretta a guadagnare anche da questo sommerso venuto dal mare; soprattutto nessuna lettura sistemica di un fenomeno che va oltre i confini nazionali e che non potrà mai essere risolto in modo unilaterale e soltanto coercitivo da un paese lanciatosi, in modo schizofrenico, tra l’avventura europeista e la rivendicazione autarchica dei confini.
L’immigrazione è uno dei risultati delle politiche economiche planetarie che hanno acuito tremendamente il già eccessivo divario tra Nord e Sud del mondo. Se il 20% del pianeta consuma l’80% delle risorse la colpa non può essere delle vittime di questo sconcio che cercano solo di sopravvivere. Il problema degli stranieri c’è come c’è in tutti i paesi che sono diventati mete di questo esodo continuo di poveri. In Italia, aldilà del terrorismo padano, non siamo ancora al caso delle banlieu parigine, teatri delle rivolte degli stranieri.
Non siamo ancora alla coincidenza esplosiva tra degrado e immigrazione, alla consacrazione ufficiale dei ghetti e delle gang e, proprio per questo, la politica dovrebbe lavorare alla prevenzione di questi fenomeni degeneranti che andranno ad aggravare la situazione delle periferie urbane, già impastate di malavita e ulteriormente fiaccate dalla povertà dell’ultima crisi.
Ma gli stranieri in Italia lavorano. A nero, precari e sfruttati, ma in larga parte hanno un accesso al lavoro. La seconda generazione d’immigrati, inoltre, non è ancora così numerosa e l’integrazione potrebbe avvenire sotto minor pressione sociale che non in altri paesi europei. Il quadro del paese non è, ad oggi e numeri alla mano, quello dell’assedio permanente che denuncia la destra o la Lega Nord.
L’incognita del futuro ha certamente bisogno di misure politiche preventive forti e non della rimozione e della cancellazione dei migranti come elemento di fastidio o di disturbo. L’impresa, peraltro fallimentare, di cancellare i migranti, andrebbe piuttosto gestita dalla politica e non chiusa in carcere dalla polizia. Solo questo permetterà di cavalcare l’emergenza assecondando quella che sarà nella storia un’inevitabile e necessaria metamorfosi del nostro paese e della nostra stessa categoria di nazionalità.
A questo ci si prepara, a partire dai banchi scuola, invece di partorire la ghettizzazione delle classi ponte. Non togliendo il diritto di cura agli stranieri con la minaccia della denuncia. A questo ci si prepara con la comprensione che la clandestinità è una condizione speciale della cittadinanza e non la perdita dello status di cittadinanza o, addirittura, il pretesto per la cessazione dei diritti individuali come qualche fattaccio tricolore ha dimostrato. Le parole di qualche solerte sindaco leghista, l’assassinio di Abdul a Milano, i vigili di Parma e le botte a Emmanuel. Per tutti clandestini, senza che nemmeno lo fossero.
Ma su tutti il caso paradigmatico è quello di Rosarno. Venduto ai giornali come la rivolta di stranieri violenti non era altro che la protesta di nuovi schiavi, manovalanza del noto e tradizionale male italiano: gli affari della mafia e la loro convivenza pacifica con la società civile e con le istituzioni. Di questo si trattava e non di neri o di stranieri facinorosi.
L’immigrazione esaspera mali già presenti. Acuisce ferite che già abbiamo addosso. Non è certamente soltanto esotismo e curiosità culturale. L’integrazione è un travaglio sociale. Ma l’opposizione ad essa è la garanzia scientifica di un paese che non avrà futuro. Iniziare a parlare dello Ius soli (diritto per nascita) e della fine dello status di cittadinanza legato al sangue, significa aprire la mente a un nuovo mondo di pensare l’Italia e gli Italiani. Dove l’inclusione diventi il cardine della nuova cittadinanza. Questo salverà la legge e impedirà che la condanna quasi mistica alla condizione dell’illegalità diventi il simbolo di un marchio antropologico sulla condizione di vita degli stranieri.
Stranieri come a voler dire fuori dalla società. E’ questo esonero e questa vacanza in una condizione indefinita del diritto, il marchio che trasforma la condizione dello straniero nella vita di un paria che per nascita rimane fuori dalla sistema sociale. Le banlieu iniziano così. Il degrado imposto e interiorizzato diventa nel tempo una pericolosa alleanza di condivisione. Terre senza Stato per nessuno, squallide e dimenticate, attaccate alle porte delle case dorate.
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di Nicola Lillo
Sono ancora tante le sorprese che la “cricca” di Bertolaso e soci continuano ad offrire. Il nome di un altro ministro dell'attuale governo è infatti nelle nuove carte dell'inchiesta sugli appalti dei Grandi Eventi. Stiamo parlando di Sandro Bondi, ministro dei Beni Culturali. Gli atti della Procura di Firenze rivelano legami tra società, dubbie nomine ministeriali e, inoltre, possibili collegamenti con Cosa Nostra.
Ma andiamo con ordine. Nella ricostruzione della vicenda da parte del Corriere della Sera e La Repubblica emerge che nel dicembre del 2009 “Salvo Nastasi, capo di gabinetto del ministero dei Beni Culturali, comunica ad Angelo Balducci la distribuzione degli incarichi per l'appalto del lavoro di restauro dei Nuovi Uffizi”. Incarichi distribuiti con il placet del ministro Bondi: Mauro Della Giovampaola “soggetto attuatore”, Enrico Bentivoglio “responsabile unico del procedimento”, Riccardo Miccichè “direttore dei lavori”. Secondo il ministero è una “buona squadra”. Di diversa opinione invece De Santis, il quale parla al telefono con Bentivoglio. Inizialmente si lamenta di Della Giovampaola, per poi parlare di Miccichè.
Bentivoglio: “tu lo sai chi hanno nominato direttore dei lavori? Il siciliano”
De Santis: “Miccichè? Non ci posso credere!”
Bentivoglio: “si... “di comprovata esperienza e professionalità”..lui è lui”.
De Santis: “quando lo vedo gli dico: siamo proprio dei cazzari guarda, siete proprio dei cazzari..andate in giro a rompere il c...”
Bentivoglio: “ma ti rendi conto? Quando siamo andati che ci stava pure Bondi..abbiamo fatto la riunione l'altro giorno..siamo tornati in treno..c'era pure Salvo (Nastasi, ndr) allora stavamo un attimo da soli e ho fatto “Salvo ma siamo sicuri di coso, qua del siciliano?” “sì non ti preoccupare..poi io c'ho un fatto personale che tu non c'hai”. Dico: “Tutto il rispetto perchè è una persona in gambissima, ma gestire un lavoro del genere”.
De Santis: è un bordello aho!
In effetti Miccichè non sembra essere munito di particolare esperienza in quel settore. Ma chi è Riccardo Miccichè? Ingegnere agrigentino, con competenza nel ramo del management di aziende specializzate nella “preparazione dei terreni per erbe e piante officinali” e nella “attività di parrucchiere per donna, uomo, bambino, di manicure e pedicure”, è stato uno degli amministratori della società Erbe Medicinali Sicilia, e socio della Modu's Atelier, che si occupa proprio di parrucchieri e manicure. Di sicuro un soggetto non di “elevata e comprovata esperienza”, ma al quale è stato comunque affidato un appalto di 29 milioni e mezzo di Euro.
Come mai è stato chiamato proprio lui? Sicuramente ha amici che contano, come Mauro Della Giovampaola e Francesco Piermarini, il cognato di Bertolaso, con cui lavorò a La Maddalena come “rappresentante della struttura di missione”. Ebbe contatti anche con Diego Anemone. Ma c'è un aspetto inquietante che riguarda Miccichè: suo fratello. Fabrizio Miccichè è, infatti, il responsabile tecnico della ditta Giusylenia srl, che si occupa di appalti pubblici. Una impresa “sotto il controllo di esponenti di Cosa Nostra agrigentina”, accusati di aver favorito la latitanza di Giovanni Brusca. Il socio di maggioranza è Antonio De Francisci, lo stesso nominato in un dattiloscritto sequestrato durante l'arresto di Brusca nel 2006, in provincia di Agrigento. Brusca ha riferito di averlo ricevuto da Bernardo Provenzano, all'epoca latitante. Il testo diceva: “Lavoro De Francisci”. Ha affermato, inoltre, di riferirsi “a quello che ha fatto lavori nel paese di Corleone. Questo qua ha uscito la tangente e io per come sono stati, glieli ho fatti avere a Bagarella”.
La domanda sorge spontanea: per quale motivo è stato scelto un personaggio con questi rapporti e con competenze così diverse dal necessario, sia per il G8 sia per gli Uffizi? Con un comunicato, Sandro Bondi riferisce che “alcuni quotidiani danno il meglio di sé nell'esercizio di lordare anche la mia onestà. Io, appena ho avuto conoscenza delle indagini, ho revocato immediatamente il commissariamento per agevolare il lavoro della magistratura, proprio perché non ho nulla a che fare con faccende e faccendieri di cui si parla”. Bondi sembra abbia ammesso di non aver mai conosciuto né sentito nominare l'ingegnere-parrucchiere-fratello di un imprenditore con legami mafiosi. Sarà come dice il ministro, ma è chiaro che sia dovere di un ministro della Repubblica essere a conoscenza di ciò che avviene nel proprio ministero.
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di Mariavittoria Orsolato
A quanto si è potuto apprendere dai fascicoli sui “grandi eventi”, ereditati dalla procura perugina, i tentacoli della cricca Anemone&co sono arrivati fin dentro il Cupolone. Quello che è già considerato il supertestimone, il tunisino naturalizzato italiano Laid Ben Fathi Hidri - handyman di Angelo Balducci e autista del costruttore romano - ha infatti esteso le sue testimonianze dalla politica al Vaticano, tirando in ballo “un importante monsignore” da cui spesso accompagnava Anemone. L’identità del prelato è stata svelata quasi subito: si tratta di Francesco Camaldo, cerimoniere del Papa e, per quindici anni, segretario particolare del vicario di Roma, cardinal Ugo Poletti.
Fino ad oggi gli unici legami di Diego Anemone con l’universo della Santa Sede stavano nel fatto che, atti alla mano, alcune compravendite di appartamenti passavano da enti religiosi come “Propaganda Fide”, di cui Angelo Balducci - l’ormai ex gentiluomo di Sua Santità, con il vizietto - era consigliere. Con le nuove dichiarazioni di Hidri, si è venuti invece a scoprire che i rapporti di Anemone con gli alti prelati erano molto più stretti e frequenti di quanto non si desse a intendere. Il momento di svolta, per la cricca che si è accaparrata la fetta più grossa degli appalti pubblici, pare collocarsi nel 2000, all’epoca del grande Giubileo romano, ma per adesso gli inquirenti stanno ancora vagliando le reali connessioni.
Le interdipendenze che legano il palazzinaro romano e soci a San Pietro, si possono però intuire collocando gli uomini nei tempi e negli spazi che le cronache ci hanno fornito. Sappiamo, infatti, che Angelo Balducci è stato nominato consigliere della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli dal potente cardinale Crescenzio Sepe, dopo che questi l’aveva visto all’opera in veste di provveditore alle opere pubbliche per la regione Lazio durante i giorni del Giubileo. Assumendo una carica all’interno di “Propaganda Fide” - presieduta prima da Sepe, oggi arcidiacono di Napoli, e poi dall’ex arcivescovo di Bombay Ivan Dias - Balducci s’inserisce nel cuore del dicastero vaticano attinente alle attività missionarie.
Dicastero che, in virtù degli immensi territori di missione, ha attribuite facoltà e funzioni normalmente esercitate da altre congregazioni e che, appunto, per la sua incisività sul mondo cattolico, fa chiamare ufficiosamente il suo prefetto, il Papa rosso. Balducci, in quanto membro del comitato che ha il compito di collocare l’ingentissimo patrimonio di “Propaganda Fide” - un patrimonio perlopiù fatto di immobili concentrati a Roma e all’estero - ha quindi in mano una moneta di scambio decisamente ghiotta per Anemone, almeno a quanto raccontano le cronache.
Sappiamo inoltre che il porporato chiamato in causa dall’autista tunisino era già stato “attenzionato” dalla magistratura. Nel 2006 viene infatti sentito a Potenza dal pm Henry John Woodcock, per una storiaccia dai contorni torbidi riguardante aficionados della massoneria e uomini dei Servizi Segreti. Nella testimonianza rilasciata alla procura, monsignor Camaldo avrebbe detto di aver chiesto un prestito di 280.000 Euro a Balducci in quanto assillato da un debito relativo all’acquisto di una villa ai Castelli Romani; somma che quest’ultimo, una volta interrogato, dichiarerà di aver messo a disposizione dell’alto prelato tramite un giroconto allo Ior. Non ci è dato sapere se il prestito autorizzato da Balducci sia mai rientrato.
Quella che però potrebbe essere la chiave di volta di questo immenso sistema fondato sul do ut des, porta il nome don Evaldo Biasini, economo e tesoriere della Congregazione missionaria del Preziosissimo Sangue - sottobranca della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. L’ottantatreenne sacerdote romano, amico di lunga data della famiglia Anemone, avrebbe infatti custodito nella cassaforte missionaria svariate mazzette di contanti, pronti ad essere erogati al costruttore in caso di necessità. Interrogato a seguito della perquisizione dei Ros nell’Istituto, don Biasini avrebbe poi candidamente affermato di aver messo a disposizione di Anemone i conti intestati all’Ente, di fatto utili al deposito di assegni al prelievo di contanti puliti.
Questi gli antefatti che potrebbero portare gli inquirenti a chiarire le dinamiche degli scambi intercorsi tra Anemone e alcuni esponenti della Santa Sede. I quesiti che affollano le menti dei magistrati e dei cronisti potrebbero essere risolti con facilità dal costruttore romano, ormai ufficialmente al centro di quella che è già stata impropriamente ribattezzata “la nuova Tangentopoli”. Ma il silenzio che l’ha accompagnato in questi tre mesi di carcere è difficile che venga sciolto entro domenica, quando Diego Anemone sarà nuovamente un uomo libero.
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di Nicola Lillo
Montagne di assegni circolari, soldi in nero, evasione fiscale e bugie di ministri della Repubblica. E non si sa cosa ci si possa aspettare ancora dallo scandalo nato dall'inchiesta sugli appalti per i Grandi Eventi, che ha preso quota lo scorso febbraio dalla Procura di Firenze. Tuttora in carcere i tre alti funzionari della presidenza del Consiglio, Angelo Balducci, Fabio De Santis e Mauro Della Giovamapaola. Arrestati insieme a Diego Anemone, il giovane imprenditorie con contatti e amicizie nelle più alte stanze del palazzo. Indagato insieme a loro, e a piede libero, Guido Bertolaso, coinvolto anche in uno scandalo di natura sessuale, con prestazioni offerte proprio da imprenditori, i quali avrebbero ricevuto in cambio, secondo l'accusa, grosse fette di appalti dal capo della Protezione Civile.
Negli ultimi giorni il tornado dell'inchiesta sui Grandi Eventi si sta abbattendo proprio sul Consiglio dei Ministri. In particolar modo su Claudio Scajola. Le indagini della Procura di Perugia, città dove l'inchiesta è stata spostata per competenza, rimbalzando prima da Firenze a Roma, poi dalla capitale a Perugia, si stanno interessando ad alcuni “strani” movimenti finanziari, a partire da quelli del ministro dello Sviluppo Economico (non indagato), il quale avrebbe acquistato una casa con vista sul Colosseo. Compravendita non del tutto chiara. Non tornano, difatti, diversi conti.
L'architetto Zampolini, già collaboratore di Anemone, afferma di aver ricercato per diverso tempo, su commissione proprio dell'imprenditore ora agli arresti, un immobile per il ministro. Trovato l'appartamento sono iniziati gli accordi sul prezzo di vendita. Le allora proprietarie, Beatrice e Barbara Papa, raccontano che il prezzo convenuto era di 1,7 milioni di Euro. Ma sarà Zampolini a predisporre gli assegni, che avrebbero poi coperto la parte in nero.
Infatti, nell'atto vergato dal notaio Gianluca Napoleone, le parti dichiarano di vendere i 9,5 vani catastali a 610 mila Euro, meno della metà del prezzo convenuto. E il restante denaro? È proprio Zampolini, su incarico di Anemone, a fornire i contanti: 80 assegni per 900 mila euro. La legge prevede, infatti, che ciascun assegno non superi i 12,500 euro, per una funzione anti-elusiva. Ed è proprio questa la ragione dei numerosi assegni circolari che fanno insospettire gli inquirenti. I titoli sembrano provenire dal ministro, ma la provvista è fornita da Anemone.
Scajola non è indagato, ma certamente si aspetta una risposta e un chiarimento agli eventi incresciosi di cui si sta parlando su tutti i giornali. Numerose le interviste rilasciate sui maggiori quotidiani nazionali, dove comunque sembra che il ministro voglia far capire di essere innocente in quanto… innocente. Tautologia a parte, il Premier Berlusconi ha già rigettato le sue dimissioni. Sarebbero state le seconde, in seguito a quelle inviate dopo le polemiche per la scorta tolta a Marco Biagi, ucciso dalle Nuove Br, poiché definì il giuslavorista un “rompicoglioni”.
Anche su un altro uomo del Pdl - l’ex ministro e ora deputato Pietro Lunardi - si sono rivolte le attenzioni degli inquirenti. Un personaggio abituato a dichiarazioni sconcertanti, proprio come il suo compagno di partito e ora ministro, Scajola. “Lo Stato deve abituarsi a convivere con la mafia”, disse nel 2001, da ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. In questi giorni la Procura di Perugia sta indagando su alcune buste dal contenuto “sconosciuto” consegnate a “vari soggetti, alcuni dei quali ministri”, per conto di Angelo Balducci e di Diego Anemone. Ed è spuntato fuori proprio il nome di Lunardi.
Un nuovo testimone, infatti, il tunisino Laid Ben Hidri Fathi, già interrogato a Firenze il 25 marzo scorso, ha rivelato alcune informazione interessanti. L'uomo è stato in passato “l’autista tuttofare e uomo di fiducia di Angelo Balducci e di Diego Anemone e da loro aveva ottenuto deleghe bancarie per operare sui conti correnti”. Nel 2004 prese 200 mila euro e sparì dalla circolazione. Dopo due anni riuscì a riallacciare i contatti con i due, in seguito al suo pentimento.
Pochi giorni fa è stato riascoltato dai pm di Perugia. Il tunisino riferisce nuovamente del suo passato di “autista tuttofare” di Angelo Balducci e Diego Anemone, quest'ultimo conosciuto nel 2000 tramite lo stesso Balducci. In quel periodo si verifica una stretta collaborazione e lo stesso imprenditore Anemone lo avrebbe autorizzato a operare su alcuni conti delle società del Gruppo. In questa circostanza Fathi fa il nome di Angelo Zampolini.
Il tunisino rivela che è a lui che ha consegnato somme di denaro, in quanto l'architetto faceva operazioni immobiliari per conto di Balducci e Anemone. Riferisce poi che, ancora per conto dei due datori di lavoro, avrebbe intrattenuto rapporti con vari soggetti, tra cui ministri ai quali consegnava messaggi o buste di contenuto sconosciuto. Ed è qui che nomina Lunardi. Sono in corso verifiche per accertare le parole di Fathi e gli eventuali incontri.
Intanto gli inquirenti continuano a concentrasi sull’acquisto dell’appartamento per Claudio Scajola. Lo stesso Hidri Fathi avrebbe infatti dichiarato di aver consegnato lui stesso all’architetto una somma di 500.000 Euro in contanti. Somma che sarebbe servita all’acquisto di un immobile dietro il Colosseo. Per i magistrati non c'è alcun dubbio sul fatto che si tratti proprio della casa del ministro. Inoltre, nell'interrogatorio del 23 aprile scorso, è stato proprio Zampolini a confermare tutte le circostanze raccontate dal testimone, aggiungendo che “oltre a Fathi, anche altri autisti e la segretaria di Anemone si occupavano di consegnarmi i contanti”.
Sono ancora tante le zone d'ombra della ragnatela di intrecci economici e politici che aleggiano su questa inchiesta. Certamente quello che è emerso è sufficiente per qualche dimissione. Ma in questo Paese per arrivare a tanto cosa dobbiamo aspettarci ancora?
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di mazzetta
C'era una volta un mondo nel quale il primo maggio era la festa dei lavoratori. Erano i lavoratori i protagonisti della festa ed era il lavoro, il motore sudante che muoveva tutto il paese. Lavoro come strumento di riscatto sociale, come via di fuga dalla miseria e dall'abbruttimento, passaporto per una vita dignitosa e tranquilla, anche se consumata in gran parte da una routine abbracciata più per dovere che per amore.
Il lavoro era tutto questo e una società appena uscita da un medioevo rurale durato secoli, bramava riscatto e lavoro, per avere lavoro e riscatto. Poi qualcosa ha cominciato a cambiare lentamente, il fallimento del “socialismo reale” ha aperto le porte alle pretese del padronato e della grande finanza e in pochi anni i media controllati dall'elite hanno trasformato prima l'immagine e poi la sostanza stessa del lavoro e dei lavoratori.
La meccanizzazione e l'informatizzazione hanno fatto il resto, consentendo di ottimizzare i processi produttivi e di diminuire la quantità di lavoro necessaria per unità di prodotto. Poi è arrivata la delocalizzazione e, con essa, la concorrenza di altri lavoratori che lavorano per molto meno, lavoratori ancora affamati di quell'atavico riscatto, bramosi di sedere alla grande tavola del consumo e, per questo, disposti a tutto. Miliardi di braccia gettate su un mercato con sempre meno barriere per le imprese e sempre più severo nel controllo delle masse lavoratrici.
Così il lavoro è diventato sempre di meno, è pagato sempre peggio e alla fine ha perso molto del suo valore reale e simbolico. Perché se oggi gli stipendi sono in proporzione più bassi, è altrettanto evidente che il lavoro come mezzo per la realizzazione personale e il riscatto sociale ha esaurito la sua funzione. Uno stato di cose testimoniato anche dal crollo della mobilità sociale nelle economie avanzate, dalla strage di competenze mandate al macero insieme ad intere generazioni di laureati e della sostanziale svalutazione di quelle organizzazioni sindacali che tanto avevano contato nello strappare diritti e dignità per i lavoratori.
Oggi, dopo una non troppo lunga trasformazione economica e sociale, il lavoro non c'è più e quello che c’è vale poco. È un dato di fatto: non c'è abbastanza lavoro per poter assicurare un reddito a tutti o quasi tutti, non c'è nelle economie avanzate e non c'è nemmeno in quelle emergenti, che emergono proprio perché hanno un serbatoio inesauribile di braccia pronte a tutto per entrare nel grande gioco.
Nel nostro paese il fenomeno è molto evidente, anche se poco dibattuto. La quota di italiani che ha un lavoro o un reddito da lavoro è bassissima, imbarazzante: tra i paesi dell'OSCE stanno peggio solo Turchia e Messico e, anche una volta che si faccia la tara dell'economia sommersa, si resta ben lontani dai paesi che stanno messi meglio. Tutti comunque in peggioramento, non solo per la crisi incombente.
La mancanza di lavoro e lo scarso valore dello stesso pongono una sfida enorme alla politica e allo stesso sistema ultra-liberista che negli ultimi tempi è sembrato a lungo privo di alternative. L'alternativa alla disgregazione sociale e all'impoverimento di intere società dovrebbe essere un argomento di dibattito interessante, ma la vilificazione della politica, funzionale all'ideologia che reclama il primato delle élite economiche proprio sulla stessa politica, sembra un antidoto efficace a qualsiasi tipo di discorso appena serio.
Non che le forze storicamente interessate al progresso sociale aiutino molto: da tempo i sindacati confederali hanno trovato il loro baricentro nella tutela dei pensionati e il loro stile nella concertazione, tanto che da qualche anno “festeggiano” il primo maggio con un grande concerto, passata la festa non ne rimane niente. Musica sì, proposte no. Nemmeno le forze politiche di sinistra sembrano troppo attive, pochi arrivano ora a concepire l'idea di un reddito di cittadinanza come necessaria misura di un nuovo welfare, non più legato al lavoro (workfare) che non c'è più, eppure si tratta di strumenti già presenti in varie forme in quasi tutta la UE. Eppure il Partito Socialista francese discute di “un nuovo modello produttivo” e addirittura di un “nuovo modello di civiltà” che ripensi fiscalità e welfare. Discorsi troppo complicati per l'Italia del ventunesimo secolo?
Già, chiedere lavoro ha poco senso, perché oggi il lavoro non è più il passaporto sufficiente a una vita serena, se pur applicata alla produzione di ricchezza, perché questa ricchezza è distribuita in maniera sempre più ineguale e nei paesi privi di stato sociale può addirittura succedere che i lavoratori si ritrovino disoccupati, senza assistenza sanitaria e titolari per parte uguale di un debito pubblico mostruoso, esploso proprio per pagare le scommesse sconsiderate di chi già si era accaparrato quasi tutto il frutto e il valore del lavoro del paese.
È evidente che qualcosa debba cambiare. Parlavano di qualità totale e intendevano la meccanizzazione dei processi produttivi; parlavano di sinergie e intendevano la concentrazione societaria e la costituzione di monopoli e cartelli; parlavano di flessibilità e intendevano la frantumazione della forza lavoro e la guerra tra poveri per lavori pagati sempre di meno. Flessibilità al ribasso, pagata di meno invece che di più, tanto che oggi può non essere sufficiente il salario per vivere, in particolare se si parla di quello dei lavoratori più “flessibili”.
Un cambiamento che da anni chiedono i movimenti e i gruppi riuniti sotto la protezione di San Precario, che sfilano a Milano per il decennale della Mayday e in altre città europee, chiedendo continuità di reddito e sostegno per i precari, che sono ormai la metà della forza lavoro, la più negletta, ma una forza che rifiuta di dare battaglia ai lavoratori (più) garantiti e di etichettare come privilegi i loro residui diritti. Un rifiuto della guerra tra poveri che va necessariamente esteso ai lavoratori migranti, in tempo di crisi perfetto capro espiatorio e già indicati come “ladri di lavoro” dai furboni che prosperano proprio sulle guerre tra poveri.
È tempo di un nuovo welfare, è necessario riprendere il cammino del progresso sociale e per farlo è necessario che i cittadini (e i lavoratori) muovano il dibattito in questa direzione, perché vivere sperando non basterà e la storia recente dimostra che si può fare ben poco affidamento sulla corrottissima classe dirigente italiana.