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di mazzetta
La morte dei nostri due soldati ha riacceso la luce sull'Afghanistan, sarà un attimo e tornerà a calare il buio, se non fosse per gli episodi luttuosi o qualche mascalzonata sparsa ai danni dei pochi italiani che vi si trovano senza essere stati mandati dal nostro governo, il conflitto afgano è chiaramente sotto-rappresentato dai nostri media. Molto più visibile la “minaccia iraniana”, molto teorica e ormai sfumata, delle guerre vere, difficile credere al caso o una follia diffusa.
Una volta deciso in maniera bipartisan e contro la volontà popolare che si andava, a livello politico non si sono più registrati grossi scossoni o incertezze e raramente la questione è diventata oggetto di disputa politica. Quando la luce si riaccende è già previsto un menu ampiamente rodato a base di cordoglio bipartisan, funerali solenni e la scontata bordata di retorica, ultimamente parecchio sopra le righe, visto che ci ritroviamo come ministro della difesa Ignazio La Russa, uno che non fa economia di parole in queste occasioni.
Siamo sempre stati il paese dello “armiamoci e partite”; in repubblica come in monarchia i nostri leader non hanno mai brillato quando si è trattato di proiettare il paese all'estero. Premesse che giustificano gli esiti peggiori, ancora di più se all'azione è chiamata la classe politica forse più scadente della storia del paese.
È un vero miracolo, che va riconosciuto al nostro esercito e alle capacità negoziali della nostra diplomazia sul campo, che il numero delle nostre vittime in Afghanistan sia rimasto straordinariamente contenuto in questi anni. Non stona farlo notare in questa occasione, perché il paese non è mai stato pronto ad accettare una mortalità che pure sarebbe compatibile con scenari di guerra. Lo stesso problema lo hanno gli americani, che pure perdono relativamente pochi soldati grazie alla prudenza e allo strapotere militare quando arrivano all'ingaggio diretto con il nemico.
Ben pochi dei paesi che hanno militari in Afghanistan sono mai stati disposti a sopportare tributi di sangue troppo alti, per questo sono stati impiegati nel presidio di zone relativamente tranquille e tenuti per quanto possibile lontani dalle principali minacce. All'amministrazione Bush servivano foglie di fico, non aiuti militari, che ha integrato con l'uso di un numero spropositato di mercenari, gran parte dei quali occupati a proteggere altri americani o a servire la truppa professionale, ma comunque più numerosi e ubiqui e coordinati con il comando statunitense della forza multinazionale nel suo complesso.
Così, da anni, stiamo lì a fare i bersagli, attesa dell'inevitabile trappola esplosiva o dell'attacco suicida, senza fare molto di più che presenza e qualche inevitabile brutta figura; basti pensare che il compito che ci eravamo assunti per aiutare l'Afghanistan, paradossale trovata del governo Berlusconi presa per buona dai soci nell'avventura, era quello di costruire un sistema giudiziario e di formare i giudici. Forse all'epoca il diabolico immaginava di poter mandare magistrati italiani in esilio ad insegnar diritto, ma non si potrà mai sapere, perché dopo nove anni non c'è traccia di niente del genere.
L'Afghanistan non appassiona, non essendo oggetto di competizione politica è praticamente rimosso, dimenticato. Quando succede qualcosa si alza un'autorità come il Presidente della Camera Gianfranco Fini che dice che è colpa dello scacchiere internazionale, poi Bersani dichiara che non possiamo lasciar vincere i talebani e La Russa che fa il suo numero. Berlusconi, fortunatamente, questa volta era malato.
Osservando La Russa in azione, mi è venuta in mente un'assoluta banalità: quella di chiedermi retoricamente perché non ci ha mandato suo figlio Geronimo, a compiere tutto quel dovere e tutto quel sacrificio per la Patria con la P maiuscola. Un attimo dopo non era tanto una banalità: pensandoci è pur vero nessuno tra i figli di parlamentari o ministri è in Afghanistan. Ma nemmeno ci sono figli di governatori o presidenti di regione o di leader politici, nemmeno uno. Persino la trota di Bossi è stata abbastanza sveglia da preferire i ricchi incarichi in Lombardia al fascino dell'avventura contro il feroce musulmano. Piccoli forchettoni crescono.
Non succede lo stesso negli altri paesi occidentali coinvolti nel conflitto, che mostrano più contegno e senso istituzionale. Questo italico unanimismo monolitico spiega più di tante parole quanto siamo portati per le avventure militari. Per il governo dell'epoca non si trattò certo di reagire con istinto guerresco, ma di comprarsi una sedia il più possibile vicino a Bush, il più potente di tutti. Come con Putin e altri, lungimirante. Ma quanto ci sono costati Bush e Putin? Alcuni muoiono e altri ne traggono vantaggio, è sempre così con le guerre; negli Stati Uniti si sono rubati anche gli sgabelli all'ombra della guerra, oltre a pregevoli pezzi d'Iraq.
Certo è che andare al traino non esime da responsabilità, ancora di più quando si osserva che la politica dell'amministrazione Obama non si sposta di una virgola da quella di Bush. L'approccio ai problemi è tanto simile che la nuova retorica con la quale è impacchettato non basta a nasconderlo, tanto che è appena spuntata l'ennesima Abu Grahib e si è saputo che la base americana di Bagram è un centro di tortura simile a quello iracheno. L'unica differenza é che questa volta non si è trovato ancora un idiota che mettesse le sue foto su Facebook mentre applica elettrodi ai testicoli di un poveretto incappucciato.
In Afghanistan gli americani, e con loro gli alleati, stanno peggio di come stavano alla fine del 2001, dopo un mese di permanenza. Supportano Karzai che pure hanno accusato pubblicamente di aver vinto con i brogli e che correva contro un rivale che poi è stato cooptato al governo. Una farsa in faccia agli americani, che però non hanno trovato un altro “presidente” alternativo in tempo a rimpiazzare quello fallito ma abbastanza vitale da resistere al potere, che avevano scelto loro. Ora siamo al tempo del “surge”, cioè di un’accelerazione bellica che dovrebbe migliorare la situazione come la stessa tattica in Iraq.
Vaglielo a dire agli italiani e agli americani che il “surge” in Iraq non è servito a nulla, che esisteva per lo più sui media; e vaglielo a dire che oggi gli iracheni muoiono a decine ad attentato, mentre gli americani si sono “ritirati” dentro le basi nel deserto e nell'enorme fortezza (in teoria ambasciata) che hanno costruito in mezzo a Baghdad. Ci sono state le elezioni, ma il governo è ancora da fare a distanza di settimane e probabilmente la coalizione vincente non sarà quella preferita da Washington. Dettagli: l'Iraq già non esiste più in Occidente, non esistono nemmeno il suo milione di vittime e i quattro milioni di profughi, quasi un quinto della popolazione.
Immaginare che una persona su cinque di quelle che conosciamo muoia o scappi da qui a sei anni, rende l'idea del danno fatto da Bush nello scatenare una guerra impopolare e fondata su una marea di balle grossolane. Non c'entrava la guerra al terrorismo, non c'erano le armi di distruzione di massa, solo petrolio di ottima qualità. Quando è stato chiaro a tutti quale fosse il vero scopo, hanno detto che era troppo tardi per tornare indietro. Probabilmente l'amministrazione Bush ha conseguito i suoi scopi, ma il mondo pagherà a lungo un prezzo enorme per la sua decisione di occupare l'Iraq per il prossimo decennio. Noi nel nostro piccolo abbiamo dato la consueta manciata di giovani eroi, ma per fortuna ormai è finita e, qui, quello che è successo e succede in Iraq non interessa più a nessuno. Meglio rimuovere in fretta e girare la testa da un'altra parte.
Ancor meno interessa quello che succede in Somalia, dove il nostro storico inviato, il diplomatico Mario Raffaelli, è stato sostituito a gennaio senza che sia mai stato chiaro quale fosse l'agenda italiana per il paese e nemmeno quale sarà chiamato ad interpretare il suo successore. Raffaelli probabilmente è riuscito ad operare decentemente ( le buone referenze lo hanno portato a diventare presidente di AMREF Italia) proprio perché nessuno era interessato a capire cosa stesse succedendo, e quindi a ingerire. Resta che la Somalia è ancora allo sbando e che se prima c'era un governo di islamici, poi è arrivata la dittatura etiope a cacciarli per conto degli americani.
Successivamente gli etiopi se ne sono andati e adesso di islamici ce ne sono almeno di tre tipi: uno buono finalmente al governo, uno cattivo e uno cattivissimo. Gli annunciati rinforzi in addestramento in Kenya si sono rivelati fantomatici e il divide et impera continua a tenere la Somalia nel disastro. Ce ne ricorderemo se i pirati cattureranno qualche italiano al volo, altrimenti niente.
Così come un giorno ci accorgeremo che gli Stati Uniti di Obama hanno aperto un altro sanguinoso fronte in Pakistan, dove ormai non si finge nemmeno più e dove gli americani operano dall'alto con i droni e l'esercito pakistano finalmente muove contro i talebani e altri associati, che rispondono con attacchi alle città. In tutto questo il Pakistan ha dato un segnale di vitalità, perché la debolezza politica dello scarsissimo e corrottissimo marito di Benazir Bhutto (scelta dagli americani e uccisa con un attentato pauroso), ha permesso finalmente una riforma costituzionale degna di questo nome. Peccato solo che in Pakistan nessuno investa ancora in scuole, perché il Pakistan ha sempre preferito spendere in armi gli aiuti che riceveva dagli americani per fare da baluardo contro l'India, l'URSS e la Cina, riservando l'istruzione alla classe dominante e condannando il resto alle madrasse finanziate dall'Arabia Saudita.
Una scelta scellerata di regimi scellerati sempre sostenuti dagli Stati Uniti, complici di Yaya che fa il massacro in Bangladesh, di Alì Bhutto che comincia il programma nucleare, di Zia ul Haq che procede a passo di carica nell'islamizzazione della società e delle leggi. Così hanno prodotto abbastanza mujaheddin da cacciare i russi dall'Afghanistan, ma anche bombe atomiche, gli attentati dell'11 settembre e parecchi altri. Oggi il Pakistan soffre migliaia di vittime all'anno e già più di un milione di profughi interni.
Come mai tutto ciò accade con un paese storicamente “alleato” (vale lo stesso per l'Arabia Saudita)? E come mai non si trova invece uno straccio d'iraniano, siriano, libanese o palestinese disposto a partecipare a quella che hanno raccontato come la grande jihad contro l'Occidente? E’ un mistero glorioso che andrebbe chiarito dagli spacciatori di certe narrative, ma è difficile che qualcuno li disturbi con domande importune. E poi non si poteva certo pretendere da Bush di rovesciare la monarchia saudita, sono cose che non si fanno tra amici di famiglia.
Non resta che incrociare le dita e sperare nello stellone, i nostri parlamentari sono quelli che se sentono dire Darfur pensano al fast-food, pensano a mangiare loro, la guerra è affare dei nostri giovani eroi, a tutti gli altri non resta che continuare a sperare che il nostro coinvolgimento diretto s'interrompa il prima possibile.
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di Mariavittoria Orsolato
Gli occhi di tutta Italia sono puntati sul continuo turbinìo di notizie riguardante la cricca e i suoi illustri clienti: un po’ perché il gossip sull’intrallazzo piace molto, un po’ perché il vaso di Pandora scoperchiato dalle inchieste sui lavori del G8, sta innescando una vera e propria crisi di sistema entro ed oltre Tevere. Nella lista recuperata nel 2009, a seguito di un’ispezione della Guardia di Finanza in una delle sedi della ditta Anemone, ma divulgata dalla stampa solo pochi giorni fa, c’è buona parte di quella che viene definita “l’Italia che conta” e, se molti di questi nomi sono presumibilmente privi di interesse giudiziario, è un dato di fatto che altrettante figure di spicco delle politica, delle forze armate e del clero hanno usufruito dei servigi e dei favori del costruttore romano.
Un illustre sconosciuto, fino a pochi mesi fa, che ha preso in mano l’azienda paterna per trasformarla nel massimo catalizzatore di appalti della storia della seconda repubblica. Le fortune di Diego Anemone affondano infatti le loro radici in un passato nebbioso, un passato che nemmeno Luisa Todini - capo degli imprenditori europei nei settori delle infrastrutture ed ora papabile per il ministero lasciato vacante da Scajola - riesce a collocare in quanto, a detta sua, il nome di Anemone non l’aveva mai sentito prima dello scoppio dello scandalo.
La parabola del palazzinaro prende il via nel 2003, anno in cui, secondo la lista emersa da una rocambolesca fuga di notizie, si possono contare ben 151 commissioni; il vero salto di qualità avviene però con gli appalti statali che nell’arco di sei anni arrivano ad essere addirittura sessantacinque. Le anomalie riguardanti i lavori straordinari per il G8 alla Maddalena, la ricostruzione dell’Aquila e le opere per i mondiali di nuoto romani, sono già emersi all’interno dei fascicoli aperte dalle Procure romane e fiorentine. Adesso è il turno della Procura di Perugia che, nell’ordinare i numeri della contabilità sequestrata ad Anemone, ha dato una fisionomia al sistema latente dietro a tutti gli appalti ordinari commissionati; appalti che secondo l’accusa sarebbero frutto di un’interazione diretta con gli allora ministri Scajola e Lunardi, e del salvacondotto della Protezione Civile diretta da Guido Bertolaso.
Si scopre così come Anemone, grazie al “certificato Nos - Nulla Osta Sicurezza” per le convenzioni con le istituzioni d’Interno e Difesa, si aggiudichi due appalti con i Carabinieri della caserma Tor di Quinto a Roma, quattro con il Viminale - tra cui il cantiere di via Zama, sede del Sisde - ed infine ben dodici appalti per otto caserme della Guardia di Finanza. Che proprio in quest’ultimo corpo Anemone avesse degli agganci tra i generali e i marescialli, e che questi, come il generale Francesco Pittorru - premiato con ben due immobili nel centro di Roma e ora agente dei servizi segreti - non esitassero ad informarlo su eventuali accertamenti a suo carico, è un’evidenza che però non scioglie i dubbi sull’origine delle fortune del costruttore di Grottaferrata.
Sempre nel 2003, Anemone e la sua ditta d’infrastrutture fanno il loro ingresso nei palazzi del Governo: nella lista sono documentati quattro interventi a Palazzo Chigi, uno al Ministero della Pubblica Istruzione, uno al Ministero del Tesoro e uno al Viminale. Le istituzioni richiederanno la professionalità di Anemone altre diciotto volte per arrivare, nel quinquennio 2003-2008, alla bellezza di venticinque interventi in sedi governative. Che da questi servigi siano scaturiti ghiotti appalti pubblici nell’area romana, lo testimoniano i lavori compiti al Policlinico Umberto I, quelli effettuati all’Ospedale Spallanzani e le due commesse per l’Università: la Facoltà di Architettura di Valle Giulia e la Casa dello studente di Latina.
Ad ulteriore riprova del fatto che i rapporti del costruttore con il Vaticano erano poi tutt’altro che schivi, ci sono poi i lavori su sette chiese, quelli effettuati sul lungotevere papalino, e gli interventi a diversi istituti missionari, tra cui quello del Preziosissimo Sangue, identificato dai Ros come una delle casseforti di Anemone. La chiave di volta di questo immenso sistema clientelare risiederebbe proprio oltreTevere, dove la società a responsabilità limitata con soli 26 dipendenti diventa la ditta più gettonata per le opere pubbliche, straordinarie e non. L’amicizia con Angelo Balducci, gentiluomo di Sua Santità ed ex presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, pare spianare la strada ad Anemone che nel giro di pochi anni arriva a decuplicare i suoi ricavi pur non potendo, per dimensione societaria, partecipare a gare superiori ai 5 milioni di euro.
Per arrivare a costruire quell’impero finanziario che è oggi l’Anemone srl, il giovane Diego ha usato una corsia preferenziale fatta di compiacenze sessuali, generose elargizioni e regalìe che richiamano alla memoria - soprattutto per quanto riguarda gli ambienti vaticani - le famose mini-fatture emesse dalla Frasa Spa di Adolfo Salabè, l'architetto coinvolto nello scandalo dei fondi neri del Sisde esploso nel 1993. Come verificato per l’inchiesta sulla cricca, anche allora una ditta edile emise delle fatture dalla cifra irrisoria (100.000 lire circa) per lavori di ristrutturazione in alcune chiese romane, tra cui quella di S.Pietro e Paolo all’Eur.
Anche allora l’uomo in questione era un gentiluomo di Sua Santità, anche allora i nomi emersi dalle indagini coinvolgevano la politica e i servizi segreti. Il sistema di riciclaggio del 1993 non era poi per nulla diverso da quello utilizzato da Anemone: sebbene i prezzi vengano corrisposti per intero, al momento della transazione se ne dichiara solo una parte e la differenza, debitamente depositata in conti off-shore o intestati a prestanome, crea una provvista di liquidità. Nel 1993 la provvista serviva al Sisde, nel 2010 non c’é ancora dato sapere.
Quello che per ora è certo, è che una buona fetta degli introiti illeciti della premiata cricca Balducci-Anemone riposano nelle casse dello Ior. Come consigliere di Propaganda Fide - la congregazione per le opere missionarie che solo a Roma gestisce un patrimonio di 9 miliardi di euro in immobili - Angelo Balducci dispone di un conto nell’impenetrabile banca vaticana ed è molto probabile che parte dei soldi ricavati dalle operazioni illecite effettuate con i servigi di Anemone risieda li, al riparo dalle rogatorie.
Se quindi è ormai chiara la connivenza tra il Vaticano e la famigerata cricca, quello che rimane da chiarire sono i motivi per cui alcune tra le più influenti personalità ecclesiastiche abbiano deciso di sostenere la causa di lucro di due laici come Balducci e Anemone. Un’interpretazione alquanto cinica porterebbe a pensare che gli alti prelati abbiano anch’essi un proprio tornaconto, ad esempio nelle compravendite d’immobili effettuate dal costruttore di Grottaferrata o nei prestiti che Balducci generosamente elargiva ai porporati in bolletta come monsignor Francesco Camaldo.
Come siano veramente andate le cose potrebbe spiegarlo Diego Anemone, che in questi giorni ha cominciato gli interrogatori alla procura di Perugia. La volontà dei magistrati di andare in fondo a questa vicenda, che di fatto ha innescato una crisi di sistema che tocca tutti gli ambienti istituzionali, è però destinata a scontrarsi contro il muro di gomma di San Pietro; un muro che in 64 anni di storia repubblicana ha nascosto e protetto le radici di troppi scandali.
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di mazzetta
Sono passati due anni da quando la crisi, a lungo annunciata, ha cominciato a far sentire i suoi effetti devastanti, deprimendo l'economia e minacciando l'implosione della finanza mondiale. Fin da subito è stato chiaro, anche a molti di quanti fino ad allora non avevano creduto alle Cassandre, che il sistema crollava perché era insostenibile. Si parlò di schema-Ponzi e non ci si riferiva solo alle truffe di Madof o di altri suoi emuli, ma al peculiare assetto della finanza internazionale che era evidentemente sostenibile solo in costanza di una geometrica crescita del capitale circolante e delle scommesse finanziarie; proprio come uno schema piramidale, che funziona solo in fase d'espansione e poi implode alla minima inversione di tendenza.
Nonostante l'evidenza, i media accettarono di buon grado di inquadrare la questione secondo i desideri della grande finanza e, inizialmente, puntarono il dito contro i mutuatari americani più deboli, quelli che avevano sottoscritto i famigerati mutui sub-prime senza poterseli permettere. Per un po' funzionò, a dispetto dell'evidenza statistica per la quale i “poveri” contraenti dei sub-prime avevano tassi d'inadempienza dei loro impegni più bassi di quelli degli altri mutuatari prime. I poveri pagavano meglio, ma non importava, come non importava che molti dei sub-prime andati in malora fossero stati in realtà concessi a società o a individui che speculavano sul mercato immobiliare senza avere sufficienti garanzie da offrire alle banche.
Non fu casuale questo puntare il dito sui sub-prime, perché consentiva all'amministrazione americana di scaricare la colpa sull'amministrazione Clinton (che aveva favorito e innescato il fenomeno) e alla grande finanza di scaricare le responsabilità su una delle poche decisioni politiche che non avevano lo stigma evidente di essere a favore dell'élite finanziaria (anche se lo era) e, infine, sui poveri. Il disastro non era quindi colpa dell'amministrazione USA e nemmeno di Wall Street. Dal loro punta di vista non si poteva sperare di meglio nell'occasione e fu uno scherzo farsi seguire su questa strada dai media mainstream, anch'essi complici omertosi del disastro e spesso controllati dagli stessi soggetti che portavano la responsabilità della crisi.
Inquadrata così, la crisi provocata dalle élite finanziarie e dalla loro avidità ha assunto un altro aspetto e a perfezionare l'operazione ha provveduto la confusione sui prodotti derivati, chiamati in causa quando è stato evidente che la crisi eccedeva di gran lunga la massa dei sub-prime e che quindi, il framing, (l'inquadrare il dibattito) entro limiti favorevoli, rischiava di andare in pezzi. I sub-prime sono però rimasti ad aleggiare sullo sfondo, indicati come elemento detonante di una crisi provocata dall'eccessiva creazione di prodotti derivati e dall'uso spregiudicato della leva finanziaria.
Puntare l'indice contro i derivati è stato conveniente per diversi motivi: sia perché sono strumenti complessi, in larga parte incomprensibili al grande pubblico (al quale ben pochi hanno cercato di spiegarli), che per la loro natura di scommesse tra operatori professionali. Chi ha sottoscritto tali scommesse, infatti, è (o avrebbe dovuto essere) un operatore professionale, per lo più assistito da professionisti del ramo, sia nel caso di grandi aziende o di istituzioni pubbliche. Tutta gente che, pur scottata da vere e proprie truffe, non pensa minimamente a mettere in discussione il sistema o ad accusare le controparti con le quali spesso ha cointeressenze o intrecci relazionali molto robusti, per non dire di quanto la politica sia stata sempre più influenzata dalla finanza negli ultimi decenni.
Che poi insieme agli operatori professionali siano stati trascinati nella polvere anche i pensionati e i piccoli risparmiatori con le loro modeste rendite legate alla borsa, non è sembrato assumere grande rilevanza: molta più enfasi è stata riservata ai problemi del sistema (quindi dell'élite) e alla necessità di salvarlo, pena una fine peggiore per tutti.
È bene ricordare che, fin dall'inizio della crisi, ogni tentativo di framing ha contribuito a costruire un vero e proprio muro che ha nascosto al dibattito un suo carattere fondamentale: quello di essere prima di tutto una crisi statunitense. Sono infatti statunitensi le grandi banche e le grandi finanziarie fallite (o salvate da un fallimento inevitabile) e sono d'origine statunitense sia l'impostazione del sistema finanziario che si è andata delineando dopo la caduta del muro di Berlino, che il brutale impulso che ha spinto il mondo verso l'adozione del modello ultra-liberista.
Modello che si è poi rivelato in grado di garantire solo la libertà delle élite finanziarie di drenare risorse dall'economia reale, per poi bruciarle ai tavoli del grande casinò finanziario di Wall Street, del quale negli anni gli stessi operatori hanno assunto il controllo quasi totale e, con esso, la possibilità di truccarne le carte e i conti. Statunitensi sono le grandi banche d'affari e anche la più grande impresa d'assicurazione al mondo, quell'AIG che, forte dei premi e dei capitali dei suoi assicurati, aveva assunto la funzione di garante di qualsiasi prodotto finanziario messo sul mercato, anche il più scellerato e ben oltre le sue capacità di onorare tali impegni.
Per mantenere questo assetto è stato necessario nascondere fino all'ultimo la verità, emarginare ogni voce critica, ogni invito alla prudenza e alla chiarezza dei conti. Così che Alan Greenspan, già nel 2004, decise di mantenere segreti i rapporti e le relazioni che avrebbero dovuto allarmare il governo americano e i mercati sul montare di una bolla immobiliare già allora matura, con il pretesto che il sistema era “troppo complesso” per permettere alle opinioni pubbliche di venirne a conoscenza nei dettagli e quindi di poter formarsi ed esprimere un'opinione che avrebbe potuto “davvero” mettere a rischio il sistema e far saltare il banco, comunque destinato a saltare con il tempo. Una realtà certificata dai numeri e dai rapporti in possesso di Greenspan, tenuta gelosamente riservata per ben quattro anni e venuta alla luce solo la settimana scorsa.
Allo scoppiare della crisi i giocatori, gli arbitri e i cronisti di questa grande partita erano ormai indistinguibili gli uni dagli altri, legati da intrecci inestricabili, da una malriposta pretesa superiorità di classe e al di sopra delle leggi, che pure li avrebbero visti falliti o condannati. Lo sono ancora, se possibile oggi ancora di più. I grandi attori economici sono usciti dalla prima fase della crisi ancora più grandi a seguito di un riassetto del sistema operato salvando gli uni e poi vendendo loro gli altri che si era deciso di bollare come vittime sacrificali, tenendo in vita il tutto con enormi iniezioni di denaro pubblico. Anche le società di revisione contabile e le agenzie di rating hanno subito lo stesso destino e oggi le “too big to fail”, le corporation troppo grandi per poter fallire senza provocare la distruzione generale, sono ancora più grandi e il sistema è ancora meno governabile e trasparente di quanto non fosse all'inizio della crisi.
Se all'alba della crisi Bush, Obama e gli altri leader internazionali annunciarono la necessità e il pronto varo di regole nuove, queste però non si sono viste. Alle grandi società finanziarie americane in fallimento fu assicurata la garanzia governativa per i titoli tossici, nuove regole “creative” con le quali truccare i bilanci e una mostruosa iniezione di denaro per coprire i buchi. Un errore marchiano, perché con quei soldi il sistema finanziario non ha riempito i buchi (nascosti provvisoriamente grazie alle regole contabili creative) e nemmeno ha finanziato l'economia reale, che non si riprende perché i capitali necessari agli investimenti sono dirottati altrove.
Quei soldi sono stati “reinvestiti” nel casinò, come se nulla fosse successo, ma non senza ragione, dato che in costanza di condizioni quella destinazione offre l'aspettativa di maggiori e più rapidi guadagni. La cosa ha determinato l'ovvia risalita dei corsi azionari e grossi guadagni per quegli stessi dirigenti che avevano portato al fallimento le loro aziende e l'economia statunitense. Così si è verificata la “ripresa senza occupazione”, perché a riprendersi è stata solo la giostra delle borse, ormai avulsa dall'economia reale, che invece ha continuato a macinare disoccupati, fallimenti personali e sfratti a passo di carica. In una situazione del genere, negli Stati Uniti si sono sentiti anche fior di analisti e politici esprimersi contro la concessione di sussidi ai disoccupati (una goccia rispetto a quanto dato alle banche) con il pretesto che una volta “assistiti” con quattro soldi al mese avrebbero perso la voglia di lavorare.
Poi sono venuti gli attacchi all'Euro e alle economie più deboli dell'Unione Europea. Un gioco facile, poiché gli stessi speculatori erano quelli che avevano contribuito ad inflazionarne i bilanci, quando non erano stati direttamente complici degli stati nel truccare i conti, come nel caso della Grecia e del suo rapporto con Goldman Sachs. Un gioco facile almeno fino a quando l'UE non ha trovato un briciolo d'unità politica e fatto muro contro l'attacco. Niente di particolarmente difficile, rappresentando i paesi più in difficoltà solo una frazione dell'economia europea (la Grecia ne vale circa il 2%), ma ancora una volta l'occasione è stata colta per proseguire sulla strada sbagliata: nel pagare i debiti delle banche, delle istituzioni finanziarie e dei governi collusi si è riaffermata la stessa ricetta fallimentare.
Tagli ai servizi sociali, alla sanità, all'istruzione, alle pensioni: la proposta corre proprio nel senso della demolizione di quello che ancora fa la differenza tra il sistema americano e quello europeo e la crisi delle banche. In Europa, come negli Stati Uniti, il fallimento degli dei della finanza lo devono pagare i cittadini, lavorando per salari ancora più bassi, rinunciando a diritti acquisiti e facendo ogni economia per ripagare i debiti altrui, con il miraggio che una volta ripartita la giostra andrà bene per tutti.
Non sarà così. Gli stessi ministri europei ed americani hanno più volte ripetuto che la crisi è sistemica e non si riferivano certo ai sistemi statali e agli stati che si sono dovuti svenare ed indebitare per pagare i fallimenti delle banche, come già è toccato agli americani e agli islandesi e un po' a tutti nel mondo. Una truffa auto-evidente, ma non basta questa evidenza a superare la narrazione falsa e tranquillizzante diffusa dai media e da “ottimisti” come Berlusconi. È il sistema finanziario globale che è in crisi, che è evidentemente rotto e incapace di funzionare secondo le non-regole in vigore, che favoriscono solo l'arroganza e la spregiudicatezza del più forte, incapaci di sanzioni anche a fronte dell'evidenza di comportamenti criminali e professionalmente inadatti.
Se la crisi è sistemica significa che il sistema, così com'è, è condannato a ripetere gli stessi errori. Di più, significa che nascondendo la verità dei conti e dando alla finanza americana il denaro per tornare a giocare, si sono poste le premesse per la definitiva implosione del sistema, perché dall'anno prossimo le grandi corporation americane dovranno rimborsare quantità sempre più elevate di debiti e nessuno è in grado di spiegare come faranno.
E’ invece chiarissimo che nemmeno gli Stati Uniti si potranno permettere un altro bailout, ancor meno in costanza di tre guerre che dissanguano i bilanci. Affermare che i militari americani sono troppo pagati e che si spende troppo per assicurare loro la copertura sanitaria, non serve a molto; anche in questo caso si tratta di miserie se paragonate al buco nei conti della finanza. Buco che, come già spiegato all'alba della crisi, è abbastanza grande da inghiottire l'intera economia mondiale e di scatenare una depressione tale da far impallidire quella del '29.
Non rendono quindi un buon servizio ai cittadini Tremonti e i suoi colleghi europei quando decidono di affrontare una crisi che definiscono sistemica senza ipotizzare alcuna modifica al sistema. E lo stesso Obama e il Congresso americano si confermano così tanto parte del sistema da non poter far nulla per riformarlo.
Non si tratterebbe di un'impresa titanica, perché i problemi di oggi sono gli stessi che l'economia affrontò ai tempi dei Robber Barons, così simili agli autoproclamati “dei” di Wall Street. Rompere i monopoli e i cartelli, ridurre le dimensioni delle corporation, reintrodurre la separazione tra i diversi business finanziari, introdurre regole, vigilanza e sanzioni efficaci, aumentare la tassazione sulle rendite finanziarie e le tasse di successione per i grandi patrimoni. Niente di particolarmente astruso o bolscevico, sono anzi provvedimenti che darebbero maggiore “libertà” operativa agli operatori economici, non più schiacciati da un'elite che si scrive le regole e si autoassolve quando le infrange, e finalmente in grado di competere ad armi pari in una ambiente più sano, competitivo e onesto.
Niente di rivoluzionario, ma abbastanza da mettere sulla difensiva il sistema e i suoi protagonisti, che non sono per niente disposti a pagare il prezzo delle loro colpe e che preferiscono continuare il blame game (il dare la colpa ad altri all'infinito senza mai arrivare al riconoscimento di alcuna responsabilità) fino a che non avranno messo al sicuro i loro guadagni o fino a quando il sistema non imploderà definitivamente, lasciando il cerino in mano ad altri che bruceranno nel rogo, mentre i soliti noti s'arricchiranno ulteriormente comprando a prezzo di saldo.
Per questo siamo ancora esattamente dove eravamo quando è scoppiata la crisi, con i ministri, i presidenti e i media che ci dicono che il sistema è rotto, ma che da allora evitano accuratamente qualsiasi proposta di riforma del sistema che non sia la semplice cosmesi dei conti o la continuazione della rapina ai danni della massa dei cittadini. Le conseguenze di un tale stato di cose dovrebbero a questo punto risultare evidenti: la crisi continuerà a peggiorare inevitabilmente e il suo costo aumenterà ogni giorno che passa, senza alcuna speranza di un esito diverso.
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di Rosa Ana de Santis
La domanda é: sono delinquenti perché clandestini o clandestini perché delinquenti? La risposta forse l'ha fornita il Sindaco di Milano, Letizia Moratti, con le dichiarazioni xenofobe rilasciate al convegno "Per un'integrazione possibile”. Le parole della Moratti interpretano bene gli umori nazionali e, a sprezzo di tanta cronaca che pure avrebbe dovuto indicare diversi percorsi d’interpretazione del fenomeno, insistono come un’ossessione sul tema del reato di clandestinità. L’espulsione immediata di quanti sono irregolari e l’equazione di fondo tra irregolarità e delinquenza non tiene conto di alcuna attenta osservazione su quanto accade nel nostro Paese.
Chissà se la Moratti, quando parla di delinquenti stranieri in quanto clandestini, pensa alle domestiche che quasi tutte le famiglie hanno in casa, o non stia piuttosto pensando agli schiavi di Rosarno, o magari agli operai nordafricani arrampicati nel vuoto delle gru delle imprese edili del bresciano.
La clandestinità diventerebbe così il reato per eccellenza e l’espulsione immediata la panacea dei nostri mali. Nessuna valutazione degli effetti che questo avrebbe sull’economia italiana che ha imparato in fretta a guadagnare anche da questo sommerso venuto dal mare; soprattutto nessuna lettura sistemica di un fenomeno che va oltre i confini nazionali e che non potrà mai essere risolto in modo unilaterale e soltanto coercitivo da un paese lanciatosi, in modo schizofrenico, tra l’avventura europeista e la rivendicazione autarchica dei confini.
L’immigrazione è uno dei risultati delle politiche economiche planetarie che hanno acuito tremendamente il già eccessivo divario tra Nord e Sud del mondo. Se il 20% del pianeta consuma l’80% delle risorse la colpa non può essere delle vittime di questo sconcio che cercano solo di sopravvivere. Il problema degli stranieri c’è come c’è in tutti i paesi che sono diventati mete di questo esodo continuo di poveri. In Italia, aldilà del terrorismo padano, non siamo ancora al caso delle banlieu parigine, teatri delle rivolte degli stranieri.
Non siamo ancora alla coincidenza esplosiva tra degrado e immigrazione, alla consacrazione ufficiale dei ghetti e delle gang e, proprio per questo, la politica dovrebbe lavorare alla prevenzione di questi fenomeni degeneranti che andranno ad aggravare la situazione delle periferie urbane, già impastate di malavita e ulteriormente fiaccate dalla povertà dell’ultima crisi.
Ma gli stranieri in Italia lavorano. A nero, precari e sfruttati, ma in larga parte hanno un accesso al lavoro. La seconda generazione d’immigrati, inoltre, non è ancora così numerosa e l’integrazione potrebbe avvenire sotto minor pressione sociale che non in altri paesi europei. Il quadro del paese non è, ad oggi e numeri alla mano, quello dell’assedio permanente che denuncia la destra o la Lega Nord.
L’incognita del futuro ha certamente bisogno di misure politiche preventive forti e non della rimozione e della cancellazione dei migranti come elemento di fastidio o di disturbo. L’impresa, peraltro fallimentare, di cancellare i migranti, andrebbe piuttosto gestita dalla politica e non chiusa in carcere dalla polizia. Solo questo permetterà di cavalcare l’emergenza assecondando quella che sarà nella storia un’inevitabile e necessaria metamorfosi del nostro paese e della nostra stessa categoria di nazionalità.
A questo ci si prepara, a partire dai banchi scuola, invece di partorire la ghettizzazione delle classi ponte. Non togliendo il diritto di cura agli stranieri con la minaccia della denuncia. A questo ci si prepara con la comprensione che la clandestinità è una condizione speciale della cittadinanza e non la perdita dello status di cittadinanza o, addirittura, il pretesto per la cessazione dei diritti individuali come qualche fattaccio tricolore ha dimostrato. Le parole di qualche solerte sindaco leghista, l’assassinio di Abdul a Milano, i vigili di Parma e le botte a Emmanuel. Per tutti clandestini, senza che nemmeno lo fossero.
Ma su tutti il caso paradigmatico è quello di Rosarno. Venduto ai giornali come la rivolta di stranieri violenti non era altro che la protesta di nuovi schiavi, manovalanza del noto e tradizionale male italiano: gli affari della mafia e la loro convivenza pacifica con la società civile e con le istituzioni. Di questo si trattava e non di neri o di stranieri facinorosi.
L’immigrazione esaspera mali già presenti. Acuisce ferite che già abbiamo addosso. Non è certamente soltanto esotismo e curiosità culturale. L’integrazione è un travaglio sociale. Ma l’opposizione ad essa è la garanzia scientifica di un paese che non avrà futuro. Iniziare a parlare dello Ius soli (diritto per nascita) e della fine dello status di cittadinanza legato al sangue, significa aprire la mente a un nuovo mondo di pensare l’Italia e gli Italiani. Dove l’inclusione diventi il cardine della nuova cittadinanza. Questo salverà la legge e impedirà che la condanna quasi mistica alla condizione dell’illegalità diventi il simbolo di un marchio antropologico sulla condizione di vita degli stranieri.
Stranieri come a voler dire fuori dalla società. E’ questo esonero e questa vacanza in una condizione indefinita del diritto, il marchio che trasforma la condizione dello straniero nella vita di un paria che per nascita rimane fuori dalla sistema sociale. Le banlieu iniziano così. Il degrado imposto e interiorizzato diventa nel tempo una pericolosa alleanza di condivisione. Terre senza Stato per nessuno, squallide e dimenticate, attaccate alle porte delle case dorate.
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di Nicola Lillo
Sono ancora tante le sorprese che la “cricca” di Bertolaso e soci continuano ad offrire. Il nome di un altro ministro dell'attuale governo è infatti nelle nuove carte dell'inchiesta sugli appalti dei Grandi Eventi. Stiamo parlando di Sandro Bondi, ministro dei Beni Culturali. Gli atti della Procura di Firenze rivelano legami tra società, dubbie nomine ministeriali e, inoltre, possibili collegamenti con Cosa Nostra.
Ma andiamo con ordine. Nella ricostruzione della vicenda da parte del Corriere della Sera e La Repubblica emerge che nel dicembre del 2009 “Salvo Nastasi, capo di gabinetto del ministero dei Beni Culturali, comunica ad Angelo Balducci la distribuzione degli incarichi per l'appalto del lavoro di restauro dei Nuovi Uffizi”. Incarichi distribuiti con il placet del ministro Bondi: Mauro Della Giovampaola “soggetto attuatore”, Enrico Bentivoglio “responsabile unico del procedimento”, Riccardo Miccichè “direttore dei lavori”. Secondo il ministero è una “buona squadra”. Di diversa opinione invece De Santis, il quale parla al telefono con Bentivoglio. Inizialmente si lamenta di Della Giovampaola, per poi parlare di Miccichè.
Bentivoglio: “tu lo sai chi hanno nominato direttore dei lavori? Il siciliano”
De Santis: “Miccichè? Non ci posso credere!”
Bentivoglio: “si... “di comprovata esperienza e professionalità”..lui è lui”.
De Santis: “quando lo vedo gli dico: siamo proprio dei cazzari guarda, siete proprio dei cazzari..andate in giro a rompere il c...”
Bentivoglio: “ma ti rendi conto? Quando siamo andati che ci stava pure Bondi..abbiamo fatto la riunione l'altro giorno..siamo tornati in treno..c'era pure Salvo (Nastasi, ndr) allora stavamo un attimo da soli e ho fatto “Salvo ma siamo sicuri di coso, qua del siciliano?” “sì non ti preoccupare..poi io c'ho un fatto personale che tu non c'hai”. Dico: “Tutto il rispetto perchè è una persona in gambissima, ma gestire un lavoro del genere”.
De Santis: è un bordello aho!
In effetti Miccichè non sembra essere munito di particolare esperienza in quel settore. Ma chi è Riccardo Miccichè? Ingegnere agrigentino, con competenza nel ramo del management di aziende specializzate nella “preparazione dei terreni per erbe e piante officinali” e nella “attività di parrucchiere per donna, uomo, bambino, di manicure e pedicure”, è stato uno degli amministratori della società Erbe Medicinali Sicilia, e socio della Modu's Atelier, che si occupa proprio di parrucchieri e manicure. Di sicuro un soggetto non di “elevata e comprovata esperienza”, ma al quale è stato comunque affidato un appalto di 29 milioni e mezzo di Euro.
Come mai è stato chiamato proprio lui? Sicuramente ha amici che contano, come Mauro Della Giovampaola e Francesco Piermarini, il cognato di Bertolaso, con cui lavorò a La Maddalena come “rappresentante della struttura di missione”. Ebbe contatti anche con Diego Anemone. Ma c'è un aspetto inquietante che riguarda Miccichè: suo fratello. Fabrizio Miccichè è, infatti, il responsabile tecnico della ditta Giusylenia srl, che si occupa di appalti pubblici. Una impresa “sotto il controllo di esponenti di Cosa Nostra agrigentina”, accusati di aver favorito la latitanza di Giovanni Brusca. Il socio di maggioranza è Antonio De Francisci, lo stesso nominato in un dattiloscritto sequestrato durante l'arresto di Brusca nel 2006, in provincia di Agrigento. Brusca ha riferito di averlo ricevuto da Bernardo Provenzano, all'epoca latitante. Il testo diceva: “Lavoro De Francisci”. Ha affermato, inoltre, di riferirsi “a quello che ha fatto lavori nel paese di Corleone. Questo qua ha uscito la tangente e io per come sono stati, glieli ho fatti avere a Bagarella”.
La domanda sorge spontanea: per quale motivo è stato scelto un personaggio con questi rapporti e con competenze così diverse dal necessario, sia per il G8 sia per gli Uffizi? Con un comunicato, Sandro Bondi riferisce che “alcuni quotidiani danno il meglio di sé nell'esercizio di lordare anche la mia onestà. Io, appena ho avuto conoscenza delle indagini, ho revocato immediatamente il commissariamento per agevolare il lavoro della magistratura, proprio perché non ho nulla a che fare con faccende e faccendieri di cui si parla”. Bondi sembra abbia ammesso di non aver mai conosciuto né sentito nominare l'ingegnere-parrucchiere-fratello di un imprenditore con legami mafiosi. Sarà come dice il ministro, ma è chiaro che sia dovere di un ministro della Repubblica essere a conoscenza di ciò che avviene nel proprio ministero.