di Ilvio Pannullo

Inizialmente aveva negato l’esistenza stessa della crisi, scoppiata in seguito al collasso del mercato immobiliare americano e propagatasi nelle Borse valori di tutto il mondo, causa allegro utilizzo di strumenti finanziari incomprensibili agli stessi sedicenti esperti del settore. Successivamente, l’aveva imputata ai media, salvo poi affermare trionfalmente che la crisi era alle spalle e che il sistema Italia aveva dimostrato al mondo intero la propria granitica solidità patrimoniale. Ma ora la musica è cambiata e Berlusconi, mai così alle corde, chiede a Tremonti l’ennesima piroetta, gelando con una doccia di freddo realismo il bonario e credulone popolo italiano.

Una doccia che costerà ai cittadini del bel paese ben 25 miliardi di Euro. La crisi insomma c’era se il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, parlando al forum dell'Ocse ha commentato la necessità della manovra con queste parole: "Siamo a un tornante della Storia, non siamo in una congiuntura economica". "L'intensità dei fenomeni che vediamo - ha aggiunto - è storica e sta modificando la predisposizione dell'esistenza, dell'economia e della politica".

Le parole del ministro - gliene va dato atto - sono oneste e rappresentano una corretta descrizione di quanto sta accadendo oggi in Europa. Non si può, però, non ricordare tutto quanto è stato detto e scritto prima di oggi. Chi aveva occhi per leggere e una mente ancora avida di sapere perché non avvizzita dalla propaganda - totalizzante dunque poco meno che totalitaria - ne era pienamente consapevole già da tempo. Poche sono state le voci che nelle sedi istituzionali hanno osato sfidare il muro di silenzio alzato dal re di Arcore a copertura della verità.

Anti-italiani, disfattisti, catastrofisti; questi gli epiteti usati contro coloro che non si sono piegati alla volontà di omertoso silenzio imposta da Berlusconi all’intero mainstream generalista. Prima si è negata la crisi, poi dall’oggi al domani si è scoperto che era già un triste ricordo e adesso si scopre che sarà necessaria una manovra da 25 miliardi, per evitare che i mercati individuino nel nostro paese il prossimo bersaglio su cui concentrare il fuoco della speculazione.

Si aggiunga a questo che sulla necessità della manovra l’allegro venditore di ottimismo non ha detto una sola parola. Da buon comunicatore sa che il format del doppio petto blu, con sorriso smagliante e battuta felice, non può essere incrinato dall’assunzione di quelle responsabilità che, in qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri, è suo preciso dovere assumersi. Accade così che ad annunciare la manovra sia l’anima nera di tutti i governi Berlusconi: quel Gianni Letta che parla poco, ma che è onnipresente in tutti i salotti che contano e in tutte le celebrazioni di Stato.

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ha confermato ieri che la manovra conterrà “una serie di sacrifici molto pesanti, molto duri che siamo costretti a prendere, spero in maniera provvisoria, con una temporaneità anche già definita, per salvare il nostro Paese dal rischio Grecia.” Letta parla di “una manovra straordinaria che chiamiamo “Provvedimenti urgenti per la stabilità finanziaria e per la competitività economica” che ci è imposta dall'Europa, così come per gli altri Paesi, dalla Spagna al Portogallo, dalla Francia alla Gran Bretagna, alla Germania, che stanno prendendo provvedimenti, nel disperato, ma spero vittorioso tentativo, di scongiurare una crisi epocale e di salvare l'Euro”. Non male per una crisi che, a sentir loro, doveva essere già alle spalle.

Il problema è infatti tutto in quest’ultima precisazione: tutti i paesi europei usano l'Euro come moneta avente valore legale, tutti si confrontano con lo stesso tasso di interesse deciso dalla Banca centrale europea, ma ciascun paese trova credito al prezzo che si merita in base alla propria affidabilità come debitore. Il risultato è una competizione tra gli stessi paesi dell’eurozona per aggiudicarsi la maggiore fetta di credito possibile messa a disposizione dai mercati. Per evitare di dover garantire tassi sul debito troppo elevati per poter essere sostenuti nel lungo periodo, i paesi sono dunque costretti a manovre economiche straordinarie che avvalorino la loro stabilità patrimoniale.

Difatti, l’adozione di un piano europeo - sotto le pressanti istanze della Casa Bianca, per il riassetto del debito pubblico degli stati membri dell’Unione - non solo non costituisce una panacea, un rimedio durevole alla crisi strutturale che affligge ormai tutti gli stati occidentali, ma va nel senso voluto dal mentore statunitense, di una rapida integrazione dell’Unione Europea, preambolo obbligato alla costituzione di un blocco occidentale monolitico. Toccherà vedere come andrà a finire la storia. Sempre riferendosi alla crisi, infatti, il ministro dell'Economia Giulio Tremonti ha dichiarato che "è come essere in un videogioco. Arriva un mostro, lo sconfiggi, e quando stai gioendo per il successo ne arriva subito un altro". La metafora è accattivante e per stare in tema si potrebbe sostenere che il prossimo nemico da affrontare sarà più pericoloso di quello attuale.

Il piano europeo che risponde alla crisi di fiducia, di solvibilità - largamente artificiale all’inizio, ma ormai diventata contagiosa - attraverso la ricapitalizzazione degli Stati, come se si trattasse di una semplice crisi di liquidità, ricorda infatti il disperato tentativo di chi volesse fermare una palla di cannone con un fazzoletto di carta. Il piano europeo da 750 miliardi di Euro ricorda il piano americano voluto dall’allora sottosegretario al tesoro Paulson, ex CEO di Goldaman Sachs (dell’ammontare di 700 miliardi di dollari,) destinato, dopo il fallimento degli istituti finanziari americani del settembre 2008, a rimetterli in sesto attraverso l’utilizzo indiscriminato d’ingenti fondi pubblici.

Una soluzione di cui al momento si vedono gli effetti malefici: la ricapitalizzazione del settore finanziario ha accresciuto pesantemente il debito degli stati al di qua e al di là dell’Atlantico, senza rimettere in moto l’economia. I debiti privati sono diventati pubblici e adesso quegli stessi istituti “troppo grandi per fallire” speculano sulla solvibilità dei debiti pubblici che il loro stesso salvataggio ha pesantemente aggravato.

In questo modo, la crisi finanziaria nata negli Stati Uniti ha innescato la recessione: ha chiuso cioè la valvola al meccanismo economico, e di conseguenza prosciugato le risorse fiscali degli stati, rendendo ancora più difficile la gestione di un debito ormai considerevole. Ora l’Unione Europea sta per aggiungere debito al debito con qualcosa come 750 miliardi euro che graveranno ancor più sui budgets nazionali (il tasso medio d’indebitamento della zona euro ammonta attualmente a 78%, per l’Italia siamo al 118%), questo in vista di un ipotetico “ristabilire la fiducia dei mercati”. 

Senza dubbio una prospettiva non molto incoraggiante. In questa cornice il nostro ministro dell’economia ha affermato che la crisi economica "può essere un'opportunità". La crisi, ha aggiunto, "può avere un impatto negativo o anche positivo" sulle strategie europee e internazionali, secondo come verrà gestita. Quello che tuttavia appare certo è che noi la potevamo gestire sicuramente meglio: prima di tutto affrontandola con serietà sin da subito, e in secondo luogo procedendo ad un serio affondo sull’evasione fiscale, il vero scandalo di questo paese, il vero nodo da sciogliere per scongiurare il rischio Grecia.

Ovviamente quello che si vede nel piano varato dal governo non ha nulla a che vedere con questo. Quello che si trova nella manovra, infatti, sono qualche taglio ai ministri, alle auto blu, una spuntatina demagogica alle indennità dei parlamentari, passando alle finestre per la pensione fino ai pedaggi per i raccordi autostradali. Via inoltre le Province più piccole, cioè quelle sotto i 220.000 abitanti che non confinano con Stati esteri e non ricadono in Regioni a statuto speciale. E spunta un «contributo di soggiorno» fino a 10 euro per i turisti negli alberghi di Roma per finanziare «Roma Capitale».

Insomma si raschia il barile e si colpisce lì dove si è sempre colpito: il “mix” di provvedimenti per correggere i conti appare ormai tracciato. E quello che si vede non lascia ben sperare, specie se confrontato con gli altri piani economici varati da Francia e Germania: piani ben più impegnativi che, accanto ai tagli alla spesa, prevedono, saggiamente, robuste iniezioni di capitali nei settori cruciali per la ripresa.

Ora che finalmente si è deciso di affrontare il problema, quello che si dovrebbe chiedere con forza al governo è una precisa assunzione di responsabilità. I numeri ci sono: quello che pare mancare sono gli uomini adatti e la reale volontà di affrontare gli storici problemi del paese.

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