di Ilvio Pannullo

La prima impressione è quella che si prova istintivamente quando s’inizia a guardare un film già visto. Alcuni lo chiamano deja vù. E’ questo quello che accade a chiunque osservi quanto accade in Grecia. Non è, infatti, assolutamente difficile cogliere le infinite analogie che legano il decennio catastrofico dell'Argentina dal 1991 al 2001, terminato con il massiccio collasso finanziario della nazione, e le recenti incombenti difficoltà della Grecia.

In tutti e due i casi, l’origine delle cause è da ricercare nella mediocrità della classe politica, nella corruzione e nelle costanti malversazioni dei funzionari pubblici, mentre la colpa del dissesto è invece imputabile al lavoro certosino delle organizzazioni di credito internazionali. Entrambi i paesi sono stati poi afflitti da rivolte e proteste diffuse contro le misure di austerità imposte dal FMI.

All'epoca l'Argentina subì il suo peggiore collasso a livello monetario: il crollo del sistema bancario e del debito pubblico portò a tumulti, violenza folle, proteste e guerra sociale. L'agitazione fu così dannosa da costringere alle dimissioni il Presidente Fernando de la Rua, soprattutto a causa del suo famigerato Ministro dell'Economia, Domingo Cavallo - un Chicago Boy allievo del padre del monetarismo Milton Friedman, nonché figlio dei cartelli bancari internazionali e protetto di David Rockfeller - generando un vuoto politico che portò l'Argentina ad avere cinque, ben cinque presidenti in quell'ultima terribile settimana del dicembre 2001.

La scintilla del caos sociale in Argentina fu il tentativo del Presidente de la Rua di attuare le misure di austerità, evidentemente ingiuste, imposte dal FMI che richiedeva, come al solito, il massimo sacrificio da parte della popolazione - più tasse, meno spese sociali, nessuna spesa in disavanzo, ed altre misure anti-sociali - che causarono un crollo del PIL argentino di quasi il 40%.

Metà della popolazione precipitò al di sotto della soglia di povertà (molti non fecero mai ritorno alla tradizionale classe media argentina), mentre alle banche private fu concesso di trattenere legalmente i risparmi della gente. I depositi in dollari USA furono cambiati in pesos in modo del tutto arbitrario, a qualsiasi tasso di cambio deciso dalle banche o dal governo: il dollaro fu svalutato del 300%, con la conseguenza che il cambio tra le due divise passò da 1 peso al dollaro a 4 pesos al dollaro, nel giro di poche settimane. Nessuna banca fallì perché a pagare le scelleratezze del governo fu la popolazione con tutti i propri beni presenti e futuri.

In Argentina, nel corso di 25 anni di governi provvisori, il cartello bancario internazionale guidato dal FMI ha generato, con la compiacenza delle varie giunte militari che si sono nel tempo avvicendate al comando del paese, un debito pubblico fondamentalmente illegale - o nella migliore delle ipotesi, illegittimo - che è cresciuto in maniera enorme, finendo per far collassare l'intero sistema economico-finanziario della nazione.

Non fu una coincidenza. Faceva parte di un modello altamente complesso, architettato al fine di controllare interi paesi, tramite un ciclo a fasi sequenziali e stadi ben identificabili, con un solo unico scopo principale: il profitto. Quando l'economia di un paese viene alimentata al fine di attuare una "modalità di crescita" artificiale, l'insieme di tutti i profitti viene privatizzato nelle mani dei suoi amici politici, managers ed operatori. Quando però l'intero schema - come ogni schema Ponzi - raggiunge il suo culmine ed il collasso del sistema economico è a portata di mano, allora si inverte il processo e si socializzano tutte le perdite.

Ma non tutte le disgrazie vengono per nuocere o, forse, il ruolo della sofferenza è precisamente quello di far sorgere delle qualità che non appariranno mai in altre condizioni. Accadde così che il saccheggio portato avanti dagli sciacalli monetaristi offrì il pretesto al paese per lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Nel marzo del 2009 l´Argentina seppe voltare le spalle al dollaro per entrare nella "zona yuan".

In gergo tecnico si chiama currency swap: fu un´intesa bilaterale fra le due banche centrali di Pechino e Buenos Aires per i regolamenti valutari dell´interscambio tra le due nazioni. In partenza l´accordo-swap valeva 70 miliardi di yuan (la valuta cinese) con l’espressa previsione di un possibile aumento a seconda della crescita dell´import-export bilaterale.  La novità storica fu che le transazioni commerciali tra i due paesi, da quel momento in poi, sarebbero state regolate in valuta cinese, anziché in dollari Usa come accadeva precedentemente.

Ma prima di vedere la luce di una nuova alba il popolo argentino ha dovuto passare per una delle notti più dolorose della sua storia. Questo è quanto ha fatto Mr. Cavallo, garantendo che il popolo argentino avrebbe sostenuto le perdite, mentre i banksters [termine coniato per l’occasione, ottenuto attraverso la contrazione di banker e gangster, ndr] internazionali riscuotevano tutti i profitti.

Ora, questa era l'Argentina del 2001/2002; ma non è anche il caso dell'americano odierno che pagando le tasse soccorre Goldman Sachs, CityGroup, e GM mentre perde la sua casa, la sua pensione, il suo lavoro? Non è forse ciò che sta accadendo alla Grecia oggi? E l'Islanda? L'Irlanda? E non potrebbe prossimamente accadere anche in Spagna, in Portogallo o in Italia?

Oggi, guardiamo la Grecia e vediamo gli stessi segnali spia: il FMI che impone rigide misure di austerità come condizione delle banche per ottenere più prestiti, come se un paese che collassa sotto il peso del debito potesse superarlo indebitandosi ancor di più. I media di regime parlano con enfasi della necessità che la Grecia si comporti “in maniera corretta e responsabile" e i governi locali fanno tutto ciò che gli è possibile nell'interesse delle grandi banche come Goldman Sachs, che prova a recuperare tutto ciò che legalmente gli è dovuto nel mezzo dei disagi e delle rivolte che per prima ha facilitato a creare.

Tutto questo ha per sfondo cittadini disperati che scendono in strada per esprimere ciò che è chiaro a tutti: i banchieri internazionali ed i governi provvisori locali costituiscono una complessa associazione di ladri e rapinatori.

Poi accade l'inevitabile: il governo manda la polizia in strada per proteggere i banchieri, se stesso e gli interessi dell'élite al potere. Poi la violenza dilaga, la gente resta ferita o uccisa: la povera polizia combatte contro la povera gente, mentre gli artefici del disastro restano al sicuro osservano da lontano l’evolversi della situazione. Quella che appare, che sembra delinearsi in maniera neanche troppo nascosta, è dunque una sottile linea rossa che unisce i tanti casi di dissesti finanziari di nazioni sovrane.

Interi popoli portati al macello dalle rispettive classi dirigenti, virtualmente al potere per un triste gioco di specchi dove chi decide non é chi effettivamente appare in pubblico e chi appare in pubblico non si assume mai le responsabilità delle proprie decisioni e delle proprie omissioni. Non è più tempo di errori: non c'è nessuna democrazia, neanche ad Atene, dove il concetto stesso di democrazia è stato immaginato per la prima volta. Ciò che è richiesto sono solo i conti in ordine: numeri al posto di persone.

 

di Cinzia Frassi

"Nessuna donna dovrà più abortire in Lombardia a causa delle difficoltà economiche": parola di Roberto Formigoni, Presidente della Regione Lombardia. La giunta regionale, infatti, ha varato un provvedimento sperimentale d’intervento a favore delle donne che rinuncino ad un'interruzione di gravidanza quando questa sia determinata da motivi economici. Un gruzzolo di 5 milioni di Euro denominato Fondo Nasko. Si parla di un assegno mensile di 250 Euro per 18 mesi.

In attesa di vedere come verrà gestito questo fondo, il mantra del pio Formigoni è quindi questo: nessuna donna dovrà abortire per difficoltà economiche. In tempi di tagli, manovre economiche, flessibilità estrema del lavoro, l'annuncio suona quanto mai sinistro. Viene anche da domandarsi i motivi per cui per questa iniziativa si siano trovati ben 5 milioni di Euro, quando i servizi al cittadino, ai bambini e alla famiglia sono sotto la scure di tagli continui.

Così viene spontaneo mettersi nei panni di quella donna e fare qualche considerazione in merito a quei 250 Euro e se basteranno per pediatra, pannolini, cremine varie, fasciatoio, passeggino, seggiolino per l'auto, per non parlare dell'eventualità di dover provvedere all'allattamento artificiale. Viene spontaneo mettersi nei panni di quella donna, che si domanderà che cosa accadrà dopo quei 18 mesi?

Le difficoltà economiche, infatti, sono determinanti per decidere se avere un figlio oppure no e non sono di certo contributi isolati come questo a risolvere il problema di chi si trova a fare i conti con una gravidanza indesiderata. Perché è di questo che stiamo parlando. Non bisogna fare confusione su questo punto. Il provvedimento, aldilà delle dichiarazioni sibilline, fa riferimento a situazioni isolate, a quei casi per fortuna sempre meno consistenti, in cui una donna si trova ad affrontare una decisione improvvisa quanto scongiurata. E’ sbagliato ritenere che le donne vivano la scelta della maternità al Centro di aiuto per la vita e lì si “ravvedano” per portare avanti la gravidanza.

Se invece si vuole mettere sul tavolo la questione delle opportunità concrete nella società italiana attuale di essere madri o, più in generale, genitori, allora vanno fatte altre riflessioni. Se si vuole difendere la vita, dare alle donne quei servizi e l’assistenza necessaria per favorire la maternità, allora è necessario fare molto di più. Interventi come questo della Regione Lombardia, sembrano spinti più dalla sollecitazione propagandistica di simulare buone intenzioni e di disegnare un’idea sbagliata di una donna che si rivolge ad un Consultorio.

Attorno alla questione maternità sì e maternità no, si assiste sempre più ad un gioco dei no contrapposti, tutti finalizzati ad un allineamento classico della politica. Accade la stessa cosa a proposito della famosa Ru486 e della sua diffusione. Anche qui, tante polemiche ma poche risorse per mettere in campo azioni efficaci a favore della maternità come scelta possibile e consapevole; e nemmeno fondi a sostegno di un’adeguata informazione ai giovanissimi delle varie forme di contraccezione, vero e proprio tabù nella nostra cattolica Italia.

Ma, se vogliamo, il punto centrale dell’elemosina di Formigoni non è questo. Il provvedimento richiede che, quando la donna presenta richiesta d’interruzione volontaria della gravidanza presso un Consultorio pubblico, questi la mettano in contatto con il Centro di aiuto alla vita.

Il Centro al centro. E' il caso di dirlo. Non si comprende il motivo per il quale il finanziamento e il contributo corrispondente vengano gestiti dal Centro di aiuto per la vita e non dai Consultori pubblici. La legge 194 già valorizzava i Consultori, concepiti come centri di assistenza e di aiuto per la donna. Aiuto anche economico, tanto che la legge era dotata di un fondo ad hoc. Invece no, i Consultori pubblici, strutture deputate e professionalmente all’altezza, non sono evidentemente ritenute adeguate per assistere una donna che deve fare una scelta così importante, al punto che qui si passa sopra alla legge 194 e alle funzioni in essa stabilite per i Consultori.

Oppure si può pensare che questo provvedimento sia un perfetto esempio di propaganda condita dalla tempestività con cui si spodestano canali pubblici in favore di altre realtà - sempre più spesso i verginali Centri di aiuto per la vita - e di impiego di denaro pubblico quanto meno criticabile.
 

di Luca Mazzucato

NEW YORK. Una nave carica di aiuti umanitari attaccata dagli israeliani come se fosse un commando kamikaze. Il premier turco minaccia di portare la Marina militare turca a Gaza e tagliare i ponti con Israele. L'Egitto apre il valico di Rafah senza clamori. Sullo sfondo, l'accordo tra Turchia, Brasile e Iran per l'arricchimento dell'uranio, per sabotare le sanzioni ONU. Che cosa sta succedendo in Medioriente?

La nave umanitaria Rachel Corrie, l'ultima del convoglio della Gaza Flotilla, è stata scortata ieri mattina verso il porto di Ashdod, in Israele, dopo essere stata abbordata dall'esercito israeliano, questa volta senza spargimenti di sangue. Ma questo è solo l'inizio: gli organizzatori del convoglio umanitario della Mavi Marmara, la nave su cui l'IDF ha assassinato otto turchi e un’americano, hanno già iniziato i preparativi per la prossima Flotilla, grazie al record di donazioni e popolarità seguite all'incidente.

Il premier turco Erdogan afferma di sta vagliando l'ipotesi di scortare la prossima Flotilla con le navi della Marina militare turca. L'affermazione di Erdogan tuttavia merita qualche riflessione più approfondita. La Turchia, a differenza di Israele, è un membro della NATO, dunque le sue azioni militari devono essere vagliate dall'Alleanza e senza dubbio gli Stati Uniti bloccherebbero questa operazione.

In secondo luogo, l'esercito turco non prende ordini da nessuno e in particolare dal premier Erdogan. Dunque è lecito leggere l'attuale protagonismo del premier come un braccio di ferro tutto interno al regime turco e alla lotta di potere tra il partito musulmano e l'establishment militare, sullo sfondo dello scandalo Ergenekon.

Sull'intervista rilasciata sabato al quotidiano libanese al-Mustaqbal, Erdogan rilancia la posta, dichiarando che potrebbe recarsi egli stesso in visita ufficiale a Gaza, rompendo definitivamente l'embargo israeliano e le relazioni diplomatiche con Israele. A parte lo scenario da incubo di una guerra tra Turchia e Israele, l'improvvisa filantropia pro-palestinese del governo turco risulta quanto mai sospetta, visto il trattamento che lo stesso governo riserva alla propria minoranza curda, paragonabile senz'altro all'Occupazione israeliana dei Territori palestinesi. Dunque la ragione è da cercarsi altrove.

Mentre gli Stati Uniti hanno subito chiesto a Erdogan di lasciar perdere, l'esercito turco ha fatto sapere che non ha la minima intenzione di prestarsi al gioco e intende mantenere relazioni di cooperazione con la controparte israeliana. Va ricordato che la Turchia è l'unico alleato militare di Israele nella regione e i due paesi conducono esercitazioni militari congiunte. Oltre ad avere scambi commerciali per oltre due miliardi di Euro: la Turchia fino alla scorsa settimana era tra le mete turistiche preferite dagli israeliani.

Dunque per il momento i vari attori nella regione stanno semplicemente alzando la voce per capire fino a che punto è lecito tirare la corda. Quel che è certo è che dopo il massacro degli otto civili turchi a bordo della Mavi Marmara, le relazioni diplomatiche tra Turchia e Israele verranno congelate almeno per un certo periodo. Il che non toglie che probabilmente tra le centinaia di attivisti turchi e islamici presenti sulla nave, alcuni non aspettavano altro che la loro occasione per confrontarsi con i soldati israeliani, o addirittura per diventare martiri, come si è scoperto da alcuni loro filmati pubblicati su Youtube.

L'incidente della Gaza Flotilla s’inquadra però in un contesto più ampio di nuove alleanze militari nella regione, sullo sfondo del programma nucleare iraniano. Il regime di Ahmadinejad è riuscito a strappare un accordo di cooperazione con Turchia e Brasile, col beneplacito russo. In cambio di 1200 chili di uranio leggermente arricchito, la Turchia s’impegna a spedire a Teheran uranio arricchito al 20%, sufficiente per l'utilizzo per ricerche mediche. L'accordo prevede comunque che l'Iran potrà continuare ad arricchire l'uranio indipendentemente. Questo è il primo segno dello sgretolarsi del fronte anti-iraniano che Israele e Stati Uniti cercano faticosamente di costruire.

La Turchia e il Brasile sono membri a rotazione del Consiglio di Sicurezza e dunque potenzialmente in grado di sabotare lo sforzo israeliano d’imporre nuove sanzioni al regime di Teheran. Allo stesso tempo, Turchia, Siria, Qatar e Iran stanno rafforzando le relazioni militari e creando una nuova alleanza regionale per controbilanciare il blocco filo-israeliano degli altri paesi arabi. In questo contesto è facile capire come lo Stato ebraico si senta accerchiato.

Nel nord, la Siria continua a rifornire Hezbollah di missili sempre più potenti (si parla di Scud, in grado di raggiungere Tel Aviv), mentre a Gaza il regime di Hamas riceve grossi finanziamenti direttamente da Teheran. Una doppia assicurazione sulla vita per il regime degli Ayatollah. Netanyahu dichiara che non permetterà mai la fine dell'embargo a Gaza: l'idea di lasciar attraccare navi nella Striscia senza sapere cosa trasportino è un vero e proprio incubo per il governo israeliano, molto peggiore dei tunnel scavati sotto il valico di Rafah.

In questa situazione instabile, l'arrembaggio improvvisato dei giovani soldati israeliani alla nave turca ha mostrato ancora una volta la criminale inadeguatezza dei vertici militari israeliani. Le immagini dei soldati di leva calati uno ad uno tra gli attivisti turchi della Mavi Marmara desta molte perplessità. Sembra di assistere al gioco della pignatta, con gli attivisti armati di spranghe che picchiano i soldati alla ricerca delle caramelle. Il comandante della spedizione era certamente al corrente della situazione sulla Mavi Marmara e ha mandato allo sbaraglio le sue truppe, sapendo che in caso di pericolo i soldati non avrebbero pensato due volte prima di premere il grilletto.

L'opinione pubblica israeliana, bombardata dal filmato in bianco e nero dei soldati aggrediti a colpi di bastone, ha chiesto subito la testa dei responsabili dell'operazione. Come successe dopo la seconda guerra del Libano, la condanna degli organi di stampa israeliani è unanime: i responsabili dell'operazione devono essere individuati e puniti. Purtroppo ogni volta la stessa storia si ripete e l'inossidabile Ministro della Difesa Ehud Barak è sempre inchiodato alla sua poltrona. In mancanza di qualsiasi alternativa credibile all'attuale governo Netanyahu.

di Alessandro Iacuelli

A dirla tutta, sinceramente, della parata del 2 Giugno frega niente a nessuno. Della data, invece, a molti. Importante è infatti la ricorrenza, che vede la nascita della Repubblica e la fine della monarchia sabauda in Italia. Detto per inciso, la peggiore di tutte le monarchie d’Europa, sarà bene ricordarlo a tutti gli smemorati e a coloro che hanno poca confidenza con la storia italiana. La nascita della Repubblica e la Carta Costituzionale, chiusero il trittico della dignità italiana di metà secolo scorso, apertosi con la Resistenza antifascista. Un trittico fatto di sangue, norme ed atti indispensabili per declinare la ritrovata dignità italiana.

Proprio per celebrare la nascita della Repubblica, il 2 Giugno di ogni anno assistiamo alla parata militare. Nelle intenzioni, un tempo, c’era la volontà di dimostrare la ritrovata autodeterminazione del Paese, la sua sovranità militare, senza la quale - é vero - quella politica assume rilievo e prospettive decisamente minori. Che poi si sia passati rapidamente dalla sovranità nazionale ad essere un paese satellite degli Stati Uniti sin dagli anni ’50, questo è altro tema.

Della parata di due giorni fa, come di quella degli ultimi vent’anni, si sarebbe però potuto fare a meno. Intanto perché la nascita di una Repubblica che sancisce l’uscita italiana dalla guerra sarebbe meglio fosse celebrata senza armi. Poi perché la parata è un’ipocrisia formale e sostanziale: formale perché mette in mostra divise tirate a lucido per un comparto come quello della Difesa che brilla per scarsità e mancanza di disegno strategico. Sostanziale perché poi le novità effettive sotto il profilo degli armamenti sono proprio le grandi assenti: non a caso, gli ultimi acquisti di aerei ed elicotteri da combattimento, che hanno impegnato lo Stato in un esborso superiore all’entità della manovra economica, nessuno li ha visti sfilare.

Dunque vale solo la pena di chiedersi se, in un contesto di crisi come quello attuale, davvero 29 miliardi di Euro per la Difesa siano un costo inevitabile, qui ed ora. L’opportunità di una tale spesa, come di quella investita per la parata e l’utilità di una dimostrazione di muscoli che non spaventa nessuno (se non le casse della Ragioneria Generale dello Stato), sarebbero stati spunti interessanti di riflessione e di dibattito politico. Invece la discussione riguarda solo l’assenza dei rappresentanti leghisti a Via dei Fori Imperiali.

Porremmo - sommessamente - una domanda: ma a chi interessa se i leghisti partecipano o no? Al netto della polemica politica contro un partito che rifiuta l’identità italiana (tranne che per le prebende e l’occupazione di posti nel sistema, attività nella quale dimostra una voracità notevole) davvero qualcuno ritiene che sia la presenza della Lega a definire il valore di una manifestazione come quella del 2 giugno?

I contenuti politici di cui gli xenofobi di Ponte di Legno sono dotati possono essere scritti sul retro di un francobollo. Dicono di usare il tricolore per pulirsi il di deretano; di svuotare le ampolle nelle sacre acque del Po; indossano ridicoli cappelli, chiedono la proclamazione della Padania e sono più che altro impegnati su due fronti: l'occupazione dei posti e i concorsi per Miss Padania.

Strillano sul federalismo fiscale ma approvano e difendono una manovra che saccheggia gli enti Locali solo per far fare cassa al Tesoro, scaricando così su Regioni, Province, Comuni e Comunità Montane l’impossibilità di far quadrare i bilanci. Si dice che anche i loro esponenti giurano sulla Costituzione Repubblicana, ed è senz’altro vero; ma giurerebbero su qualunque cosa, anche sul regolamento della catena Esse Lunga, pur di accomodarsi su qualche poltrona.

In qualunque altro Paese evoluto verrebbero spernacchiati tutti i giorni, prima e dopo i pasti; qui li si fa diventare determinanti anche per il dibattito politico, oltre che per la sorte personale del Premier.

Si potrà facilmente obiettare che proprio il possesso delle chiavi di Palazzo Chigi assegna loro un ruolo: ma allora sarebbe meglio discutere su questo, non su una presenza che, semmai, avrebbe ulteriormente sporcato il palco della parata. Bastavano gli indagati presenti, per il nostro stomaco: non c’era bisogno di vedere anche i leghisti. Anche i migliori farmaci gastroprotettori hanno i loro limiti.

di Mario Braconi

I dati ISTAT ed le considerazioni finali del governatore della Banca d'Italia fanno un'istantanea agghiacciante della nostra Repubblica - nominalmente "democratica" ed ancor più nominalmente "basata sul lavoro" - un paese asfissiato dai suoi vizi ancestrali: illegalità, iniquità, conservazione. Assieme al lugubre annuncio con cui l'istituto di statistica fotografa 2 milioni e duecentomila disoccupati ad aprile 2010 (l'8,9% della forza lavoro italiana, senza contare i cassintegrati, incredibilmente computati tra gli occupati), arriva la conferma che il nostro decisamente "non è un Paese per giovani".

Certo, la lunga crisi ufficialmente iniziata a marzo del 2008 ha morso tutto e tutti, ma la classe anagrafica che ha subìto un vero martirio è quella di età compresa tra i 15 e i 24 anni, un terzo della quale oggi è (o si ritrova) senza lavoro. Dati eloquenti, capaci di condizionare pesantemente il futuro del Paese, la cui linfa vitale non solo è privata dei mezzi di sussistenza ma di una risorsa se possibile più rara e preziosa: la speranza.

Che la situazione sia percepita come drammatica anche dagli uomini di “potere” lo si intuisce dal fatto che persino dalla bocca di Mario Draghi, persona competente ma per storia professionale e ruolo istituzionale non necessariamente sensibile ai temi del lavoro, è uscito qualcosa di (vagamente) di sinistra: la ragione per cui "la riduzione rispetto al 2008 della quota di occupati tra i giovani è stata quasi sette volte quella osservata fra i più anziani [deve essere ricercata sia nella maggiore diffusione fra i giovani dei contratti di lavoro a termine sia nella contrazione delle nuove assunzioni, del 20%. Da tempo vanno ampliandosi in Italia - prosegue Draghi - le differenze di condizione lavorativa tra le nuove generazioni e quelle che le hanno precedute, a sfavore delle prime. I salari di ingresso in termini reali ristagnano da quindici anni."

Se il Governatore ha correttamente puntato il dito su alcuni temi scottanti (la precarietà e la perdita di potere di acquisto sistematiche, la perversione di un sistema generoso con i privilegiati ed inflessibile con i più deboli) le reazioni dei politici sono al solito piuttosto penose: c'è chi, come Brunetta, si consola sostenendo che un dato tanto negativo rappresenta un minimo e che pertanto d’ora in poi non si potrà che migliorare; e chi, come Sacconi, si dice convinto che la "buona formazione diretta a mestieri richiesti" (qualunque cosa voglia dire) sia la chiave per invertire la tendenza.

Non sorprende né stupisce il balbettare sconnesso ed incomprensibile dei politicanti, una classe arroccata nella propria torre eburnea dalla quale la rabbia del popolo tradito si percepisce appena, quasi fosse un rumore di fondo fastidioso quanto inoffensivo. Di contro per una volta va lodata la drammatica eloquenza dei dati passati in rassegna (e commentati) dal Governatore della Banca d'Italia. Uno, in particolare, disegna  alla perfezione una grave iniquità intergenerazionale: in Italia, un ragazzo su tre non trova lavoro e rischia una disoccupazione stabile, mentre un terzo (o poco più) dei suoi connazionali di età compresa tra i 55 e i 64 anni continua a lavorare, dato che si confronta con una media europea di 46 (56 nella virtuosa Germania).

Non sfugge il fatto che, da un punto di vista politico è rischioso far proprio un ragionamento il cui approdo è il ridimensionamento di diritti acquisiti (pensioni e il cosiddetto welfare), ma onestà intellettuale e coerenza pretendono che, nello stesso istante in cui ci si duole per il destino dei giovani, si considerino con il dovuto senso critico privilegi ormai difficilmente difendibili. Iniquità, dunque, come chiave di lettura per interpretare il nostro reale quotidiano, che Draghi ha declinato in tutte le sue possibili variazioni: a fallire sono le aziende più piccole, spesso di subfornitura, strozzate dalla crisi, ma anche dalle banche che, con la crisi, hanno chiuso i rubinetti (questo però Draghi non lo dice, non sorprendentemente). Differenza nella crisi: i dipendenti delle grandi aziende possono usufruire della cassa integrazione, mentre quelli occupati presso il pulviscolo delle piccole e medie imprese devono solo pregare che la società per cui lavorano non chiuda i battenti.

Ma su un tema Draghi è stato particolarmente incisivo: l'evasione fiscale. Forma principe, quintessenziale, dell'iniquità, tanto criminale quanto pervicacemente diffusa, per stigmatizzare la quale il compassato ex direttore Goldman Sachs tira fuori una locuzione da gruppettaro: "Macelleria sociale".

Benché sia chiaro l'impiego strumentale di questa espressione che, (giustamente) evocata dall'opposizione nei confronti di un governo intento ad alacremente premiare i criminali (condono immobiliare, scudo fiscale) punendo nel contempo i cittadini onesti ed inermi con gli ennesimi tagli nei servizi, viene qui usata per benedire l'operato tremontiano. I dati snocciolati fanno rabbrividire: il 16% del PIL italiano è “invisibile”, ovvero realizzato mediante attività in nero, o, per esser più chiari, in modo totalmente illegale.

Un danno enorme per la società, che a tale sistema di putrida illegalità si ritrova aggiogata per necessità; e anche per le casse di uno stato perverso, che invece di combattere i ladri preferisce sempre rivalersi sugli onesti. Se le imposte sul valore aggiunto fossero state regolarmente versate dai grandi e piccoli furbetti italici, il nostro debito pubblico sarebbe tra i più bassi d'Europa, conclude Draghi. Il messaggio è chiaro, condivisibile ed espresso in modo ineccepibile sul piano della logica e della retorica.

Adesso dovrebbe toccare agli italiani, a cominciare da domani, magari pretendendo dal dentista la pressoché sconosciuta ricevuta fiscale; magari aiutati e politicamente corroborati da leggi tributarie che, anziché spremere le famiglie e favorire i mafiosi ed altra feccia umana, per una volta guardassero al paese reale e al suo grido di dolore. Magari.

 


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