di Giovanni Gnazzi

Ha vinto Berlusconi. Ha chiesto un referendum su di lui e ha vinto, strappando quattro regioni al centrosinistra. Non quattro regioni qualsiasi, ma il Lazio, il Piemonte, la Campania e la Calabria. Esiti diversi tra loro, perché se per quanto riguarda la Campania o la Calabria, la sconfitta del centrosinistra era nell’aria, visto l’orrendo spettacolo offerto negli ultimi anni, quella del Piemonte e, in qualche misura, del Lazio, non sono certo state sconfitte risultato di malgoverno, cosa del resto riscontrabile anche nelle proporzioni del voto. Meglio quindi non perdersi in oziosi origami sulle cause locali dell’affermazione della destra, perché il voto è stato un voto politico, non amministrativo.

La campagna elettorale ha riproposto, senza soluzione di continuità, una realtà che da quindici anni appare irremovibile: quale che sia la scadenza, quale che sia la posta in gioco, la campagna elettorale della destra è di Berlusconi. Nessuno può onestamente dire che siano i candidati locali a sfidarsi: chiunque sia il candidato del centrosinistra, l’avversario è il presidente del Consiglio con il suo strapotere mediatico che, per risultare ulteriormente più efficace, si giova delle norme che vietano il dibattito elettorale sul tubo catodico. Perché queste norme? Perché la par condicio ridurrebbe profondamente il vergognoso squilibrio dell’informazione pubblica e privata a favore del Premier. Nessun dibattito va mandato in onda proprio per permettere a lui stesso di essere l’unico a poter parlare, in ogni canale e a qualunque ora.

Ogni campagna elettorale è falsata: completamente diverso il peso della comunicazione tra le forze in campo. Anche per questo, prima che per l’innato cesarismo, Berlusconi si agita per chiudere la bocca alle trasmissioni sgradite. Lui, più di chiunque altro, sa quanto può influire un parziale ripristino delle condizioni minime di equilibrio nella comunicazione, e cerca di evitarlo ad ogni costo.

E’ quindi relativo discettare su questioni locali perdendo di vista la centralità di questo elemento. Ignorare questa vergognosa sproporzione nell’accesso all’informazione, alla quale si aggiunge l’evidente differenza d’investimenti economici per le campagne elettorali tra destra e centro-sinistra, significa girare a vuoto, cercare con la lente in un angolo quello che è visibile a occhio nudo davanti alla finestra.

Ma, pure fatte queste considerazioni, non è possibile negare l’altro dato - non meno determinante - di queste elezioni. Il berlusconismo non è alle corde. Il blocco sociale della destra continua ad essere maggioritario e s’identifica - pure con sfumature diverse - con l’impianto culturale, prima ancora che politico, della destra. E’ un blocco sociale ideologico e identitario, che sceglie sulla base dell’appartenenza e della difesa degli interessi che la coalizione berlusconiana garantisce. Ha nel darwinismo sociale e nella guerra alla cultura i suoi segni identitari più precisi. Sa benissimo quali politiche padronali propone e quanto odio di classe dimostra, così come conosce la fumosità delle promesse e l’incapacità cronica di governare.

Ma è proprio l’incapacità di governare che viene premiata da un elettorato che vede le regole come un freno, l’equilibrio istituzionale come debolezza, la competenza come una minaccia alle leggi del “fai da te”. Non ha nessuna tensione di tipo morale, né vede nel rispetto delle regole e del confronto politico un elemento distintivo della qualità del progetto politico. Anzi, come una tifoseria di ultras, gode proprio nel vedere la sua squadra vincere, anche contro il regolamento se serve. In questo senso, risulta davvero ingenua l’idea di metterla in crisi a partire dall’evidenziazione della incompatibilità democratica del premier.

E’ il blocco sociale della sinistra che non c’è; o, quantomeno, non è rappresentato. La campagna elettorale su cui si fomenta il centrosinistra è ormai sempre la stessa: intercettazioni, avvisi di garanzia, scandali di varia natura, appelli d’ipotetici intellettuali e via dicendo. Mancava solo il film di Moretti, stavolta, per completare il quadro. Tutto destinato a evidenziare la scorrettezza e l’illegittimità, prima che l’illegalità, dei comportamenti di Berlusconi. Giusto, ma da solo non paga. Non è questo che vogliono gli italiani: che Berlusconi é quello che è, lo sanno tutti, chi lo vota e chi non lo vota; che l’emergenza democratica sia ormai alle porte lo avvertono tutti, i suoi amici e i suoi oppositori.

E’ il percorso identitario della sinistra che non si vede, come non si vede il suo progetto politico, il suo programma elettorale. Non si capisce quale sia lo schieramento, ridotto a un dato variabile secondo i casi e le tornate elettorali. Passare con disinvoltura da Casini alla Bonino significa proporre la battaglia delle idee come una mascherata dell’opportunismo; continuare a tenere in vita il PD, che non riesce a vincere nemmeno un’elezione, quale che sia, significa perseverare in un errore politico di tipo strategico e tattico.

Serve, urgentemente, lo scioglimento del PD, la sua ridefinizione in due blocchi - uno socialdemocratico, dove far confluire tutta la sinistra, e uno di orientamento cattolico-popolare - destinati a due target elettorali diversi nella raccolta dei voti e ad un’alleanza politica per il governo del Paese.

Non è un caso che l’unica vittoria politica significativa sia stata in Puglia, dove Niki Vendola rappresenta la storia della sinistra che non si camuffa da liberale. Si dichiara comunista e omosessuale e propone un’idea di coalizione ed un programma elettorale che è tutto interno alle corde culturali della sinistra, non a quelle dei democristiani. Vendola propone, prima ancora che una giunta ed un programma, l’idea dell’unità a sinistra, guidata dalla sinistra e che parla al popolo della sinistra. Tutto quello che, infatti, vince da sempre nelle regioni “rosse”.

L’affermazione della Lega non sarà indolore per la fisionomia del PDL. Per la riforma di tipo presidenzialista che ha in mente (che in realtà è solo il tentativo di arrivare al Quirinale) Berlusconi avrà un disperato bisogno di Bossi; questi, è ovvio, chiederà in cambio, nello stesso progetto, il riassetto dell’Italia con la divisione in tre della nazione. Il cavaliere accetterà, non può rischiare i suoi affari. Quindi Fini, che pure non vuole siffatto progetto, avrà due sole strade: uscire con la minoranza dei suoi (la maggioranza ormai sta con Berlusconi) e cercare con Casini la costruzione della nuova destra moderata, o accettare il nuovo assetto padano del partito del predellino. Vedremo già dalla formazione della giunta Polverini i primi segnali. Il voto di Roma città è suonato come una campana a morto per Alemanno (che con Berlusconi ha un patto di ferro) e la Polverini, invece, sta con Fini. Vedremo se saranno le prove generali dell’addio o del mesto ritorno a Corte.

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