di Mariavittoria Orsolato

Ventitrè interrogatori, centinaia di pagine depositate agli atti del processo contro il generale Mario Mori, ex vicecomandante del Ros, e del generale Mauro Binu, accusati di favoreggiamento aggravato alla mafia. A parlare è Massimo Ciancimino, che servendosi dei racconti del padre, quel don Vito che governò la Palermo nei giorni delle sue pagine più nere, cerca di tracciare una linea guida nell’inestricabile groviglio di omissis della storia contemporanea italiana.

Nei faldoni depositati ai magistrati di Palermo, i ricordi e le rivelazioni toccano praticamente ogni mistero italiano: dal sequestro Moro alla strage di Ustica, dalla cattura di Riina agli stretti rapporti di Ciancimino senior con l’Alto Commissario antimafia Emanuele De Francesco, per arrivare addirittura all’omicidio del governatore della Sicilia Piersanti Mattarella. Di tutto, di più insomma, per avvalorare la teoria che le connivenze tra Stato e mafia siano ben più che un elenco su un fantomatico papello.

A cominciare dalla cattura di Totò Riina, dietro cui ci sarebbe appunto stato il chiacchierato accordo tra i Carabinieri del Ros e Bernardo Provenzano. A fare da mediatore proprio don Vito che, secondo il figlio, chiese garanzie ai Carabinieri in merito al patrimonio di documentazione che avrebbero sicuramente trovato nella villa del boss: “Provenzano riferì a mio padre che Totò Riina conservava carte e documenti di proposito, con un obiettivo: se l'avessero arrestato avrebbero trovato tante di quelle cose, di quelle carte, che avrebbero fatto crollare l'Italia”.

Se in effetti sulla cattura di Totò Riina ci sono atti già convalidati che smontano la versione del rampollo, la scomposta risposta del senatore Dell’Utri -  tirato in ballo per l’ennesima volta come degno successore nella mediazione con Cosa Nostra - che lo ha definito “un cretino, un pazzo, un mitomane e potrei usare qualsiasi aggettivo contro chi pompa queste immense minchiate”, fa pensare che un fondo di verità ci debba per forza essere nei racconti di Ciancimino jr.

Nei verbali messi a disposizione dai pm Antonio Ingoia e Nino Di Matteo, sono molte le allusioni al ruolo attivo dei servizi segreti, ma i nomi vengono fatti solo quando si parla chiaramente di trattativa tra Mafia e Stato. Carlo o Franco - il testimone non rammenta - era un signore distinto che, prima dietro le quinte e poi da protagonista, avrebbe preso un ruolo attivo nelle due fasi di scambio di favori tra le cosche e le istituzioni nazionali. I primi a trattare con Riina sarebbero stati i vertici del Ros, col beneplacito dei ministri Rognoni e Mancino, e l’immancabile don Vito avrebbe fatto da garante in virtù dei suoi rapporti con i corleonesi: ancora in stato di shock per la strage di Capaci, le istituzioni avrebbero ceduto alla trattativa in visione della consegna di svariati latitanti, ma la risposta di Riina con le richieste delle cosche - il famoso papello - sarebbe stata considerata inaccettabile.

La seconda fase del negoziato avrebbe avuto luogo all’indomani dell’assassinio di Paolo Borsellino, quando lo Stato era ormai platealmente in ginocchio. A quel tempo gli interlocutori sarebbero cambiati, dal momento che - secondo Massimo - il padre stavolta trattò per Provenzano con questo fantomatico signor Franco, al fine di trarre in arresto Riina (cosa che effettivamente avvenne il 15 gennaio del 1993). I ricordi di quelli che sono stati i giorni d’incubazione della seconda Repubblica, si fermano però qui perché, nonostante il prezioso aiuto nella cattura del boss corleonese, don Vito venne incarcerato. Ciancimino jr però insiste nel dire che, una volta estromesso il padre, il testimone sarebbe passato a Marcello Dell’Utri, “unico cavallo di razza” in grado di custodire la fiducia delle cosche: “Mio padre sosteneva che era l'unico a poter gestire una situazione simile (...) ha gestito soldi che appartenevano a Stefano Bontate e a persone a lui legate”.

Ora, non che si vogliano prendere per oro colato le scottanti rivelazioni del rampollo di un colluso con la mafia. Nei suoi ultimi anni di vita anche don Vito provò a riciclarsi come esperto di Cosa Nostra, ma proprio la sua decennale frequentazione con gli ambienti mafiosi gli precluse la giusta credibilità: si pensava che le sue rivelazioni avessero potuto essere cooptate dai boss, avvalorando così le loro versioni di comodo. Anche Massimo, pur essendo probabilmente in buona fede, rischia di essere tacciato di poca attendibilità e sono ancora molti quelli che rimangono scettici dinanzi alle sue esplosive affermazioni; solo la magistratura potrà decretare chi ha ragione e chi no.

Nel frattempo, ci consoliamo pensando al fatto che anche dei semplici autisti possono fare passi da gigante nella carriera e ambire addirittura ad alte cariche pubbliche. A raccontare questa favola moderna è sempre Massimo Ciancimino, che in una delle sue memorie ricorda di come conobbe il presidente del Senato Schifani e l’ex governatore Totò “Vasa Vasa” Cuffaro: “Quando accompagnavo mio padre dall'onorevole Lima, fuori dalla macchina aspettavano pure, con me, Cuffaro e anche Renato Schifani, che faceva l'autista al senatore La Loggia. Diciamo che i tre autisti eravamo questi... andavamo a prendere cose al bar per passare tempo. Ovviamente, loro due, Cuffaro e Schifani, hanno fatto altre carriere: c'è chi è più fortunato nella vita e chi meno... ma tutti e tre una volta eravamo autisti”. Misteri (e miracoli) di Casa Nostra.

 

 

di Nicola Lillo

Si torna a parlare di leggi “ad personam”? No. Per il Premier sono solo e soltanto “leggi ad libertatem”. Quattro provvedimenti? No, ora sono diventati cinque, con i quali Berlusconi potrà sentirsi sereno e, a detta sua, essere “finalmente” libero di governare. Libero anche di giocare con la riforma fiscale, necessaria lunedì, urgente martedì, improponibile il mercoledì. L'opposizione gli rimprovera di giocare, ma ritornato sulle barricate dopo la convalescenza di diversi giorni, il Presidente del Consiglio, con un volto più lucente del precedente, parla di riforme. Riprende da dove aveva lasciato il Presidente della Repubblica, Napolitano, durante il discorso di fine anno.

“La riforma della giustizia è a beneficio di tutti. È una tale priorità che bisogna farla in fretta”. Dice bene il Cavaliere. Si, ma di quale riforma parla? È evidente che si sta riferendo alle - da lui rinominate - “leggi ad libertatem” (che di riforma hanno ben poco). Esclusivamente volte, per altro, alla “libertatem suam”. Ma al Premier non interessa altro. “Che ci volete fare - afferma - ogni tre giorni devo occuparmi di un processo, invece dovrei governare, perché i cittadini mi hanno dato questa responsabilità e invece sono costretto a distogliere l’attenzione…”. Come se la colpa di questi processi di cui si deve occupare non fosse sua, ma di quella magistratura politicizzata, che addita quotidianamente.

Berlusconi inciampa poi nel solito errore. Grossolano, anche per uno studente al primo anno di Giurisprudenza, che riguarda la derivazione popolare del suo mandato. Ebbene, bisognerebbe ricordare al nostro Presidente del Consiglio che egli non è stato eletto direttamente dal corpo elettorale. Quella forma di governo si chiama Premierato. In Italia ci troviamo dinanzi ad un governo parlamentare, dove il Presidente della Repubblica nomina il capo dell’Esecutivo, il quale a sua volta deve ottenere la fiducia dalle Camere. Esse sì, elette direttamente ed a suffragio universale dal popolo.

Ma quali sono queste cinque norme, mascherate da riforma della giustizia? Prima fra tutte spicca il ddl processo breve, approdato il 12 gennaio al Senato; rispetto al testo iniziale ci sono state però diverse modifiche. La legge si applica a tutti gli imputati, non solo a quelli incensurati. I reati devono essere inoltre stati commessi fino al 2 maggio 2006. Cambiano anche i tempi dei processi: prescrizione in primo grado dopo 3 anni dalla richiesta di rinvio a giudizio. Dopo 2 anni in appello e dopo 1 anno e mezzo in Cassazione. Per i reati con pene pari o superiori a 10 anni invece si parla di 4, 2 e 1 e mezzo. 5, 3 e 2, invece, per i reti di mafia e terrorismo. Il giudice, peraltro, può prorogare i termini, esclusivamente di un terzo.

La risposta dell'Associazione nazionale dei magistrati è stata immediata: “Metteranno in ginocchio la giustizia - dice il presidente Palamara a SkyTg24 - la cui macchina è già disastrata. Con il processo breve - continua - non si dà giustizia alle vittime del reato, mentre si rischia di dare impunità a chi ha commesso fatti delittuosi”.

La seconda norma “salva premier” sarà in aula il 25 gennaio: il ddl sul legittimo impedimento. Nato da un accordo Udc-Pdl, ha concluso ieri l’esame in commissione Giustizia della Camera. È una legge temporanea. Infatti, la durata dovrebbe essere di 18 mesi, in attesa di un lodo Alfano in salsa costituzionale, o di una legge che ripristini la vecchia immunità parlamentare. Il ddl prevede che sia sempre riconosciuto (fino a sei mesi) al premier e ai ministri il legittimo impedimento a presenziare un processo per impegni che sono “connessi con le funzioni di governo”. Una norma, dunque, provvisoria, in attesa delle altre due “leggi ad libertatem”: la terza e la quarta.

Stiamo parlando della proposta di legge presentata dal senatore Compagna, del Pdl, e dalla senatrice Chiaromonte, del Pd (a dir poco trasversale), che riguarda il ripristino dell’immunità parlamentare, abolita nel 1993. Oggi per indagare un parlamentare il pm ha piena libertà. Sarà però costretto a richiedere l’autorizzazione in caso di provvedimenti restrittivi. Con il ritorno della legge costituzionale abolita, invece, sarebbe necessaria una autorizzazione anche per procedere contro un parlamentare. Creando una immunità assoluta, come la storia di questo istituto dimostra.

La quarta norma è, forse, la ciliegina sulla torta per il Premier: il lodo Alfano in salsa costituzionale. Ossia l’approvazione di una legge costituzionale che riproponga il lodo ritenuto incostituzionale dalla Consulta. Per far ciò Berlusconi ha però bisogno di una maggioranza consistente, che vada al di la della sua coalizione. Le leggi costituzionali, infatti, vengono approvate direttamente se la maggioranza, con doppia lettura Camera e Senato, è dei due terzi. Se, invece, è esclusivamente assoluta, si può fare ricorso al referendum, che evidentemente il Premier non gradisce.

La nostra Carta fondamentale, sottoposta ad un attacco frontale dall’attuale governo, ha già in se tutti gli anticorpi. La Corte Costituzionale può, infatti, ritenere una legge di rango costituzionale incostituzionale. Questo avviene se la legge in discussione è contro i principi supremi dell’ordinamento. In questo caso, l’articolo tre. L’eguaglianza.

Ma non finisce qui. “Last but not least” una norma che “sospenderà fino a 90 giorni quei processi per i quali non è stato concesso di chiedere il rito abbreviato nonostante ci sia stata una nuova contestazione da parte del pm a dibattimento aperto”. Situazione che si è presentata guarda caso nei processi Mills e Mediaset. Necessaria? Forse no, date tutte le altre norme che lo tutelano totalmente.

Infatti, dopo le voci su questa ennesima misura ad personam, nel corso del consiglio dei ministri Silvio Berlusconi avrebbe spiegato ai membri del governo la decisione di non valutare “oggi” il cosiddetto decreto legge “sospendi-processi”. Una misura che era stata giustificata (secondo il Pdl) da una sentenza della Corte Costituzionale del 14 dicembre, la quale ha ritenuto illegittimo l’articolo 517 del codice di procedura penale. Ed era, dunque, dovere di questo governo, provvedere con un intervento immediato (un decreto legge) a questo vuoto normativo. “Oggi”, come ha detto il Premier, non ce n’è bisogno. Ma forse un domani potrà tornare buono.


 

di Cinzia Frassi

Dopo l’aggressione del 13 dicembre, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi,è tornato sotto le luci della ribalta, baldanzoso come sempre, per un vertice strategico con i suoi a palazzo Grazioli. Il risultato dell’incontro è stata la solita operazione di marketing pseudo politico, che parla dell'ennesimo taglio alle tasse degli italiani, delle fantomatiche quanto sempre di moda "riforme costituzionali" e, naturalmente, della famosa ed inossidabile riforma della giustizia come ghiotto boccone al Parlamento. Ci sarebbero, infatti, alcuni emendamenti al ddl sul processo breve per arginare la cause di incostituzionalità e per dare una calmata non solo all'opposizione, ma pure al presidente della Camera Gianfranco Fini. In sostanza, ci risiamo: il teatrino ricomincia e si finisce con il discutere ed azzannarsi su alcuni temi, quelli prescelti, mentre non si parla in alcun modo dei problemi reali del bel paese.

Fatto sta che attorno al vertice a palazzo Grazioli sembra essere scesa una certa coesione all'interno del partito del cavaliere: ora sul piatto della bilancia dell'attività di governo non ci sono solo il legittimo impedimento e processo breve a scatenare le polemiche, ma riforme e fisco. Come dire di no? Il fisco, l'oggetto assoluto, l'emblema della vittoria di Silvio Berlusconi: quello che ti fa pagare meno tasse. Ad aggiungere alla sceneggiatura una certa credibilità, la salita al colle del Presidente del Consiglio, che va da Napolitano per metterlo al corrente della sua agenda, per cercare di lisciare l'ex comunista, ma soprattutto per mostrare a tutti che ancora una volta sono tutti con lui.

Magari non proprio tutti. Per primo Antonio di Pietro, Idv, che non abbassa i suoi toni da stadio. Intanto non usa la diplomazia quando gli chiedono della strada che a Milano si pensa di intitolare a Bettino Craxi e risponde che "una strada intitolata a Craxi si può fare a una sola condizione, che ci sia scritto sulla targa quello che é: politico, corrotto e latitante”. E a proposito del rilancio sul processo breve, che recepirebbe le richieste dell’opposizione, risponde con lo stesso piglio: ''E’ una presa in giro, non abbiamo visto niente”. Per poi aggiungere: “Si vendono la pelle dell'orso prima di averlo catturato. Il processo breve é un provvedimento “ad personam”, quindi qualsiasi modifica può essere soltanto una lavata di faccia, un modo per allungare la mano e fregarsi il braccio”.

Reazioni anche dal Pd da uno spazientito Bersani che ci mette una certa ironia: "Sarebbe questa la prima mossa del partito dell'amore?”. Il segretario nazionale non ammette dietrofront sulle questioni che ruotano attorno alla giustizia e, deciso, si scaglia ancora contro le leggi “ad personam”, restate intonse però quando c’era pure lui tra le fila del governo. "Non bastano i giochi di parole o le finte benevolenze verso l'opposizione a nascondere la realtà dei fatti. La nostra disponibilità è quella dichiarata più volte: si sospendano i provvedimenti che governo e maggioranza hanno annunciato e si discuta subito dell'ammodernamento del nostro sistema". In sostanza dice no alle richieste di accondiscendenza e si dichiara disponibile solo sulla riforma della giustizia.

Ma, ancora una volta, a svolgere un'opposizione più pruriginosa è l'ex di Alleanza Nazionale, che ultimamente riesce ad infastidire la Lega e ad oscurare l’opposizione. "Le riforme vanno fatte e il confronto deve avvenire in Parlamento", dice Gianfranco Fini, da Palermo, davanti ad una platea di studenti andati ad ascoltarlo parlare del suo ultimo libro dal titolo (forse con un pizzico di satira politica) "Il futuro della libertà", da poco in libreria. Fini dice che “il dibattito politico è vecchio, stanco e propagandistico” e, a proposito delle riforme, afferma: "Abbiamo bisogno di farle, chi vince le elezioni ha il diritto e il dovere di realizzarle, ma il Parlamento deve avere un ruolo, è in questa sede che si deve aprire il confronto o si vuole fare il dibattito solo nelle trasmissioni televisive?".

In sostanza, il presidente della Camera ribadisce la sua posizione sulle leggi “ad personam” e sottolinea di non essere disponibile a serrare le fila attorno al cavaliere. Secondo alcuni, l'asse dei finiani avrebbe una cinquantina di seguaci per mettere in crisi il governo, qualora insistesse sul lavorare esclusivamente alle cause intitolate a Silvio Berlusconi.

A chi gli chiede conto del suo argomentare “di sinistra” Fini risponde: “Basta con le etichette, parlare di ambiente o di immigrazione non è ne di destra ne di sinistra. Sono argomenti che riguardano tutti". Fuga ogni dubbio, quindi, circa il suo ruolo all'interno del Pdl e della sua tecnica politica volta a non confondersi, nonostante la fusione, con i metodi del cavaliere. Perfino sull'immigrazione e sui fatti di Rosarno si esprime con certi toni e, comunque, in un modo non condivisibile dalla Lega, cui stanno particolarmente a cuore certe occasioni di mostrare ai suoi elettori di avere la mano forte. Si esprime molto pacatamente, infatti, sostenendo, sempre da Palermo, che "la politica deve guardare al futuro e non seguire gli umori della società, come è avvenuto a Rosarno con l'immigrazione".

Mentre la politica è ormai in scacco matto, dedicandosi completamente a se stessa e ai suoi vecchi meccanismi da prima serata, restano come sempre fuori dal dibattito i problemi reali che gli italiani intanto stanno fronteggiando; la crisi, la mancanza di lavoro, la produzione che si sposta fuori confine e i famosi conti alla quarta settimana. Cosa volete che siano di fronte al processo breve?

 

di Ilvio Pannullo

Che la Costituzione repubblicana del 1948 non piacesse al Presidente del Consiglio era cosa nota da molto tempo. Quanto sta accadendo in questi giorni, tuttavia, dà modo di capire chiaramente quale sia il filo rosso che collega le 99 proposte di modifica giacenti in Parlamento. L'ultima uscita in ordine di tempo del Ministro dei Lavori Pubblici, Renato Brunetta, secondo il quale l'affermazione che "l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro" non significherebbe nulla, è solo la punta dell'iceberg.

La volontà politica eversiva che anima la maggioranza di governo emerge, infatti, in tutta la sua brutalità, dalla lettura attenta delle proposte di modifica già depositate dai parlamentari nelle rispettive camere di appartenenza. Non che questi godano di una indipendenza politica od intellettuale, ma dopo le esternazioni del premier, secondo il quale la Costituzione italiana sarebbe nulla più che "una legge fatta molti anni fa, sotto l'influenza della fine di una dittatura e con la presenza al tavolo di forze ideologizzate che hanno guardato alla costituzione russa come a un modello", l'assalto è iniziato.

Si va dai leghisti, come il deputato Giacomo Stucchi, che pensa all'autonomia della provincia di Bergamo, al più temerario senatore del Popolo della Libertà, Lucio Malan, che vorrebbe revisionare "l'ordinamento della Repubblica sulla base del principio della divisione dei poteri". Anticipando di un anno il Ministro Brunetta, nel novembre del 2008 Malan proponeva di modificare l'articolo 1, trasformando l'Italia in una Repubblica "fondata sui principi di libertà e responsabilità, sul lavoro e sulla civiltà dei cittadini che la formano". Una Repubblica - così la sogna Malan - dove i senatori a vita non votano, il Presidente del Consiglio non presta giuramento e il governo non ha bisogno della fiducia delle Camere. A questi si aggiunge Davide Caparini che vorrebbe stralciare dal testo dell'articolo 33 quella parte secondo cui la scuola privata vive “senza oneri per lo Stato”.

Il loro meglio però, prevedibilmente, i parlamentari del PdL lo esprimono in materia di giustizia: si contano infatti ben quattro disegni di legge per il ripristino dell'immunità parlamentare e si lavora anche su come semplificare il procedimento legislativo. Una proposta del deputato Giorgio Jannone vorrebbe modificare l'articolo 72 e fare in modo che "non sempre l'assemblea sia chiamata a votare progetti di legge approvandoli articolo per articolo e con votazione finale". Un tentativo forse da interpretare come un servizio al presidente Berlusconi, che già aveva proposto, in una delle sue tante uscite dissennate, di approvare le leggi attraverso il voto dei soli capigruppo. C'è chi poi come Raffaello Vignali vorrebbe addirittura modificare gli effetti delle sentenze della Corte Costituzionale, supremo organo di garanzia insieme al Presidente della Repubblica dell'ordine costituzionale, rea di essersi messa troppe volte contro gli interessi del Re di Arcore.

Le riforme riguardanti la magistratura sono, ovviamente, tra le più stravaganti. Giuseppe Valentino propone una corte di giustizia disciplinare, Antonio Caruso un'alta corte di giustizia, Gaetano Pecorella, forse stanco di doversi sempre studiare tutte le carte dei molti processi a carico del suo assai munifico cliente, passa invece il suo tempo occupandosi di PM e Procure, immagina una divisione delle carriere sancita dalla stessa Costituzione. Ovviamente proporre una modifica non equivale a modificare, ma quello che tuttavia colpisce - e che traspare palesemente dalle molte proposte già depositate - è la totale ignoranza delle ragioni storiche e politiche che portarono a quello straordinario compromesso ideologico che ha rappresentato, e tuttora rappresenta, la Costituzione italiana del 1948. Una carta unica, che rappresenta un punto fermo nella storia del costituzionalismo europeo e che viene considerata da molti addetti ai lavori come un vero è proprio prodigio giuridico, proprio per quella lungimiranza delle disposizioni che la rendono, ancora oggi a distanza di più di 60 anni, straordinariamente attuale.

La Costituzione del 1948 trovò la sua premessa nella resistenza, nel ripudio dello Stato autoritario e dei suoi dogmi, nella volontà di ripristinare la democrazia e i principi dello Stato di diritto, umiliati durante il ventennio fascista. Sulla base dell'idea liberale che vuole il potere regolato e sottoposto a limiti giuridici per garantire diritti e libertà, storicamente congiunto all'idea democratica, s’innestarono elementi propri delle dottrine delle due ideologie dominanti: quella cristiano sociale e quella socialista. La Costituzione italiana va, infatti, collocata in uno scenario più ampio, addirittura mondiale, traversato da idee e speranze comuni maturate attraverso esperienze tragiche che non si volevano ripetere.

Per questi motivi, nonostante sia corretto, è tuttavia riduttivo vedere nella Costituzione solo il prodotto dell'antifascismo, il rigetto della dittatura come esperienza italiana. La lotta antifascista s’iscrive, infatti, nell'ampio scenario di una guerra mondiale condotta e vinta contro tutti i fascismi, uno scenario dominato dall'intento di costruire un mondo diverso e migliore, che potesse ridare dignità alla persona umana. Il valore della persona era nella cultura comune dei costituenti; tutti, dal primo all'ultimo, siano essi stati comunisti, socialisti, liberali, repubblicani o democristiani. Un'unione di forze, di spiriti e d’intenti che oggi sarebbe impensabile, ma che allora si raggiunse dando alla luce il documento che oggi è alla base dell'unità nazionale. I costituenti erano infatti decisi nell'affermare i diritti non solo come garanzia di una sfera intoccabile di libertà e di partecipazione politica, ma anche come tutela effettiva dei diritti stessi attraverso l'assicurazione di condizioni esistenziali dignitose.

Accanto alle libertà tradizionali, di pensiero, di espressione, di religione, si affiancavano la libertà dalla paura e dal bisogno. Accanto alla necessità di assicurare teoricamente al cittadino le libertà politiche si sentì la necessità di metterlo in condizione di potersene praticamente servire. Di libertà politica "potrà parlarsi solo in un ordinamento in cui essa sia accompagnata per tutti dalla garanzia di quel minimo benessere economico", senza il quale la possibilità di esercitare i propri diritti viene meno.

Così parlava Carlo Rosselli, grande giurista al cui pensiero s’ispirò quel Piero Calamandrei del gruppo autonomista, cui si deve uno dei passaggi forse più importanti della nostra Costituzione: quell'articolo tre comma due, secondo il quale "è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica economica e sociale del paese".

È per tutte queste ragioni che la costituzione trova in se stessa la propria ragione di esistere. In essa si trova la piena esplicazione di quei principi su cui si fonda il potere costituito ed è per questo che anche le leggi di revisione costituzionale sono sottoposte al giudizio di costituzionalità. In altri termini, non è possibile inserire nella Costituzione quello che si vuole: per esempio, purtroppo per Brunetta, non vi si potrebbe inserire una norma che dica: "L'Italia una Repubblica democratica fondata sulla rendita finanziaria"; perché sarebbe in contrasto con il principio fondamentale previsto dall'articolo 1, secondo il quale "l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro". Perciò una norma del genere, anche se è prevista con una legge di revisione costituzionale, sarebbe essa stessa incostituzionale.

Così, anche un lodo Alfano costituzionalizzato sarebbe sempre incostituzionale, perché in contrasto con l'articolo 3, quello che perentoriamente afferma che "tutti cittadini sono uguali davanti alla legge". Dovranno darsi dunque pace: sia che la loro impunità sia prevista da una legge ordinaria, sia che sia prevista da una legge costituzionale, sempre incostituzionale rimarrà. Il nostro paese ha già conosciuto il cancro della dittatura, è riuscito a liberarsene e ha deciso di dotarsi degli indispensabili strumenti giuridici necessari per evitare una ricaduta. La Costituzione è la nostra storia, per questo va difesa a tutti i costi.

di Rosa Ana De Santis

La scuola del Ministro Gelmini inizia l’anno con l’annuncio del tetto massimo del 30% per la presenza di alunni stranieri nelle classi italiane. L’annuncio arriva nel giorno della rivolta degli schiavi immigrati di Rosarno e a corononamento di un anno pessimo, fatto di riforma a singhiozzi che ha seriamente compromesso il diritto all’istruzione, lasciandosi alle spalle tanti docenti disoccupati, classi numerose e alunni disabili senza adeguate ore di sostegno. Ma non era abbastanza. Il clima d’insofferenza e d’intolleranza ormai dilagante verso gli immigrati, doveva trovare una consacrazione formale da parte delle Istituzioni e nessun luogo poteva essere più adatto se non quello dell’educazione pubblica.

Il provvedimento del Ministro fonda le ragioni di questa regolamentazione d’accesso nella tutela della didattica dell’integrazione e nell’impedimento di classi-ghetto per soli stranieri. Il dato interessante è che il Ministro parli genericamente di alunni non italiani. L’omissione di specifiche che darebbero indicazioni necessarie e molto importanti ai dirigenti scolastici, tradisce l’ambizione autentica che ha ispirato le carte. La scuola dei presepi e del bianco natale, quella delle classi ponte, quella dei cori per soli cattolici, quella che deve tenere i crocefissi sulle cattedre. Una scuola che non abbia tracce evidenti di altre culture o di altri stranieri. Una scuola per soli italiani che si disturbi per somma bontà cristiana di riservare qualche aula ai figli degli immigrati.

L’elemento che inficerebbe la corretta didattica, nel caso di forte presenza di stranieri, sarebbe la non conoscenza della lingua italiana. Davvero bizzarro che un obiettivo della scuola si trasformi in una premessa imprescindibile di accesso. Strano soprattutto per la velocità di apprendimento che i più piccoli hanno sulle lingue straniere. Vale lo stesso per i bambini e i giovani italiani che parlano ricorrendo agli idiomi dialettali e che non conoscono la vera lingua italiana e la sua grammatica? No, se la memoria non ci tradisce. Solo qualche mese fa la proposta della Lega di insegnare i dialetti a scuola, rubando tempo alla didattica tradizionale, non aveva destato ilarità o rimbrotti dal governo e la Gelmini, pur non ravvedendone l’urgenza, l’aveva considerata una proposta interessante. E la didattica e l’italiano?

Il tetto massimo del 30% di stranieri può, anche per la fumosità dei termini e delle indicazioni utilizzate, aprire la strada a discriminazioni pesantissime e, soprattutto, inficiare sul lungo periodo l’unica seria possibilità di integrare diverse culture in un Paese che, come tutto l’Occidente, vive la grande odissea dell’immigrazione. Chi sono poi gli stranieri da limitare? I figli d’immigrati appena arrivati in Italia che non parlano bene la nostra lingua? I figli di seconda generazione, che da tempo appartengono alla nostra società e al nostro Paese? E cosa accadrà per quelli in eccesso? Andranno a finire nelle classi ghetto, che il Ministro voleva scongiurare, per imparare l’italiano con una bella etichetta sulla schiena che li faccia riconoscere da tutti come alunni non italiani?

Se la smania dei tagli non avesse ispirato la riforma dei numeri, avremmo ancora le famose ore di compresenza e i docenti, ora disoccupati, sarebbero stati, adesso più di prima,  preziosi nel lavoro di integrazione necessario a portare a termine il programma ministeriale (quello che rimaneva incompleto ben prima che arrivassero gli stranieri) e nell’opera straordinaria e difficile di portare sui banchi di scuola tanti mondi diversi. Una lezione di civiltà che proprio nella scuola pubblica i figli di tutti avrebbero dovuto imparare, lasciando ai grandi tutto il tempo della delusione e del cinismo realistico. Sfuma così, con quest’annuncio d’italianità che puzza di fascismo, il progetto di una pacifica convivenza di diverse culture e si avvicina il rischio per tutti di un futuro che vuole parlare una sola lingua e credere in un solo dio.

 


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