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di Ilvio Pannullo
Il segnale non poteva essere istituzionalmente più plateale: ieri, all’apertura dell’anno giudiziario, l’Associazione nazionale magistrati ha deciso di manifestare apertamente il proprio corale disprezzo nei confronti dell’atteggiamento, ormai palesemente ricattatorio, assunto dall’esecutivo. Con le regionali che si avvicinano, lo scontro tra i due poteri dello Stato - quello chiamato a esprimere la sovranità popolare e quello il cui compito consiste nell’amministrazione della giustizia - ha ormai superato i livelli di guardia.
Dopo l’approvazione con 163 voti favorevoli, 130 contrari e 2 astenuti nell'Aula di Palazzo Madama del provvedimento tristemente noto come “processo breve”, le toghe italiane hanno lanciato il loro grido di allarme, rompendo ogni indugio e rendendo impossibile qualsiasi forma di trattativa rispetto il disegno politico, palesemente anticostituzionale, di prossima attuazione.
A comunicare la levata di scudi della magistratura sono le forme della protesta, resa ineludibile dalla lettura di un comunicato letto congiuntamente in tutte le aule di giustizia. A Milano la protesta scatta quando viene invitata a prendere la parola il sottosegretario alla Giustizia Maria Elisabetta Alberti Casellati. I magistrati milanesi, con indosso le toghe, si alzano ed escono dall’aula. Non ascolteranno la difesa d’ufficio, da parte del rappresentante del governo, degli scempi giuridici voluti dall’esecutivo. I magistrati, non tutti peraltro, rientreranno soltanto una volta terminato il discorso. Idem nella capitale, dove al momento del discorso del rappresentante del Guardasigilli, i magistrati, Costituzione alla mano, hanno preso la strada dell’uscita.
"Tutelare l'autonomia, l'indipendenza e la credibilità della funzione giurisdizionale, ponendola al riparo da ingerenze, condizionamenti e intimidazioni che ne possano compromettere il corretto esercizio". Sono queste invece le parole con cui prende posizione sull’argomento il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Nicola Mancino, intervenendo al Palazzo di Giustizia di Roma alla cerimonia per l'inaugurazione dell'Anno giudiziario alla presenza del Presidente della Repubblica Napolitano e di tutte le alte cariche istituzionali.
Nonostante il tono vagamente conciliante del Quirinale, preposto nell’ordinamento a fare da raccordo tra le istanze della magistratura istituzionalmente intesa ed il circuito politico, rimane un dato da sottolineare: le toghe che si alzano e vanno fuori dalle aule, in piena cerimonia dell'anno giudiziario, non si erano mai viste. Eppure é successo, in quasi tutti i distretti, compresi quelli principali: Roma, Milano, Palermo, Torino, Napoli, Catania.
Davanti alle legioni mediatiche del Papi in capo, ormai da 16 anni puntate alla testa e al cuore del popolo italiano, la magistratura fa sapere al potere politico che non ci sta ad abbassare la testa e risponde alla volontà di impunità che anima la maggioranza al governo con un’iniziativa finalizzata a cristallizzare, nella mente di chi ancora crede che la giustizia sia tale solo se sia uguale per tutti, l’immagine di uno scontro che dopo gli anni di tangentopoli rinfiamma l’Italia.
Il gioco si fa duro anche perché con la legge sul processo morto che pende come una spada di Damocle sulla testa della giustizia italiana, laddove questa dovesse essere approvata anche dalla Camera dei Deputati senza subire modifiche, calerebbe il sipario sulla Repubblica Italiana: vincerà il Cavaliere che, come Luigi XIV, potrà - a ragione - considerarsi allora legibus solutus, immune cioè dalle leggi, attributo spettante di diritto ad ogni monarca assoluto che si rispetti.
Intanto è già partita la caccia all'aggettivo "breve" nella relazione con cui il primo presidente della Suprema Corte di Cassazione, Carbone, ha aperto l'anno giudiziario al palazzaccio di Roma. Aggettivo che compare solo a pagina 170. L’ordine è chiaro: il fronte del nemico va diviso e ogni singolo elemento di distinzione all’interno della magistratura va sottolineato, in modo da enfatizzare la spaccatura tra magistratura politica e magistratura cooptata, funzionale ai disegni eversivi di Berlusconi.
Il giudizio di chi il diritto lo applica ogni giorno nelle aule dei tribunali di tutta Italia non lascia ampi spazi d’interpretazione. La legge - si legge nel comunicato - "realizza un vero è proprio colpo di spugna, che assicurerà una completa impunità per i tipici reati della criminalità dei colletti bianchi, ma anche per molte insidiose forme di delinquenza diffusa in danno di persone deboli. Si renderà, di fatto, impossibile l'accertamento di delitti come gli omicidi colposi realizzati nell'ambito dell'attività medica, le lesioni personali, le truffe, gli abusi d'ufficio, la corruzione semplice e in atti giudiziari, le frodi comunitarie, le frodi fiscali, i falsi in bilancio, la bancarotta preferenziale, le intercettazioni lecite, i reati informatici, la ricettazione, il traffico di rifiuti, lo sfruttamento della prostituzione, la violenza privata, la falsificazione di documenti pubblici, la calunnia, la falsa testimonianza, l'incendio, l'aborto clandestino".
Saranno inoltre condannati a "immediata estinzione" i processi "per i crack Cirio e Parmalat, per le scalate alle banche Antonio veneta e Bnl, per la corruzione nella vicenda Eni power, per le morti bianche e per le morti d'amianto". In buona sostanza è un po’ come dire che laddove questo testo dovesse veramente divenire legge dello Stato, sarebbe la fine dell’idea stessa di giustizia, non più uguale per tutti, ma su misura per i più potenti.
Vista la gravità della situazione va comunque rilevato come anche il fronte del cavaliere non riesca a serrare compiutamente tutti i ranghi. Se da una parte, infatti, il caudillo di Arcore ha buon gioco nell’insinuarsi tra le divisioni presenti in seno al sindacato delle toghe, con la corrente di Magistratura Indipendente che fa sapere da Napoli che, “pur condividendo senza alcuna riserva sia la profonda critica nei confronti dei progetti di riforma in discussione, sia la necessità che tale critica sia adeguatamente manifestata”, ritiene comunque necessaria “la necessità del dialogo e del confronto con la politica in ogni sede”.
Dall’altra anche tra gli elementi preselezionati dai fedelissimi del capo per rappresentare gli elettori del centro-destra s’individuano dei cedimenti. Enrico Musso, senatore Pdl, ha reso in aula una dichiarazione semplice e lineare: "La maggioranza ha sbagliato a mettere insieme due obiettivi: quello di ridurre i tempi dei processi e quello di tutelare il Presidente del Consiglio dalle vicende giudiziarie che lo riguardano. Lo si sarebbe dovuto ammettere senza problemi, così come del resto fa lo stesso Berlusconi". Un applauso all’onestà.
Lo stesso relatore Valentino era stato colto nei giorni immediatamente precedenti all'approvazione a dire ad un senatore dell'opposizione: "Basta che non ci tocchiate le norme transitorie. Sul resto si può trattare". Questo perché sono proprio le norme transitorie quelle che garantiranno l'impunità al Presidente del Consiglio, che con questo testo si salverà dai processi pendenti che vedono il suo nome scritto nell’elenco degli imputati. Insomma, se Fini fa sapere che la legge può essere sempre migliorata, i falchi puntualizzano che l’importante è che resti uguale la dedica.
L'onorevole Granata, avamposto finiano alla Camera dei Deputati, lascia intendere che la partita non è del tutto finita: "Non ci stiamo (i finiani all’interno del PdL. ndr) ad approvare un provvedimento che uccide la giustizia", la magistratura ordinaria, quella amministrativa, quella contabile unitamente all'avvocatura dello Stato, parlando con una sola voce, sgomberano il campo di battaglia dal fumo del nemico. Come si può leggere nel documento firmato comitato intermagistratura, il provvedimento ora all’esame della Camera "impropriamente viene denominato misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi, perché cancellerà ogni speranza di giustizia per le vittime di reati di particolare gravità".
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di Nicola Lillo
Se la questione morale sembrava essere, su scala nazionale, un problema appartenente per di più alla destra berlusconiana, negli enti locali tira un’aria differente. Il Partito Democratico bolognese, infatti, trema: il sindaco, Flavio Delbono, è indagato per abuso d’ufficio, peculato e truffa. Tutto inizia nel pieno della corsa per la poltrona di sindaco della città rossa, quando Alfredo Cazzola, l’ex patron del Bologna Calcio, della Virtus pallacanestro e del Motor Show, candidato del Pdl, accusa l’avversario Flavio Delbono dai microfoni di Radio Città del Capo, di aver utilizzato soldi pubblici per spese personali. “Le porto - afferma il 15 giugno dello scorso anno - i saluti di Cinzia Cracchi, la sua ex compagna che ha molto da ridire sulla sua moralità…”. A Bologna lo chiamano Cinzia-Gate.
Ma chi è questa Cracchi? La signora è stata la compagna dell’attuale sindaco per sette anni. Era una dipendente comunale, finché Delbono, da ex numero due dell’Emilia Romagna, non l’ha portata con se in Regione, nella sua Segreteria. Prodiano, professore di economia, il cinquantaduenne, che ha preso il posto di Sergio Cofferati, dopo aver lasciato la signora, nel luglio 2008 l’ha trasferita al Cup, la società partecipata che gestisce le prenotazioni per conto delle Asl della Regione. Dalle stelle alle stalle e la Cracchi non ci ha visto più, nonostante avesse mantenuto l’aumento di 800 euro che aveva ottenuto in Regione.
La “vendetta” è un piatto che va servito freddo. Così ha cominciato a fare il giro dei politici considerati ostili all’attuale sindaco, per raccontare tutto quello che sapeva, a partire dai viaggi in giro per il mondo di Delbono con lei al seguito. Tutto con soldi pubblici. E il risultato è stata l’accusa in diretta radio del suo avversario per la corsa a Palazzo D’Accursio, sede del comune. Delbono ha querelato Cazzola per diffamazione e la Procura ha aperto un fascicolo per abuso d’ufficio e peculato contro ignoti. Dopo aver letto le carte della regione Emilia Romagna, della cui giunta Delbono faceva parte all’epoca dei fatti contestati, il procuratore Serpi e il pm Persico chiedono l’archiviazione, poiché “non ci sono irregolarità”. Nel mentre, Cazzola e Delbono firmano l’armistizio con il ritiro della querela e la relativa accettazione del querelato.
Fin qui, era apparso tutto come una mossa politica per azzoppare l’avversario. Una tattica triste che il candidato sindaco Pdl aveva forse imparato dai piani più alti. Ma il 28 novembre il presidente dei gip, Giorgio Florida, nega l’archiviazione dell’inchiesta sui presunti abusi e ordina nuove indagini. La Cracchi e Delbono vengono così iscritti nel registro degli indagati. I primi interrogatori dell’ex compagna confermano le accuse: dall’uso delle auto blu e delle missioni all’estero a spese della Regione, con fidanzata al seguito, per poi passare da Pechino a Parigi e New York. Viaggi in Messico e a Santo Domingo. Gli stipendi aumentati alla segretaria-compagna e poi conservati. Un misterioso bancomat intestato a un amico-prestanome, Mirko Divani, e affidato alla Cracchi. Le ripetute trasferte in Bulgaria, dove la regione Emilia-Romagna ha un ufficio di rappresentanza e il sindaco gestisce imprecisati interessi economici. Alcune voci parlano anche di una settimana in un villaggio vacanze nello Yucatan, che di viaggio istituzionale ha ben poco. Per poi finire con le sedici missioni del vicepresidente tra il 2003 e il 2008. Le accuse formulate sono, dunque, di abuso di ufficio e peculato.
Ma negli ultimi giorni, un altro reato è stato contestato al sindaco: la truffa aggravata. Cinzia Cracchi è infatti dovuta tornare in Procura davanti al procuratore aggiunto Massimiliano Persico e al pm Morena Plazzi, dopo aver dichiarato al Corriere di Bologna, che Delbono le ha offerto “aiuto economico e una consulenza da 1500 euro al mese” per ammorbidire le dichiarazioni davanti ai magistrati. Un’accusa gravissima, che ha portato gli inquirenti alla convocazione del sindaco, sentito ieri (23 gennaio) in Procura.
Il sindaco ha risposto all’accusa prima negando, per poi fare un passo indietro e rovesciare la frittata. “Da dopo il ballottaggio tra i due ci sono stati molti incontri, perché la Cracchi è animata da sentimenti personali. Infatti, era lei che cercava il mio assistito, anche per ricucire un rapporto che, per sette anni, è stato una storia d’amore” dice l’avvocato Paolo Trombetti, nominato peraltro dal sindaco lo scorso ottobre nel cda del Gruppo Hera, la holding multi-servizi del Comune. Numerosi incontro dunque. Ma ci troviamo di fronte a due voci contrastanti. Sarà compito dei pm ora accertare chi dei due stia ammettendo il vero.
Intanto ieri, l’interrogatorio in Procura del sindaco di Bologna è durato cinque ore: nelle prime due ha risposto alle domande del Pm sui viaggi al centro dell’inchiesta, mentre nella seconda parte ha fornito dichiarazioni spontanee in merito agli altri temi emersi. Delbono, rivolgendosi ai cronisti afferma di aver “fornito ampi elementi per dimostrare l’uso corretto delle risorse pubbliche e abbiamo fornito anche documenti e prove testimoniali che potranno attestare la correttezza del mio comportamento”.
Le domande sono tante e le risposte, per ora, sembrano apparentemente poche. La vicenda risulta comunque essere nota a di molti consiglieri comunali già da diverso tempo, forse da Marzo. Ma nessuno di loro informò l’autorità giudiziaria, anche se essendo pubblici ufficiali avrebbero dovuto farlo, codice penale alla mano. Informazioni che forse avrebbero portato ad un differente esito delle elezioni. Di sicuro, ora, all’interno del Pd emiliano tira una brutta aria. E le dimissioni del sindaco, se fossero accertate le accuse nei suoi confronti, non dovrebbero essere cosi lontane.
Soprattutto dopo che Delbono ha dichiarato che non si dimetterà neppure se dovesse essere rinviato a giudizio: “L’idea non esiste e non mi ha mai sfiorato il cervello, è un punto di vista che non mi appartiene, non sono ricattabile perché so perfettamente cos’ho fatto, so di avere sempre rispettato le leggi e speso bene le risorse pubbliche, mai per interessi personali”. Sarà. Ma di sicuro non è un ottimo esempio di etica politica.
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di Mariavittoria Orsolato
Ventitrè interrogatori, centinaia di pagine depositate agli atti del processo contro il generale Mario Mori, ex vicecomandante del Ros, e del generale Mauro Binu, accusati di favoreggiamento aggravato alla mafia. A parlare è Massimo Ciancimino, che servendosi dei racconti del padre, quel don Vito che governò la Palermo nei giorni delle sue pagine più nere, cerca di tracciare una linea guida nell’inestricabile groviglio di omissis della storia contemporanea italiana.
Nei faldoni depositati ai magistrati di Palermo, i ricordi e le rivelazioni toccano praticamente ogni mistero italiano: dal sequestro Moro alla strage di Ustica, dalla cattura di Riina agli stretti rapporti di Ciancimino senior con l’Alto Commissario antimafia Emanuele De Francesco, per arrivare addirittura all’omicidio del governatore della Sicilia Piersanti Mattarella. Di tutto, di più insomma, per avvalorare la teoria che le connivenze tra Stato e mafia siano ben più che un elenco su un fantomatico papello.
A cominciare dalla cattura di Totò Riina, dietro cui ci sarebbe appunto stato il chiacchierato accordo tra i Carabinieri del Ros e Bernardo Provenzano. A fare da mediatore proprio don Vito che, secondo il figlio, chiese garanzie ai Carabinieri in merito al patrimonio di documentazione che avrebbero sicuramente trovato nella villa del boss: “Provenzano riferì a mio padre che Totò Riina conservava carte e documenti di proposito, con un obiettivo: se l'avessero arrestato avrebbero trovato tante di quelle cose, di quelle carte, che avrebbero fatto crollare l'Italia”.
Se in effetti sulla cattura di Totò Riina ci sono atti già convalidati che smontano la versione del rampollo, la scomposta risposta del senatore Dell’Utri - tirato in ballo per l’ennesima volta come degno successore nella mediazione con Cosa Nostra - che lo ha definito “un cretino, un pazzo, un mitomane e potrei usare qualsiasi aggettivo contro chi pompa queste immense minchiate”, fa pensare che un fondo di verità ci debba per forza essere nei racconti di Ciancimino jr.
Nei verbali messi a disposizione dai pm Antonio Ingoia e Nino Di Matteo, sono molte le allusioni al ruolo attivo dei servizi segreti, ma i nomi vengono fatti solo quando si parla chiaramente di trattativa tra Mafia e Stato. Carlo o Franco - il testimone non rammenta - era un signore distinto che, prima dietro le quinte e poi da protagonista, avrebbe preso un ruolo attivo nelle due fasi di scambio di favori tra le cosche e le istituzioni nazionali. I primi a trattare con Riina sarebbero stati i vertici del Ros, col beneplacito dei ministri Rognoni e Mancino, e l’immancabile don Vito avrebbe fatto da garante in virtù dei suoi rapporti con i corleonesi: ancora in stato di shock per la strage di Capaci, le istituzioni avrebbero ceduto alla trattativa in visione della consegna di svariati latitanti, ma la risposta di Riina con le richieste delle cosche - il famoso papello - sarebbe stata considerata inaccettabile.
La seconda fase del negoziato avrebbe avuto luogo all’indomani dell’assassinio di Paolo Borsellino, quando lo Stato era ormai platealmente in ginocchio. A quel tempo gli interlocutori sarebbero cambiati, dal momento che - secondo Massimo - il padre stavolta trattò per Provenzano con questo fantomatico signor Franco, al fine di trarre in arresto Riina (cosa che effettivamente avvenne il 15 gennaio del 1993). I ricordi di quelli che sono stati i giorni d’incubazione della seconda Repubblica, si fermano però qui perché, nonostante il prezioso aiuto nella cattura del boss corleonese, don Vito venne incarcerato. Ciancimino jr però insiste nel dire che, una volta estromesso il padre, il testimone sarebbe passato a Marcello Dell’Utri, “unico cavallo di razza” in grado di custodire la fiducia delle cosche: “Mio padre sosteneva che era l'unico a poter gestire una situazione simile (...) ha gestito soldi che appartenevano a Stefano Bontate e a persone a lui legate”.
Ora, non che si vogliano prendere per oro colato le scottanti rivelazioni del rampollo di un colluso con la mafia. Nei suoi ultimi anni di vita anche don Vito provò a riciclarsi come esperto di Cosa Nostra, ma proprio la sua decennale frequentazione con gli ambienti mafiosi gli precluse la giusta credibilità: si pensava che le sue rivelazioni avessero potuto essere cooptate dai boss, avvalorando così le loro versioni di comodo. Anche Massimo, pur essendo probabilmente in buona fede, rischia di essere tacciato di poca attendibilità e sono ancora molti quelli che rimangono scettici dinanzi alle sue esplosive affermazioni; solo la magistratura potrà decretare chi ha ragione e chi no.
Nel frattempo, ci consoliamo pensando al fatto che anche dei semplici autisti possono fare passi da gigante nella carriera e ambire addirittura ad alte cariche pubbliche. A raccontare questa favola moderna è sempre Massimo Ciancimino, che in una delle sue memorie ricorda di come conobbe il presidente del Senato Schifani e l’ex governatore Totò “Vasa Vasa” Cuffaro: “Quando accompagnavo mio padre dall'onorevole Lima, fuori dalla macchina aspettavano pure, con me, Cuffaro e anche Renato Schifani, che faceva l'autista al senatore La Loggia. Diciamo che i tre autisti eravamo questi... andavamo a prendere cose al bar per passare tempo. Ovviamente, loro due, Cuffaro e Schifani, hanno fatto altre carriere: c'è chi è più fortunato nella vita e chi meno... ma tutti e tre una volta eravamo autisti”. Misteri (e miracoli) di Casa Nostra.
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di Nicola Lillo
Si torna a parlare di leggi “ad personam”? No. Per il Premier sono solo e soltanto “leggi ad libertatem”. Quattro provvedimenti? No, ora sono diventati cinque, con i quali Berlusconi potrà sentirsi sereno e, a detta sua, essere “finalmente” libero di governare. Libero anche di giocare con la riforma fiscale, necessaria lunedì, urgente martedì, improponibile il mercoledì. L'opposizione gli rimprovera di giocare, ma ritornato sulle barricate dopo la convalescenza di diversi giorni, il Presidente del Consiglio, con un volto più lucente del precedente, parla di riforme. Riprende da dove aveva lasciato il Presidente della Repubblica, Napolitano, durante il discorso di fine anno.
“La riforma della giustizia è a beneficio di tutti. È una tale priorità che bisogna farla in fretta”. Dice bene il Cavaliere. Si, ma di quale riforma parla? È evidente che si sta riferendo alle - da lui rinominate - “leggi ad libertatem” (che di riforma hanno ben poco). Esclusivamente volte, per altro, alla “libertatem suam”. Ma al Premier non interessa altro. “Che ci volete fare - afferma - ogni tre giorni devo occuparmi di un processo, invece dovrei governare, perché i cittadini mi hanno dato questa responsabilità e invece sono costretto a distogliere l’attenzione…”. Come se la colpa di questi processi di cui si deve occupare non fosse sua, ma di quella magistratura politicizzata, che addita quotidianamente.
Berlusconi inciampa poi nel solito errore. Grossolano, anche per uno studente al primo anno di Giurisprudenza, che riguarda la derivazione popolare del suo mandato. Ebbene, bisognerebbe ricordare al nostro Presidente del Consiglio che egli non è stato eletto direttamente dal corpo elettorale. Quella forma di governo si chiama Premierato. In Italia ci troviamo dinanzi ad un governo parlamentare, dove il Presidente della Repubblica nomina il capo dell’Esecutivo, il quale a sua volta deve ottenere la fiducia dalle Camere. Esse sì, elette direttamente ed a suffragio universale dal popolo.
Ma quali sono queste cinque norme, mascherate da riforma della giustizia? Prima fra tutte spicca il ddl processo breve, approdato il 12 gennaio al Senato; rispetto al testo iniziale ci sono state però diverse modifiche. La legge si applica a tutti gli imputati, non solo a quelli incensurati. I reati devono essere inoltre stati commessi fino al 2 maggio 2006. Cambiano anche i tempi dei processi: prescrizione in primo grado dopo 3 anni dalla richiesta di rinvio a giudizio. Dopo 2 anni in appello e dopo 1 anno e mezzo in Cassazione. Per i reati con pene pari o superiori a 10 anni invece si parla di 4, 2 e 1 e mezzo. 5, 3 e 2, invece, per i reti di mafia e terrorismo. Il giudice, peraltro, può prorogare i termini, esclusivamente di un terzo.
La risposta dell'Associazione nazionale dei magistrati è stata immediata: “Metteranno in ginocchio la giustizia - dice il presidente Palamara a SkyTg24 - la cui macchina è già disastrata. Con il processo breve - continua - non si dà giustizia alle vittime del reato, mentre si rischia di dare impunità a chi ha commesso fatti delittuosi”.
La seconda norma “salva premier” sarà in aula il 25 gennaio: il ddl sul legittimo impedimento. Nato da un accordo Udc-Pdl, ha concluso ieri l’esame in commissione Giustizia della Camera. È una legge temporanea. Infatti, la durata dovrebbe essere di 18 mesi, in attesa di un lodo Alfano in salsa costituzionale, o di una legge che ripristini la vecchia immunità parlamentare. Il ddl prevede che sia sempre riconosciuto (fino a sei mesi) al premier e ai ministri il legittimo impedimento a presenziare un processo per impegni che sono “connessi con le funzioni di governo”. Una norma, dunque, provvisoria, in attesa delle altre due “leggi ad libertatem”: la terza e la quarta.
Stiamo parlando della proposta di legge presentata dal senatore Compagna, del Pdl, e dalla senatrice Chiaromonte, del Pd (a dir poco trasversale), che riguarda il ripristino dell’immunità parlamentare, abolita nel 1993. Oggi per indagare un parlamentare il pm ha piena libertà. Sarà però costretto a richiedere l’autorizzazione in caso di provvedimenti restrittivi. Con il ritorno della legge costituzionale abolita, invece, sarebbe necessaria una autorizzazione anche per procedere contro un parlamentare. Creando una immunità assoluta, come la storia di questo istituto dimostra.
La quarta norma è, forse, la ciliegina sulla torta per il Premier: il lodo Alfano in salsa costituzionale. Ossia l’approvazione di una legge costituzionale che riproponga il lodo ritenuto incostituzionale dalla Consulta. Per far ciò Berlusconi ha però bisogno di una maggioranza consistente, che vada al di la della sua coalizione. Le leggi costituzionali, infatti, vengono approvate direttamente se la maggioranza, con doppia lettura Camera e Senato, è dei due terzi. Se, invece, è esclusivamente assoluta, si può fare ricorso al referendum, che evidentemente il Premier non gradisce.
La nostra Carta fondamentale, sottoposta ad un attacco frontale dall’attuale governo, ha già in se tutti gli anticorpi. La Corte Costituzionale può, infatti, ritenere una legge di rango costituzionale incostituzionale. Questo avviene se la legge in discussione è contro i principi supremi dell’ordinamento. In questo caso, l’articolo tre. L’eguaglianza.
Ma non finisce qui. “Last but not least” una norma che “sospenderà fino a 90 giorni quei processi per i quali non è stato concesso di chiedere il rito abbreviato nonostante ci sia stata una nuova contestazione da parte del pm a dibattimento aperto”. Situazione che si è presentata guarda caso nei processi Mills e Mediaset. Necessaria? Forse no, date tutte le altre norme che lo tutelano totalmente.
Infatti, dopo le voci su questa ennesima misura ad personam, nel corso del consiglio dei ministri Silvio Berlusconi avrebbe spiegato ai membri del governo la decisione di non valutare “oggi” il cosiddetto decreto legge “sospendi-processi”. Una misura che era stata giustificata (secondo il Pdl) da una sentenza della Corte Costituzionale del 14 dicembre, la quale ha ritenuto illegittimo l’articolo 517 del codice di procedura penale. Ed era, dunque, dovere di questo governo, provvedere con un intervento immediato (un decreto legge) a questo vuoto normativo. “Oggi”, come ha detto il Premier, non ce n’è bisogno. Ma forse un domani potrà tornare buono.
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di Cinzia Frassi
Dopo l’aggressione del 13 dicembre, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi,è tornato sotto le luci della ribalta, baldanzoso come sempre, per un vertice strategico con i suoi a palazzo Grazioli. Il risultato dell’incontro è stata la solita operazione di marketing pseudo politico, che parla dell'ennesimo taglio alle tasse degli italiani, delle fantomatiche quanto sempre di moda "riforme costituzionali" e, naturalmente, della famosa ed inossidabile riforma della giustizia come ghiotto boccone al Parlamento. Ci sarebbero, infatti, alcuni emendamenti al ddl sul processo breve per arginare la cause di incostituzionalità e per dare una calmata non solo all'opposizione, ma pure al presidente della Camera Gianfranco Fini. In sostanza, ci risiamo: il teatrino ricomincia e si finisce con il discutere ed azzannarsi su alcuni temi, quelli prescelti, mentre non si parla in alcun modo dei problemi reali del bel paese.
Fatto sta che attorno al vertice a palazzo Grazioli sembra essere scesa una certa coesione all'interno del partito del cavaliere: ora sul piatto della bilancia dell'attività di governo non ci sono solo il legittimo impedimento e processo breve a scatenare le polemiche, ma riforme e fisco. Come dire di no? Il fisco, l'oggetto assoluto, l'emblema della vittoria di Silvio Berlusconi: quello che ti fa pagare meno tasse. Ad aggiungere alla sceneggiatura una certa credibilità, la salita al colle del Presidente del Consiglio, che va da Napolitano per metterlo al corrente della sua agenda, per cercare di lisciare l'ex comunista, ma soprattutto per mostrare a tutti che ancora una volta sono tutti con lui.
Magari non proprio tutti. Per primo Antonio di Pietro, Idv, che non abbassa i suoi toni da stadio. Intanto non usa la diplomazia quando gli chiedono della strada che a Milano si pensa di intitolare a Bettino Craxi e risponde che "una strada intitolata a Craxi si può fare a una sola condizione, che ci sia scritto sulla targa quello che é: politico, corrotto e latitante”. E a proposito del rilancio sul processo breve, che recepirebbe le richieste dell’opposizione, risponde con lo stesso piglio: ''E’ una presa in giro, non abbiamo visto niente”. Per poi aggiungere: “Si vendono la pelle dell'orso prima di averlo catturato. Il processo breve é un provvedimento “ad personam”, quindi qualsiasi modifica può essere soltanto una lavata di faccia, un modo per allungare la mano e fregarsi il braccio”.
Reazioni anche dal Pd da uno spazientito Bersani che ci mette una certa ironia: "Sarebbe questa la prima mossa del partito dell'amore?”. Il segretario nazionale non ammette dietrofront sulle questioni che ruotano attorno alla giustizia e, deciso, si scaglia ancora contro le leggi “ad personam”, restate intonse però quando c’era pure lui tra le fila del governo. "Non bastano i giochi di parole o le finte benevolenze verso l'opposizione a nascondere la realtà dei fatti. La nostra disponibilità è quella dichiarata più volte: si sospendano i provvedimenti che governo e maggioranza hanno annunciato e si discuta subito dell'ammodernamento del nostro sistema". In sostanza dice no alle richieste di accondiscendenza e si dichiara disponibile solo sulla riforma della giustizia.
Ma, ancora una volta, a svolgere un'opposizione più pruriginosa è l'ex di Alleanza Nazionale, che ultimamente riesce ad infastidire la Lega e ad oscurare l’opposizione. "Le riforme vanno fatte e il confronto deve avvenire in Parlamento", dice Gianfranco Fini, da Palermo, davanti ad una platea di studenti andati ad ascoltarlo parlare del suo ultimo libro dal titolo (forse con un pizzico di satira politica) "Il futuro della libertà", da poco in libreria. Fini dice che “il dibattito politico è vecchio, stanco e propagandistico” e, a proposito delle riforme, afferma: "Abbiamo bisogno di farle, chi vince le elezioni ha il diritto e il dovere di realizzarle, ma il Parlamento deve avere un ruolo, è in questa sede che si deve aprire il confronto o si vuole fare il dibattito solo nelle trasmissioni televisive?".
In sostanza, il presidente della Camera ribadisce la sua posizione sulle leggi “ad personam” e sottolinea di non essere disponibile a serrare le fila attorno al cavaliere. Secondo alcuni, l'asse dei finiani avrebbe una cinquantina di seguaci per mettere in crisi il governo, qualora insistesse sul lavorare esclusivamente alle cause intitolate a Silvio Berlusconi.
A chi gli chiede conto del suo argomentare “di sinistra” Fini risponde: “Basta con le etichette, parlare di ambiente o di immigrazione non è ne di destra ne di sinistra. Sono argomenti che riguardano tutti". Fuga ogni dubbio, quindi, circa il suo ruolo all'interno del Pdl e della sua tecnica politica volta a non confondersi, nonostante la fusione, con i metodi del cavaliere. Perfino sull'immigrazione e sui fatti di Rosarno si esprime con certi toni e, comunque, in un modo non condivisibile dalla Lega, cui stanno particolarmente a cuore certe occasioni di mostrare ai suoi elettori di avere la mano forte. Si esprime molto pacatamente, infatti, sostenendo, sempre da Palermo, che "la politica deve guardare al futuro e non seguire gli umori della società, come è avvenuto a Rosarno con l'immigrazione".
Mentre la politica è ormai in scacco matto, dedicandosi completamente a se stessa e ai suoi vecchi meccanismi da prima serata, restano come sempre fuori dal dibattito i problemi reali che gli italiani intanto stanno fronteggiando; la crisi, la mancanza di lavoro, la produzione che si sposta fuori confine e i famosi conti alla quarta settimana. Cosa volete che siano di fronte al processo breve?