di Mariavittoria Orsolato

Ventitrè interrogatori, centinaia di pagine depositate agli atti del processo contro il generale Mario Mori, ex vicecomandante del Ros, e del generale Mauro Binu, accusati di favoreggiamento aggravato alla mafia. A parlare è Massimo Ciancimino, che servendosi dei racconti del padre, quel don Vito che governò la Palermo nei giorni delle sue pagine più nere, cerca di tracciare una linea guida nell’inestricabile groviglio di omissis della storia contemporanea italiana.

Nei faldoni depositati ai magistrati di Palermo, i ricordi e le rivelazioni toccano praticamente ogni mistero italiano: dal sequestro Moro alla strage di Ustica, dalla cattura di Riina agli stretti rapporti di Ciancimino senior con l’Alto Commissario antimafia Emanuele De Francesco, per arrivare addirittura all’omicidio del governatore della Sicilia Piersanti Mattarella. Di tutto, di più insomma, per avvalorare la teoria che le connivenze tra Stato e mafia siano ben più che un elenco su un fantomatico papello.

A cominciare dalla cattura di Totò Riina, dietro cui ci sarebbe appunto stato il chiacchierato accordo tra i Carabinieri del Ros e Bernardo Provenzano. A fare da mediatore proprio don Vito che, secondo il figlio, chiese garanzie ai Carabinieri in merito al patrimonio di documentazione che avrebbero sicuramente trovato nella villa del boss: “Provenzano riferì a mio padre che Totò Riina conservava carte e documenti di proposito, con un obiettivo: se l'avessero arrestato avrebbero trovato tante di quelle cose, di quelle carte, che avrebbero fatto crollare l'Italia”.

Se in effetti sulla cattura di Totò Riina ci sono atti già convalidati che smontano la versione del rampollo, la scomposta risposta del senatore Dell’Utri -  tirato in ballo per l’ennesima volta come degno successore nella mediazione con Cosa Nostra - che lo ha definito “un cretino, un pazzo, un mitomane e potrei usare qualsiasi aggettivo contro chi pompa queste immense minchiate”, fa pensare che un fondo di verità ci debba per forza essere nei racconti di Ciancimino jr.

Nei verbali messi a disposizione dai pm Antonio Ingoia e Nino Di Matteo, sono molte le allusioni al ruolo attivo dei servizi segreti, ma i nomi vengono fatti solo quando si parla chiaramente di trattativa tra Mafia e Stato. Carlo o Franco - il testimone non rammenta - era un signore distinto che, prima dietro le quinte e poi da protagonista, avrebbe preso un ruolo attivo nelle due fasi di scambio di favori tra le cosche e le istituzioni nazionali. I primi a trattare con Riina sarebbero stati i vertici del Ros, col beneplacito dei ministri Rognoni e Mancino, e l’immancabile don Vito avrebbe fatto da garante in virtù dei suoi rapporti con i corleonesi: ancora in stato di shock per la strage di Capaci, le istituzioni avrebbero ceduto alla trattativa in visione della consegna di svariati latitanti, ma la risposta di Riina con le richieste delle cosche - il famoso papello - sarebbe stata considerata inaccettabile.

La seconda fase del negoziato avrebbe avuto luogo all’indomani dell’assassinio di Paolo Borsellino, quando lo Stato era ormai platealmente in ginocchio. A quel tempo gli interlocutori sarebbero cambiati, dal momento che - secondo Massimo - il padre stavolta trattò per Provenzano con questo fantomatico signor Franco, al fine di trarre in arresto Riina (cosa che effettivamente avvenne il 15 gennaio del 1993). I ricordi di quelli che sono stati i giorni d’incubazione della seconda Repubblica, si fermano però qui perché, nonostante il prezioso aiuto nella cattura del boss corleonese, don Vito venne incarcerato. Ciancimino jr però insiste nel dire che, una volta estromesso il padre, il testimone sarebbe passato a Marcello Dell’Utri, “unico cavallo di razza” in grado di custodire la fiducia delle cosche: “Mio padre sosteneva che era l'unico a poter gestire una situazione simile (...) ha gestito soldi che appartenevano a Stefano Bontate e a persone a lui legate”.

Ora, non che si vogliano prendere per oro colato le scottanti rivelazioni del rampollo di un colluso con la mafia. Nei suoi ultimi anni di vita anche don Vito provò a riciclarsi come esperto di Cosa Nostra, ma proprio la sua decennale frequentazione con gli ambienti mafiosi gli precluse la giusta credibilità: si pensava che le sue rivelazioni avessero potuto essere cooptate dai boss, avvalorando così le loro versioni di comodo. Anche Massimo, pur essendo probabilmente in buona fede, rischia di essere tacciato di poca attendibilità e sono ancora molti quelli che rimangono scettici dinanzi alle sue esplosive affermazioni; solo la magistratura potrà decretare chi ha ragione e chi no.

Nel frattempo, ci consoliamo pensando al fatto che anche dei semplici autisti possono fare passi da gigante nella carriera e ambire addirittura ad alte cariche pubbliche. A raccontare questa favola moderna è sempre Massimo Ciancimino, che in una delle sue memorie ricorda di come conobbe il presidente del Senato Schifani e l’ex governatore Totò “Vasa Vasa” Cuffaro: “Quando accompagnavo mio padre dall'onorevole Lima, fuori dalla macchina aspettavano pure, con me, Cuffaro e anche Renato Schifani, che faceva l'autista al senatore La Loggia. Diciamo che i tre autisti eravamo questi... andavamo a prendere cose al bar per passare tempo. Ovviamente, loro due, Cuffaro e Schifani, hanno fatto altre carriere: c'è chi è più fortunato nella vita e chi meno... ma tutti e tre una volta eravamo autisti”. Misteri (e miracoli) di Casa Nostra.

 

 

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