di Ilvio Pannullo

Il segnale non poteva essere istituzionalmente più plateale: ieri, all’apertura dell’anno giudiziario, l’Associazione nazionale magistrati ha deciso di manifestare apertamente il proprio corale disprezzo nei confronti dell’atteggiamento, ormai palesemente ricattatorio, assunto dall’esecutivo. Con le regionali che si avvicinano, lo scontro tra i due poteri dello Stato - quello chiamato a esprimere la sovranità popolare e quello il cui compito consiste nell’amministrazione della giustizia - ha ormai superato i livelli di guardia.

Dopo l’approvazione con 163 voti favorevoli, 130 contrari e 2 astenuti nell'Aula di Palazzo Madama del provvedimento tristemente noto come “processo breve”,  le toghe italiane hanno lanciato il loro grido di allarme, rompendo ogni indugio e rendendo impossibile qualsiasi forma di trattativa rispetto il disegno politico, palesemente anticostituzionale, di prossima attuazione.

A comunicare la levata di scudi della magistratura sono le forme della protesta, resa ineludibile dalla lettura di un comunicato letto congiuntamente in tutte le aule di giustizia. A Milano la protesta scatta quando viene invitata a prendere la parola il sottosegretario alla Giustizia Maria Elisabetta Alberti Casellati. I magistrati milanesi, con indosso le toghe, si alzano ed escono dall’aula. Non ascolteranno la difesa d’ufficio, da parte del rappresentante del governo, degli scempi giuridici voluti dall’esecutivo. I magistrati, non tutti peraltro, rientreranno soltanto una volta terminato il discorso. Idem nella capitale, dove al momento del discorso del rappresentante del Guardasigilli, i magistrati, Costituzione alla mano, hanno preso la strada dell’uscita.

"Tutelare l'autonomia, l'indipendenza e la credibilità della funzione giurisdizionale, ponendola al riparo da ingerenze, condizionamenti e intimidazioni che ne possano compromettere il corretto esercizio". Sono queste invece le parole con cui prende posizione sull’argomento il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Nicola Mancino, intervenendo al Palazzo di Giustizia di Roma alla cerimonia per l'inaugurazione dell'Anno giudiziario alla presenza del Presidente della Repubblica Napolitano e di tutte le alte cariche istituzionali.

Nonostante il tono vagamente conciliante del Quirinale, preposto nell’ordinamento a fare da raccordo tra le istanze della magistratura istituzionalmente intesa ed il circuito politico, rimane un dato da sottolineare: le toghe che si alzano e vanno fuori dalle aule, in piena cerimonia dell'anno giudiziario, non si erano mai viste. Eppure é successo, in quasi tutti i distretti, compresi quelli principali: Roma, Milano, Palermo, Torino, Napoli, Catania.

Davanti alle legioni mediatiche del Papi in capo, ormai da 16 anni puntate alla testa e al cuore del popolo italiano, la magistratura fa sapere al potere politico che non ci sta ad abbassare la testa e risponde alla volontà di impunità che anima la maggioranza al governo con un’iniziativa finalizzata a cristallizzare, nella mente di chi ancora crede che la giustizia sia tale solo se sia uguale per tutti, l’immagine di uno scontro che dopo gli anni di tangentopoli rinfiamma l’Italia.

Il gioco si fa duro anche perché con la legge sul processo morto che pende come una spada di Damocle sulla testa della giustizia italiana, laddove questa dovesse essere approvata anche dalla Camera dei Deputati senza subire modifiche, calerebbe il sipario sulla Repubblica Italiana: vincerà il Cavaliere che, come Luigi XIV, potrà - a ragione - considerarsi allora legibus solutus, immune cioè dalle leggi, attributo spettante di diritto ad ogni monarca assoluto che si rispetti.

Intanto è già partita la caccia all'aggettivo "breve" nella relazione con cui il primo presidente della Suprema Corte di Cassazione, Carbone, ha aperto l'anno giudiziario al palazzaccio di Roma. Aggettivo che compare solo a pagina 170. L’ordine è chiaro: il fronte del nemico va diviso e ogni singolo elemento di distinzione all’interno della magistratura va sottolineato, in modo da enfatizzare la spaccatura tra magistratura politica e magistratura cooptata, funzionale ai disegni eversivi di Berlusconi.

Il giudizio di chi il diritto lo applica ogni giorno nelle aule dei tribunali di tutta Italia non lascia ampi spazi d’interpretazione. La legge - si legge nel comunicato - "realizza un vero è proprio colpo di spugna, che assicurerà una completa impunità per i tipici reati della criminalità dei colletti bianchi, ma anche per molte insidiose forme di delinquenza diffusa in danno di persone deboli. Si renderà, di fatto, impossibile l'accertamento di delitti come gli omicidi colposi realizzati nell'ambito dell'attività medica, le lesioni personali, le truffe, gli abusi d'ufficio, la corruzione semplice e in atti giudiziari, le frodi comunitarie, le frodi fiscali, i falsi in bilancio, la bancarotta preferenziale, le intercettazioni lecite, i reati informatici, la ricettazione, il traffico di rifiuti, lo sfruttamento della prostituzione, la violenza privata, la falsificazione di documenti pubblici, la calunnia, la falsa testimonianza, l'incendio, l'aborto clandestino".

Saranno inoltre condannati a "immediata estinzione" i processi "per i crack Cirio e Parmalat, per le scalate alle banche Antonio veneta e Bnl, per la corruzione nella vicenda Eni power, per le morti bianche e per le morti d'amianto". In buona sostanza è un po’ come dire che laddove questo testo dovesse veramente divenire legge dello Stato, sarebbe la fine dell’idea stessa di giustizia, non più uguale per tutti, ma su misura per i più potenti.

Vista la gravità della situazione va comunque rilevato come anche il fronte del cavaliere non riesca a serrare compiutamente tutti i ranghi. Se da una parte, infatti, il caudillo di Arcore ha buon gioco nell’insinuarsi tra le divisioni presenti in seno al sindacato delle toghe, con la corrente di Magistratura Indipendente che fa sapere da Napoli che, “pur condividendo senza alcuna riserva sia la profonda critica nei confronti dei progetti di riforma in discussione, sia la necessità che tale critica sia adeguatamente manifestata”, ritiene comunque necessaria “la necessità del dialogo e del confronto con la politica in ogni sede”.

Dall’altra anche tra gli elementi preselezionati dai fedelissimi del capo per rappresentare gli elettori del centro-destra s’individuano dei cedimenti. Enrico Musso, senatore Pdl, ha reso in aula una dichiarazione semplice e lineare: "La maggioranza ha sbagliato a mettere insieme due obiettivi: quello di ridurre i tempi dei processi e quello di tutelare il Presidente del Consiglio dalle vicende giudiziarie che lo riguardano. Lo si sarebbe dovuto ammettere senza problemi, così come del resto fa lo stesso Berlusconi". Un applauso all’onestà.

Lo stesso relatore Valentino era stato colto nei giorni immediatamente precedenti all'approvazione a dire ad un senatore dell'opposizione: "Basta che non ci tocchiate le norme transitorie. Sul resto si può trattare". Questo perché sono proprio le norme transitorie quelle che garantiranno l'impunità al Presidente del Consiglio, che con questo testo si salverà dai processi pendenti che vedono il suo nome scritto nell’elenco degli imputati. Insomma, se Fini fa sapere che la legge può essere sempre migliorata, i falchi puntualizzano che l’importante è che resti uguale la dedica.

L'onorevole Granata, avamposto finiano alla Camera dei Deputati, lascia intendere che la partita non è del tutto finita: "Non ci stiamo (i finiani all’interno del PdL. ndr) ad approvare un provvedimento che uccide la giustizia", la magistratura ordinaria, quella amministrativa, quella contabile unitamente all'avvocatura dello Stato, parlando con una sola voce, sgomberano il campo di battaglia dal fumo del nemico. Come si può leggere nel documento firmato comitato intermagistratura, il provvedimento ora all’esame della Camera "impropriamente viene denominato misure per la tutela del cittadino contro la durata indeterminata dei processi, perché cancellerà ogni speranza di giustizia per le vittime di reati di particolare gravità".

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