di Mariavittoria Orsolato

Prendi 5 e paghi 1. Fosse un’offerta di una qualche catena di supermercati, a quest’ora i punti vendita sarebbero stati presi d’assalto da orde di massaie inferocite; ma della ghiotta promozione in questione si può usufruire solo se si è titolari di un partito politico. Sebbene nel 1993 i 90,3% degli italiani si sia espresso negativamente riguardo ai finanziamenti pubblici ai partiti, è cosa nota che l’odioso meccanismo è stato sostituto da quello ancor più subdolo dei rimborsi per le spese elettorali. Quello che ancora non si sapeva - e che la Corte dei Conti nella sua relazione annuale ha puntualizzato - è che per ogni Euro speso in campagna elettorale sono almeno 4 e mezzo quelli che ritornano nelle casse dei singoli partiti. Le cifre esatte dell’ultima tornata elettorale ammontano a 110 milioni di euro per le spese e a 503 milioni di euro per i rimborsi. Decisamente troppo.

Il problema però non sta tanto nell’eventuale lievitazione nei rendiconti di spesa che le formazioni politiche sono tenute a presentare subito prima e immediatamente dopo il voto: la vera e propria beffa sta nelle norme che regolano la pratica. In base alla legge del ’93, infatti, quelli che formalmente sono rimborsi, ma che effettivamente sono finanziamenti di denaro pubblico, non vanno calcolati in base alle effettive spese sostenute, ma vengono erogati in base ad una cifra fissa calcolata non tanto sulle reali preferenze alle urne ma sul numero degli aventi diritto. E pazienza  se il numero di persone che vanno effettivamente a votare sono molte meno di quelle che ne avrebbero costituzionalmente diritto.

Secondo questi dettami, possiamo vedere come per le politiche del 2008 il Pdl abbia incassato ben 206 milioni di Euro, a fronte di una spesa reale di circa 53 milioni di Euro. O come il Pd abbia sopportato costi elettorali per 18 milioni, ma sarà risarcito con 180 milioni. La Lega abbia avuto uscite per meno di 3 milioni e riceva entrate per 41 milioni. E persino un ipotetico baluardo della legalità, come l’Italia dei Valori, pur avendo più volte cercato di invertire la rotta legislativa in materia di rimborsi pubblici, abbia anticipato 3 milioni per incamerare poi, senza fiatare, ben 21 milioni di rimborso.

Ma c’è di più. Anche altre formazioni partitiche che non sono approdate in Parlamento hanno diritto al rimborso pubblico. Così è andata per La Destra di Storace, che a fronte di 2 milioni spesi ne riceve 6 e per la Sinistra Arcobaleno che ne dà 8 e ne riceve 9. Per fortuna però, non si danno contributi a cani e porci e così per liste come “Associazione difesa della vita - Aborto? No grazie” - quell’abominio politico scaturito dall’incontenibile fervore cattolico di Giuliano Ferrara - non avendo raggiunto la soglia dell’1%, non ci sarà l’obbligo d’indennizzo.

C’è però un altro punto che dovrebbe far riflettere più degli smisurati cachet (perché di questo alla fine si tratta) che vengono elargiti agli attori politici. Nel dicembre 2005, agli sgoccioli del governo Berlusconi III, la legge 5122 ha stabilito che i fondi pubblici destinati al rimborso sono dovuti per tutti e cinque gli anni della legislatura, indipendentemente dalla sua durata effettiva. Perciò, anche in caso di crisi e cambiamento di governo, i soldi arrivano comunque. Se infatti prendiamo la XV legislatura - l’ultima del governo Prodi, per intenderci - scopriremo che da quella gli attuali partiti di maggioranza e opposizione hanno guadagnato e stanno guadagnando circa 300 milioni, cento milioni all’anno fino al 2011, data della scadenza naturale della legislatura iniziata proprio nel 2006. Insomma, non importa che il mandato si sia concluso, l’erogazione continua lo stesso e se i pagamenti arrivano in ritardo, si aggiungono pure gli interessi legali!

Ora, non che si voglia insinuare che i partiti debbano svolgere il loro - per quanto pessimo - lavoro cavando di tasca propria tutto il necessario per far ingranare macchine burocratiche così pantagrueliche; la democrazia ha dei costi e solo nei regimi dispotici non esistono partiti da foraggiare. La cosa che preme di più sottolineare è l’assoluta sproporzionalità di questo do ut des squisitamente italiano. La legge attuale è un insulto all’intelligenza e come unico obbligo prevede di dichiarare spese al di sotto di un certo tetto, che corrisponde a circa 50 milioni di euro. Oltre ad essere lautamente rimborsati i partiti, pur non sforando il tetto, tendono a gonfiare le loro dichiarazioni di spesa allo scopo di evitare che i parametri di rimborso vengano fissati proprio sul rapporto effettivo della spesa. Perciò i costi delle campagne elettorali sono cresciuti in maniera smisurata: i contributi statali prescindono da essi e sono molto superiori.


Dal 1994, anno zero della Seconda Repubblica, i cittadini italiani hanno contribuito al mantenimento dei partiti con ben 2.253.612.233 Euro, contro 579.004.383 di spese accertate. Il guadagno netto della compagine politica ha i numeri di una finanziaria: c’è di che congratularsi. Cin cin.
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