di Giovanni Cecini

Disse Emile Zola nel suo J’accuse: «E’ un delitto sfruttare il patriottismo ai fini dell’odio». Ebbene la storia è piena zeppa di uomini, fatti e comportamenti che hanno commesso azioni delittuose in questo senso. La retorica patriottica, nobile quanto genuina in moltissimi casi, diviene un’arma micidiale quando si trasforma in egoista e becero nazionalismo. In tutti i Paesi del mondo esiste questa piaga, anche perché in un contesto sempre più multietnico e globalizzato, quei confini identitari e culturali appaiono più flebili e incerti. I colori nazionali, se mai fossero stati pieni e brillanti, sono ormai sfocati a seguito di migrazioni, conquiste, annessioni e dichiarazioni d’indipendenza.
  
L’Italia non è indenne da questo fenomeno, se anch’essa dopo secoli di fratture interne e invasioni straniere si è cimentata - una volta unita e indipendente - in una propagandistica azione d'imperialismo sfrenato. A partire dai governi liberali a cavallo tra ‘800 e ‘900, fino alla catastrofe dell’esperienza fascista, Roma si pose come obiettivo quello di realizzare un sogno mitico. Per questo ha iniziato ad assoggettare altri popoli e Nazioni, col tempo anche lontani per storia e cultura a una possibile comunanza di idem sentire italico.

Da queste premesse può partire un discorso pacato e riflessivo sul significato del Giorno del Ricordo, che cade il 10 febbraio, data in cui venne firmato il Trattato di Parigi del 1947, che assegnò a Belgrado i territori occupati durante il conflitto dalle armate di Tito. La ricorrenza venne istituita dallo Stato italiano nel 2004, per offrire rispetto e memoria ai tanti connazionali vittime di violenze nel contesto del confine orientale alla fine della Seconda guerra mondiale.

La geopolitica della regione, che sin dall’esperienza asburgica era stata aggravata dalle innumerevoli differenze etnico-culturali, dimostra come sia molto difficile distinguere le popolazioni più affini a un contesto latino piuttosto che a quello slavo. Sta di fatto che tra il 1919 e il 1947 in tale zona si è andando consumando uno stillicidio di brutalità, dove le cause e gli effetti si confondono a vicenda, non senza strascichi ideologici fino ai nostri giorni.

Per questi motivi, anche a fini politici, la risposta slovena non si è fatta attendere, se nel 2005 Lubiana ha istituito la giornata del 15 settembre come Festa nazionale del ritorno del Litorale alla madrepatria. Le polemiche incrociate non sono mancate e, ancora oggi, un certo attrito permane non tanto tra i due Paesi, quanto tra le due sensibilità interne, che spesso interpretano la logica delle rispettive ricorrenze come un ulteriore strumentalizzazione a quel nazionalismo di cui si è parlato all’inizio.

Una riflessione serena e risolutiva di questi contrasti, che investirebbe in casa nostra tutti i partiti senza distinzione di colore e collocazione, dovrebbe portare alla piena legittimazione del Giorno del Ricordo, al pari della Festa della Liberazione, come un momento di saggia riflessione morale e politica. Consapevoli dello sprezzo aggressivo del fascismo operato nei territori jugoslavi, è giusto, oltre che doveroso, offrire rispetto alle migliaia di cittadini italiani uccisi per le colpe dello Stato dittatoriale di cui facevano parte.

La Prima guerra mondiale e la pace di Parigi nel 1919, pur tra mille contraddizioni, aveva consegnato all’Italia terre e popolazioni affini alla Penisola, che nessun crimine fascista può rendere responsabili, tanto da meritare una condanna a morte così brutale come quella inferta nelle foibe. Parimenti l’invasione e il saccheggio che le Forze armate di Mussolini hanno perpetrato nei Balcani permettono di comprendere, una volta che gli aggressori siano stati scacciati, il diritto degli sloveni e dei croati di un riconoscimento e di un riscatto nazionale anche territoriale.

Le clausole firmate a Parigi del 1947, entrate in vigore appunto il 15 settembre, non vollero essere giuste, se per giustizia intendiamo il riconoscimento oggettivo dei diritti di cittadinanza. Esse vollero essere la risposta e la lezione offerta a un Paese, come l’Italia, che nella sua megalomania non si era accontentato di annettersi degli italiani della Venezia Giulia, dell’Istria e delle isole dalmate, ma pretendeva anche di sopraffare uomini e donne che mai si erano sentiti legati alla Patria di Dante, Raffaello, Mazzini e Garibaldi. In questo senso è inappellabile la decisione che ha portato i dalmati, i giuliani e gli istriani a trovarsi sotto la sovranità della Repubblica socialista federale di Jugoslavia.

Ben inteso, altra cosa è invece lo scempio fatto su queste stesse popolazioni, vessate oltre misura perché giudicate diverse o perché pedissequamente definite fasciste in quanto italiane. Ecco perché non deve e non sembra accettabile vedere la Giornata del Ricordo e la Festa del Litorale come alternative, in opposizione e in contrasto tra di loro, tanto da generare a vicenda recriminazioni, ripicche e offese reciproche, generate da enfasi ideologiche.

E’ ovvio che le ragioni di politica diplomatica mal si conciliano con le ragioni del cuore e dei sentimenti, ma è vero pure che a oltre sessanta anni di distanza, a maggior ragione in un contesto di integrazione europea, le decisioni prese nella capitale francese alla fine di un trentennio di odi viscerali furono l’unica risposta dopo una guerra infame e totalizzante. Per tutti questi motivi sarebbe quindi opportuno e legittimo che le città di Gorizia, Trieste, Pula, Rijeka e Postojna (o in qualsiasi altra forma linguistica le si voglia chiamare) fossero accomunate oggi e per l’avvenire da un sentimento comune europeo e non da uno sciovinismo dietrologo pari a quello onomastico sul chiamare Londonderry o semplicemente Derry la città dell’Irlanda del Nord.

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