di Mariavittoria Orsolato

Esattamente otto anni fa, il 23 marzo del 2002, circa tre milioni di persone si riunirono al Circo Massimo di Roma per difendere il loro diritto al lavoro e per tutelare soprattutto l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, messo in pericolo dalle mire riformiste del secondo governo Berlusconi. Quello per cui allora battagliò il sindacalista Cofferati, era in sostanza la possibilità per un lavoratore di ricorrere ai giudici del lavoro nel caso in cui il licenziamento fosse stato applicato senza giusta causa: il risultato della battaglia tra sindacato e governo fu un successo per la Cgil e una piccola grande vittoria per gli stipendiati. Ma questa ormai è storia e purtroppo gli avvenimenti recenti hanno preso tutt’altra piega.

Lo scorso mercoledì, dopo quasi 2 anni di dibattimento, il Senato ha infatti approvato con 151 voti favorevoli, 83 contrari e 5 astenuti il ddl sulla riforma del lavoro che, oltre a contenere norme sui lavori usuranti, ammortizzatori sociali e apprendistato (che ora potrà iniziare a 15 anni, sottraendo di fatto un anno all’obbligatorietà della pubblica istruzione), comprende anche una sostanziale modifica proprio a quell’articolo 18 per cui tanto si è lottato. All’articolo 31 possiamo infatti leggere come le controversie scatenate dal licenziamento arbitrario potranno essere risolte anche da un arbitro, in alternativa al giudice. Per quelli che non lo sapessero, gli arbitri sono privati cittadini - e non organi giurisdizionali - cui è affidato il compito di decidere sulle contese non tanto secondo la legge vigente ma in base al criterio di equità; la nomina di questi arbitri può essere poi affidata alle parti in causa o a terzi, e solo in rari casi è preposta dall’autorità giudiziaria.

Il modello è quello anglosassone e contempla la possibilità che già nel contratto di assunzione - anche in deroga ai contratti collettivi - possa essere stabilito, tramite clausola compromissoria, il ricorso a queste figure extragiudiziali in caso di contrasto tra le parti. Ad esempio, se un giudice ritiene che un lavoratore sia stato licenziato senza una giusta causa, in base all’articolo 18, deve necessariamente reintegrarlo al suo posto: ma se per contratto la scelta di risoluzione è affidata agli arbitri, questi decidendo sul principio di equità potrebbero semplicemente sanzionare l’azienda e risarcire con una cifra forfettaria il lavoratore; perciò, a differenza del giudice, è molto difficile che un arbitro reintegri il dipendente al suo posto. Inoltre, quella dell’arbitrato ha in sé un ulteriore ostacolo di natura economica: se per la via giuridica ordinaria è sempre stata garantita la gratuità per legge, il ricorso agli arbitri ha dei costi che devono essere interamente sostenuti dalle parti in causa.

Ora, che la nuova norma sia penalizzante per i lavoratori è evidente, resta da capire in quale misura. Il fatto che la scelta del campo in cui risolvere la questione avvenga al momento della firma del contratto di lavoro, denota chiaramente come la nuova norma sia tutt’altro che a tutela del potere negoziale dei salariati: messi di fronte alla scelta di adeguarsi o andarsene, i dipendenti saranno costretti ad accettare le regole dei datori di lavoro, pur consapevoli di dover giocare al ribasso in un meccanismo in cui la loro professionalità non avrà tutele garantite in sede giudiziaria. La riforma approvata in Senato pare quindi essere l’ennesimo regalo a quei “capitani coraggiosi” che, pur avendo ridotto ad uno sfacelo la già martoriata economia nazionale, godono ancora di alto riguardo agli occhi della classe politica: agendo sulla base e non sui vertici si perpetra inevitabilmente quell’assunto di ingiustizia sociale secondo cui solo chi può permetterselo, può decidere di rifiutare le regole imposte.

Con questa manovra il Governo ha di fatto aggirato l’ostacolo dello scontro a viso aperto con la categoria: “Questa volta - sostiene Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil - è peggio rispetto al 2002: allora l'attacco all'articolo 18 fu diretto ed era semplice spiegarlo ai lavoratori. Ora l'aggiramento va ben oltre l'articolo 18, impedendo addirittura di arrivare al giudice del lavoro”.

I sindacati però, pur avendo un patrimonio di oltre 10 milioni di iscritti, paiono impietriti di fronte a quella che sempre di più pare una politica del lavoro deviata ad uso e consumo di Confindustria e il fatto che la loro prima reazione al provvedimento sia stata una seppur amara constatazione, denota la manifesta disaffezione a quella che dovrebbe essere la primaria missione dell’attività sindacale: la tutela dei lavoratori. Che poi la categoria sia una specie in via d’estinzione lo dicono i numeri: la maggior parte dei contratti siglati riguarda le collaborazioni a progetto e si risolve in un’occupazione precaria, mal pagata e spesso degradante dal punto di vista delle relazioni umane.

L’Italia del lavoro ha compiuto l’ennesimo passo indietro, ma la politica ora preferisce pensare ai bordelli per gay, alle liste scippate e ai centri di massaggio tailandese per i protettori civili: di questa controriforma del lavoro ci sarà modo di parlare più avanti. Peccato che allora i lavoratori non avranno più nulla di cui discutere relegati, come saranno e già sono, alla cieca accettazione in nome dell’agognato “tozzo di pane”.

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