di Mario Braconi

I dati ISTAT ed le considerazioni finali del governatore della Banca d'Italia fanno un'istantanea agghiacciante della nostra Repubblica - nominalmente "democratica" ed ancor più nominalmente "basata sul lavoro" - un paese asfissiato dai suoi vizi ancestrali: illegalità, iniquità, conservazione. Assieme al lugubre annuncio con cui l'istituto di statistica fotografa 2 milioni e duecentomila disoccupati ad aprile 2010 (l'8,9% della forza lavoro italiana, senza contare i cassintegrati, incredibilmente computati tra gli occupati), arriva la conferma che il nostro decisamente "non è un Paese per giovani".

Certo, la lunga crisi ufficialmente iniziata a marzo del 2008 ha morso tutto e tutti, ma la classe anagrafica che ha subìto un vero martirio è quella di età compresa tra i 15 e i 24 anni, un terzo della quale oggi è (o si ritrova) senza lavoro. Dati eloquenti, capaci di condizionare pesantemente il futuro del Paese, la cui linfa vitale non solo è privata dei mezzi di sussistenza ma di una risorsa se possibile più rara e preziosa: la speranza.

Che la situazione sia percepita come drammatica anche dagli uomini di “potere” lo si intuisce dal fatto che persino dalla bocca di Mario Draghi, persona competente ma per storia professionale e ruolo istituzionale non necessariamente sensibile ai temi del lavoro, è uscito qualcosa di (vagamente) di sinistra: la ragione per cui "la riduzione rispetto al 2008 della quota di occupati tra i giovani è stata quasi sette volte quella osservata fra i più anziani [deve essere ricercata sia nella maggiore diffusione fra i giovani dei contratti di lavoro a termine sia nella contrazione delle nuove assunzioni, del 20%. Da tempo vanno ampliandosi in Italia - prosegue Draghi - le differenze di condizione lavorativa tra le nuove generazioni e quelle che le hanno precedute, a sfavore delle prime. I salari di ingresso in termini reali ristagnano da quindici anni."

Se il Governatore ha correttamente puntato il dito su alcuni temi scottanti (la precarietà e la perdita di potere di acquisto sistematiche, la perversione di un sistema generoso con i privilegiati ed inflessibile con i più deboli) le reazioni dei politici sono al solito piuttosto penose: c'è chi, come Brunetta, si consola sostenendo che un dato tanto negativo rappresenta un minimo e che pertanto d’ora in poi non si potrà che migliorare; e chi, come Sacconi, si dice convinto che la "buona formazione diretta a mestieri richiesti" (qualunque cosa voglia dire) sia la chiave per invertire la tendenza.

Non sorprende né stupisce il balbettare sconnesso ed incomprensibile dei politicanti, una classe arroccata nella propria torre eburnea dalla quale la rabbia del popolo tradito si percepisce appena, quasi fosse un rumore di fondo fastidioso quanto inoffensivo. Di contro per una volta va lodata la drammatica eloquenza dei dati passati in rassegna (e commentati) dal Governatore della Banca d'Italia. Uno, in particolare, disegna  alla perfezione una grave iniquità intergenerazionale: in Italia, un ragazzo su tre non trova lavoro e rischia una disoccupazione stabile, mentre un terzo (o poco più) dei suoi connazionali di età compresa tra i 55 e i 64 anni continua a lavorare, dato che si confronta con una media europea di 46 (56 nella virtuosa Germania).

Non sfugge il fatto che, da un punto di vista politico è rischioso far proprio un ragionamento il cui approdo è il ridimensionamento di diritti acquisiti (pensioni e il cosiddetto welfare), ma onestà intellettuale e coerenza pretendono che, nello stesso istante in cui ci si duole per il destino dei giovani, si considerino con il dovuto senso critico privilegi ormai difficilmente difendibili. Iniquità, dunque, come chiave di lettura per interpretare il nostro reale quotidiano, che Draghi ha declinato in tutte le sue possibili variazioni: a fallire sono le aziende più piccole, spesso di subfornitura, strozzate dalla crisi, ma anche dalle banche che, con la crisi, hanno chiuso i rubinetti (questo però Draghi non lo dice, non sorprendentemente). Differenza nella crisi: i dipendenti delle grandi aziende possono usufruire della cassa integrazione, mentre quelli occupati presso il pulviscolo delle piccole e medie imprese devono solo pregare che la società per cui lavorano non chiuda i battenti.

Ma su un tema Draghi è stato particolarmente incisivo: l'evasione fiscale. Forma principe, quintessenziale, dell'iniquità, tanto criminale quanto pervicacemente diffusa, per stigmatizzare la quale il compassato ex direttore Goldman Sachs tira fuori una locuzione da gruppettaro: "Macelleria sociale".

Benché sia chiaro l'impiego strumentale di questa espressione che, (giustamente) evocata dall'opposizione nei confronti di un governo intento ad alacremente premiare i criminali (condono immobiliare, scudo fiscale) punendo nel contempo i cittadini onesti ed inermi con gli ennesimi tagli nei servizi, viene qui usata per benedire l'operato tremontiano. I dati snocciolati fanno rabbrividire: il 16% del PIL italiano è “invisibile”, ovvero realizzato mediante attività in nero, o, per esser più chiari, in modo totalmente illegale.

Un danno enorme per la società, che a tale sistema di putrida illegalità si ritrova aggiogata per necessità; e anche per le casse di uno stato perverso, che invece di combattere i ladri preferisce sempre rivalersi sugli onesti. Se le imposte sul valore aggiunto fossero state regolarmente versate dai grandi e piccoli furbetti italici, il nostro debito pubblico sarebbe tra i più bassi d'Europa, conclude Draghi. Il messaggio è chiaro, condivisibile ed espresso in modo ineccepibile sul piano della logica e della retorica.

Adesso dovrebbe toccare agli italiani, a cominciare da domani, magari pretendendo dal dentista la pressoché sconosciuta ricevuta fiscale; magari aiutati e politicamente corroborati da leggi tributarie che, anziché spremere le famiglie e favorire i mafiosi ed altra feccia umana, per una volta guardassero al paese reale e al suo grido di dolore. Magari.

 

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