di Rosa Ana De Santis

I loro campi, avvinghiati come rovi sotto i ponti, rappresentano un problema grande e irrisolto. Le pessime condizioni igienico–sanitarie in cui vivacchiano non sono considerate tollerabili, soprattutto se le dimore in lamiera sono la loro casa permanente e non una roulotte di passaggio. Hanno cambiato volto gli zingari in Europa e i gitani non girano più. Qui inizia la seria difficoltà di convivenza tra le nostre città e i loro insediamenti. Qui inizia il tema della legalità, del sostentamento, dell’integrazione.

Argomenti spesso elementarizzati fino a diventare soltanto dicotomia tra sicurezza e buonismo filantropico. Ma il problema rimane lì, diviso tra un candidato e un altro e rimandato sine die. Fintanto che la candela abbandonata nella baracca non brucia il corpo di un bambino. E’ accaduto così al piccolo Marius il 28 agosto scorso. Allora il conforto e la pena invitano a riflettere sui diritti dei cittadini gitani. Così il diritto nasce solo sull’onda delle lacrime e mai come condizione preliminare del ragionamento politico. Un fallimento assicurato.

Questi cittadini infatti sono invisibili come fantasmi fintanto che non muoiono nei campi fatiscenti o non vengono cacciati dai confini. A questo proposito la scelta del governo francese sulla cacciata indiscriminata ha suscitato obiezioni da più fronti ed ha soprattutto inficiato in modo solenne la tutela prevista e inclusa nel concetto stesso di cittadinanza comunitaria. Come se l’essere rom rimandasse a una categoria speciale della cittadinanza, o piuttosto a un’appartenenza prioritaria e non complementare rispetto al criterio della nazionalità. Eppure i gitani non sono tutti uguali e sono al tempo stesso cittadini europei. L’accusa d’illegalità, che li avvolge tutti, va comprovata e da sola non basta ad alcuna restrizione dei loro diritti. Quello che Sarkozy ha dimenticato e che è ricaduto indistintamente su tutti. Bambini delle lacrime compresi.

Tentativi analoghi di pulizia sono in corso nella città di Roma. Nelle aree di degrado in cui vivono i nomadi, il sindaco Alemanno annuncia una grande opera di bonifica che, per ora, lascia a piedi più di mille rom e sinti, nonostante il censimento richiesto dallo stesso Comune per valutare la capacità del piano di accoglienza. Il discrimine, secondo Alemanno, sarà quello del sostentamento. Chi lavora resta, gli altri a casa. Ma quanti zingari pensiamo di veder assunti come domestici o come lavoratori nelle nostre efficienti città? Se persino i bambini nelle classi non sono tollerati granché dalle famiglie italiane?

Il circolo vizioso del pregiudizio è il primo impedimento alla piena integrazione. E il criterio dell’illegalità, che sembra una conseguenza del ragionamento, ne è invece la pregiudiziale premessa. Certo che non tutti i nomadi lavorano il rame e fanno i giostrai. Ma è la giustizia che deve fare il suo corso e la pena non è la cacciata di tutti per educarne uno, come si sarebbe detto in altri tempi. La scorciatoia invocata è ricca d’insidie.

A meno che il Ministro Maroni non sia pronto a cacciare tutti i falsi invalidi italiani, tutti quelli che vivono grazie alle mafie o che non esistono per il fisco italiano. Anche questi rubano diritti e alimentano la criminalità, ma non vivono tra fuochi e bagni chimici. Se li tolleriamo perché sono nati italiani, allora dovremo come minimo tollerare tutti i gitani che sono nati in Italia. Ma proprio tutti, senza pensare di cacciarne uno. A qualsiasi condizione e senza arringhe sulla sicurezza dei nostri cittadini.

Per parlare di fine del degrado dei campi abusivi e di reale aiuto umanitario per l’integrazione di questi cittadini disagiati, non c’è bisogno di scomodare la bontà. Basterebbe chiedersi dove siano finiti i 15 milioni di Euro dati dall’Europa all’Italia proprio per intervenire in modo speciale sull’integrazione dei rom. Fu proprio il Ministro Frattini, all’inizio del suo mandato, ad annunciare che per la prima volta l’Italia avrebbe avuto accesso a questi importanti fondi. Vanno aggiunti poi i fondi per i rimpatri dei migranti.

Finora si sono viste le operazioni di sgombero fatte nelle grandi città italiane che poco hanno avuto a che vedere con i campi abusivi e tantomeno con interventi di integrazione. Il gruppo Everyone, impegnato nella cooperazione internazionale, chiede di aprire un’inchiesta sul buco nero degli aiuti europei dati all’Italia o di esaminare i numeri in modo trasparente. Si va verso la pulizia etnica delle nostre città, altro che integrazione. Questo sembra. E ci si va con i soldi dell’integrazione in tasca. Anche questo sembra.

 

 

di Ilvio Pannullo

Che il governo non navighi in acque tranquille non è certo una notizia: dall’ormai celebre “faccia a faccia” consumatosi tra la seconda e la terza carica dello Stato con tanto di dito puntato al cuore del berlusconismo, quel culto del leader che tanto male ha fatto all’Italia, si procede a vista attenti ogni giorno a cogliere gli umori delle due fazioni interne alla maggioranza. È in questo quadro che s’inserisce l’ennesima provocazione di Generazione Italia, l’associazione fondata dal finiano Italo Bocchino e che vede nel comitato nazionale tutto il gruppo di Futuro e Libertà, recentemente costituitosi in Parlamento.

Sul sito del think tank megafono del Presidente della Camera Fini campeggia il simbolo di una stella rossa a cinque punte con una falce e martello sovraimpressa sul simbolo del Pdl. Il titolo dell’articolo in home page è: “Gli squadristi della libertà preparano la contestazione a Fini”. Giocando intelligentemente d’anticipo Bocchino, Granata e soci puntano a disinnescare la trappola pensata e tagliata su misura per minare la credibilità pubblica del loro comandante. E i toni sono adeguati alla gravità della situazione.

L’articolo attacca così: “Se mai servisse una conferma della deriva sinistrorsa/comunistoide del Pdl, ecco a voi l’ennesima conferma. Stamane riceviamo una telefonata: un nostro amico napoletano - si legge nell’articolo - ci informa che è stato contattato da un consigliere provinciale del Pdl che gli ha fatto una richiesta particolare. Choc, aggiungiamo noi. ‘Stiamo organizzando con la Brambilla una contestazione a Fini quando parlerà a Mirabello. Riesci a riempirmi un pullman? E’ tutto a spese del partito”. Si legge ancora nell’online: “Gli daranno anche il panino, in puro stile Cgil e magari anche un libretto rosso con tutte le istruzioni per contestare il nemico del popolo.

Siamo davvero arrivati a un punto bassissimo: il ministro del Turismo, invece di organizzare pullman di turisti stranieri alla volta della Provincia di Ferrara, nella magnifica Terra degli Estensi, perde tempo a organizzare pullman di squadristi della Libertà (?!?) per contestare la terza carica dello Stato. D’altronde, cosa potevamo attenderci da un ministro del Turismo che trascorre le proprie vacanze in Francia? Siamo alle comiche finali. E questa volta per davvero”.

Ovviamente scoppiata la bomba non poteva mancare l’immediata ed inutile smentita in pieno stile berlusconiano - dopotutto è pur sempre una sua pupilla - del Ministro Brambilla che ha dichiarato: “Simili meschini attacchi testimoniano solo la pochezza e la scarsità di contenuti politici di chi li compie” e aggiunge “ho già dato mandato ai miei legali di procedere nei confronti di chi ha formulato tali contenuti diffamatori e di chi eventualmente ne darà diffusione”.

La temperatura si alza e la controreplica non si fa attendere. A stretto giro arrivano le dichiarazioni del deputato Fabio Granata, che per essere sicuro di andare a segno rilascia alle agenzie un commento sulla norma in discussione del processo breve, la vera ossessione del Premier senza la quale rischierebbe di venire addirittura processato come un normale cittadino per i reati da lui commessi fuori dall’esercizio delle sue funzioni: “Sul processo breve non accetteremo mai una norma retroattiva che sarebbe un’amnistia mascherata che cancellerebbe migliaia e migliaia di procedimenti in corso”.

Questa la dura presa di posizione, ai microfoni di Cnr media, del deputato del Fli. “E’ un tema questo - ha aggiunto Granata - molto delicato, su cui vogliamo discutere e abbiamo il diritto di discutere. Abbiamo il diritto e il dovere di portare avanti le nostre idee. Lo abbiamo fatto con la creazione dei gruppi parlamentari e con Generazione Italia. Agosto ha segnato delle divisioni molto nette. Se tutto questo si trasformerà in un partito dipende dalla nostra volontà, certamente, ma anche da come si evolverà la situazione politica”.

In un’altra intervista radiofonica, a Radio Radicale questa volta, Granata offre poi agli ascoltatori una calendarizzazione dell’ormai prossima crisi di governo. Parlando del 16 di settembre, giorno in cui il collegio dei probiviri del Pdl dovrebbe discutere l’espulsione dello stesso Granata, di Briguglio e di Bocchino, dichiara: “Non siamo molto preoccupati della riunione dei probiviri, perché non riteniamo possibile che un grande partito possa mettere sotto processo qualcuno perché ha espresso delle opinioni. La questione vera è legata innanzitutto all’espulsione sostanziale di Gianfranco Fini dal partito che ha co-fondato. Quella è una questione dirimente, e poi c’è la nostra questione”. Insomma il solido squallido teatrino della politica italiana con personaggi decotti privi di una vera credibilità politica da spendere per accreditarsi presso i cittadini.

Bandiere come quella della legalità, infatti, non possono essere sventolate da tutti. Specialmente da chi nei momenti decisivi è sempre stato assente, come dimostrano le quasi quaranta (!) leggi ad personam votate dai redenti finiani, ora riabilitati come difensori delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana. Tutto appare opaco, falso, immaginato e studiato per le esigenze televisive.

I media hanno infatti imposto alla politica del nostro paese non solo il linguaggio, lo stile, ma anche le regole e i modelli di organizzazione. Infine, come colpo di grazia, gli attori. Dai partiti di massa, ideologici, organizzati sul territorio, si è passati a partiti senza società, organizzati al centro e inesistenti in periferia. Ma, soprattutto, personalizzati, influenzati dalle logiche della comunicazione e del marketing. Perché è questo che ciò fanno, è questo il loro lavoro: vendono idee, spacciano opinioni non certo perché ci credono, ma perché in un dato momento “tirano”.

Il tutto per strappare il voto di qualche cittadino, magari telespettatore e sicuramente dotato di scarsa memoria. Volano gli stracci e si scannano su tutto, si grida al tradimento salvo che poi non cambia mai nulla. Come altrimenti spiegare, capire, descrivere, la struttura oligarchica della democrazia nel nostro paese in apparenza sempre uguale a se stesso, cioè apparentemente democratico?  

di Fabrizio Casari

Lui ci ha messo il folklore, altri i baciamano, altri ancora grida manzoniane. Ma cosa fosse più fuori luogo in questo variopinto menù che ha fatto da sfondo alla visita di Moammar Gheddafi a Roma, è difficile dirlo. Chi invece da questa due giorni romana ha ottenuto quello che voleva, è stato certamente il leader libico. Che qualcuno ora definisce un satrapo, mentre anni addietro lo si definiva un pazzoide. Ma che, dal 1 settembre del 1969, governa ininterrottamente la Libia.

La visita ha definitivamente sancito lo sdoganamento libico nell'arena europea e, affinché il concetto sia ancor più chiaro, le proposte di accordi commerciali e politici avanzate dal Colonnello sono di rilievo tutt’altro che trascurabile. Mettono fine alla politica italiana delle fumose concessioni e di qualche regalìa presentate in passato come risarcimenti per gli orrori dell’epoca coloniale. Risarcimenti che, pure, sarebbero dovuti; é bene leggere quanto ha scritto Del Boca sul genocidio italiano in Libia, se ci si vuole proprio vergognare di qualcosa.

Sul fronte degli affari, la Libia offre mercati, appalti e commesse per la modernizzazione del paese e, come in qualunque contesto, se le relazioni politiche e commerciali sono positive, più semplice sarà aggiudicarsi i lavori. D’altra parte, la stessa Libia partecipa ormai in forma contundente in alcuni grandi asset dell’economia e della finanza italiana, nonostante le proteste padane. Dunque, per quanto la parata di padroncini e AD delle principali aziende italiane possa essere risultata poco bella a vedersi, essa è solo la versione mediatizzata e pubblica di quanto di solito avviene nei palazzi governativi esteri e, prima ancora, nelle rispettive ambasciate, che preparano modalità e contenuti delle missioni commerciali all’estero.

Che alcuni paesi europei abbiano storto la bocca e che gli stessi Stati Uniti non vedano di buon occhio il protagonismo italiano negli affari con Tripoli, non è una novità. Ci sono solo due possibili letture per interpretare il fenomeno: quella ingenua, che ritiene che la disapprovazione sia causata da autentico sdegno ideologico, politico o religioso, oppure quella un po’ più smaliziata e cinica, ma molto più verosimile, che inserisce i riferiti dissensi occidentali nella pura competizione sui mercati.

Giova ricordare, peraltro, che gli Usa che minacciavano l’Italia quando manteneva rapporti con Tripoli sotto embargo Onu, erano il paese che, insieme alla Francia, accumulava contratti commerciali con società libiche attraverso giochetti di scatole cinesi che, come d’incanto, trasformavano società statunitensi in società canadesi o lussemburghesi. E gli stessi spagnoli, con la Repsol in particolare, non si lasciavano sfuggire lauti affari con la Libia mentre le sanzioni contro Tripoli venivano ulteriormente rinforzate anche con il voto di Madrid. Business is business, certo, ma predicare in un modo e razzolare nell’altro non assegna patenti di coerenza a chi lo fa e obbligo di condivisione per chi ascolta.

D’altra parte, ogni qualvolta la politica estera italiana ha assunto un’iniziativa che non sia la mera applicazione del dettato statunitense, si è sempre assistito a polemiche e scontri. Da Mattei ad Andreotti, passando per la gestione del nostro contingente militare in Libano nei primi anni ’80 e al Craxi di Sigonella, da sempre l’Italia viene criticata aspramente appena tenta di intrecciare relazioni politiche, diplomatiche e commerciali con i paesi del Mediterraneo come espressioni di un’autonoma politica estera. Così avvenne con la Libia quando Andreotti si recava sotto la tenda del Colonnello o con l’Iran, quando il governo Prodi inviò Dini per primo a Teheran.

E così avvenne (in forme meno sfacciate ma concretissime) quando il secondo Governo Prodi, su iniziativa di Massimo D’Alema, svolse una funzione straordinaria di mediazione sulla guerra in Libano. Molti ricorderanno D’Alema sottobraccio con esponenti di Hezbollah e le polemiche che ne seguirono; molti, ma non tutti: tra i dimenticatori a tempo determinato ci sono molti adepti del predellino che allora criticavano l’ex Ministro degli Esteri per aver incontrato Hezbollah, e ora sono in fila indiana a cercarsi uno spazio per la foto con Gheddafi e Berlusconi. Dunque ben vengano accordi per forniture e appalti in Libia. La condizione delle nostre imprese, soprattutto dal punto di vista dell'occupazione, non consente ironie o sottovalutazioni.

Certo, la kermesse delle fanciulle in ascolto (arruolate per 80 Euro al giorno) degli inviti all’islamizzazione non sono spettacolo consueto; ma qui, appunto, siamo nel folklore di un copione ad uso e consumo dell’ego del Rais libico. Peraltro, andrebbe ricordato a chi teme un'improbabile islamizzazione via Tripoli, che proprio Gheddafi detiene il record dell’impiccagione dei fondamentalisti islamici. La Libia, infatti, nel corso degli anni ha stabilito una regola chiara: la religione si occupi delle anime, che il governo si preoccupa della cosa pubblica; quando l’integralismo religioso ha cercato una via per fare politica, la risposta é stata durissima.

E’ semmai proprio sul terreno dei diritti umani che la guardia non può essere abbassata. E qui ci si riferisce alla politica repressiva verso i flussi migratori che spostano colonne di disperati dall’Africa verso l’Europa. Senza tanti infingimenti, Gheddafi ha ricordato che il problema è del vecchio Continente, non il suo. E che quindi, se si vuole che la Libia svolga un ruolo da secondino dell’immensa prigione di miseria che si muove tra i due continenti, si sappia che non è disposta a farlo gratis. Del resto - afferma Tripoli - le politiche di governo dei flussi migratori di Italia, Francia, Spagna, non prevedono forse il respingimento alle frontiere?

Su questo, allora, sarebbe bene esser chiari. Quello che fa la Libia è indegno di un paese civile, è insopportabile per chiunque non abbia cuore e mente offuscati. La repressione nei confronti di migliaia di esseri umani che cercano con ogni mezzo di arrivare in Europa è al di fuori e contro qualunque norma internazionale. I suoi campi di detenzione somigliano maledettamente a dei lager.

Ma Gheddafi agisce per proprio conto o per conto dei governi europei che glielo chiedono? Beh, difficile avere dubbi in proposito. Se si vuole dunque scegliere un terreno di relazione franca e diretta con Tripoli, la questione della gestione dell’immigrazione nel rispetto dei principi più elementari dei diritti umani non può risultare una variabile secondaria nel rapporto tra Roma (e l’Europa in generale) e la Libia.

Siamo abbastanza certi, però di non aver colto né nei colloqui governativi, né tanto meno in quelli d’affari, il benché minimo cenno al riguardo. Sarebbe invece il caso di proporre - e non solo con la Libia - una clausola etica e sociale sui diritti umani come precondizione per ogni qual si voglia rapporto bilaterale. Anche solo per non fare la figura barbina di chi impone a Cuba una ridicola “posizione comune Ue” per l’arresto di qualche decina di mercenari, mentre consente invece a Pechino e a Tripoli, all’Indonesia e a tanti altri dittatorelli in Africa, di firmare contratti con mani sporche di sangue.

 

di Alessandro Iacuelli

A rivelarlo, durante il meeting dei popoli di Comunione e Liberazione a Rimini, è stato il sottosegretario Stefano Saglia: il decreto per la strategia nucleare, previsto per ottobre, conterrà "garanzie per le aziende", cioè indennizzi per chi investe, nel caso in cui, per un cambio di governo o "qualsiasi altro intoppo", il progetto si arresti. "Valuteremo in che modo impedire che i costi non riconducibili a inadempienze delle imprese si scarichino sulle imprese", ha dichiarato il sottosegretario. In pratica, vista la "svolta" dei finiani e visto il rischio di elezioni, il governo Berlusconi deve darsi da fare per evitare che gli industriali impegnati nella corsa al nucleare perdano qualche soldo, che gli indennizzeremo noi, tanto per cambiare.

Non c'è solo questo nell'intervento di Saglia a Rimini, ma anche qualcosa di concreto circa l'immediato futuro del programma nucleare: "A gennaio 2011, quando arriveranno le prime domande per la costruzione delle centrali nucleari, si conosceranno anche i siti, almeno i primi due, dove saranno realizzate". Ci sarà da aspettarsi una grossa fase di scontro tra gli enti locali, regioni e comuni, che magari sono anche d'accordo con la realizzazione di centrali nucleari, purché "non sul nostro territorio", e a poco serve la rassicurazione di Saglia: "il percorso con i territori deve essere di condivisione e non di impostazione militaresca".

Serve a poco perché l'imposizione delle infrastrutture ai territori è già stata praticata dalle forze politiche che fanno parte del governo attualmente in carica e la maggiore sperimentazione fu a proposito della TAV in Val di Susa, usata come vero e proprio laboratorio di sgombero dei blocchi della popolazione. Analogamente, è in corso in questo momento un altro laboratorio di sperimentazione: quello del controllo e della militarizzazione del territorio circostante gli impianti.

Il laboratorio in questione è la Campania, dove tutti gli impianti dedicati allo smaltimento dei rifiuti urbani, dai siti di stoccaggio fino all'inceneritore di Acerra, sono guardati a vista da militari, con frequenti controlli perimetrali e con il fermo immediato di chiunque si avvicini. Una sperimentazione perfetta, un'occasione di "allenamento" eccezionale per quando poi tutto questo sarà trasferito alla filiera nucleare italiana.

Abbastanza scontato il plauso del sistema industriale italiano, soprattutto quando il Governo giura che potrà avvalersi dei poteri sostitutivi. Per l'amministratore delegato di Enel, Fulvio Conti, non si può continuare a pensare che "uno sviluppo ordinato e sostenibile sia possibile senza ricorrere a tecnologie che in maniera infondata vengono considerate in maniera invasive, non corrette, nocive". E "nell'interesse generale del Paese" è necessario che il progetto venga sostenuto "da un governo centralmente molto forte" che tracci linee guida solide a lungo termine. "Immaginate cosa accadrebbe se un cambio di governo fermasse il progetto dopo che e' stato avviato?", si chiede Conti, e aggiunge a margine anche altre informazioni, magari con un occhio alle quotazioni in borsa dei titoli dell'azienda che guida.

Infatti Conti ha anche parlato del previsto collocamento sul mercato di una quota della società del gruppo per le energie rinnovabili, Enel Green Power, destinata alla quotazione in Borsa e ad un eventuale "private placement". "Andiamo avanti con l'obiettivo di chiudere la cosa entro ottobre - ha dichiarato - vogliamo raccogliere almeno 3 miliardi, questo è l'obiettivo, non abbiamo mai detto quale è la percentuale da cedere".

Anche per il presidente del consiglio di gestione di A2A, Giuliano Zuccoli, "non é più tempo per guerre ideologiche": il Paese non può rinunciare anche al nucleare in un mix di fonti. "Bisogna spiegare ai cittadini le cose come stanno, così potranno farsi una loro idea consapevole". E la scelta dei siti, aggiunge Zuccoli, sarà "il momento nodale, il punto critico, un passaggio importante: lo deve fare il Governo, non le amministrazioni locali".

Secondo Greenpeace Italia, le dichiarazioni fatte a Rimini dal sottosegretario Saglia "smascherano definitivamente i trucchi del Governo sul nucleare. Significa che il governo Berlusconi non solo ha intenzione di decidere la costruzione di nuove centrali nonostante il parere contrario delle Regioni e della popolazione, ma vuole anche blindare questa scelta per il futuro, pur di regalare soldi ai suoi amici.

Insomma, il nucleare, comunque vada, lo pagheranno in bolletta gli italiani. Queste bollette, salate a causa della follia nuclearista del governo, Greenpeace le ha già preparate e distribuite ai cittadini italiani. E che i costi saranno stellari è sicuro, perché il reattore francese Epr, decantato come la terza generazione del nucleare, è in realtà un prototipo del quale non è chiaro nemmeno il progetto: addirittura, i ritardi nei due cantieri esistenti (nessun Epr è mai entrato in funzione a oggi) hanno affossato i bilanci di Areva (l'impresa produttrice) e costretto Edf (l'Enel francese) a chiedere un aumento delle bollette. Puntualmente ottenuto.

Senza farci false illusioni, le parole di Saglia sono abbastanza preoccupanti; sembra di sentire le parole di un governo di un Paese del Terzo Mondo che, per attirare imprese straniere a costruire centrali nucleari, assicura che i danni e i risarcimenti di eventuali gravi incidenti di percorso se li accollerà tutti lo Stato. Un incentivo assolutamente interessante per gli investimenti - e, purtroppo, le speculazioni - nella sicurezza delle centrali. Svanisce ogni concetto di responsabilità e di rischio di impresa.

Anche a tale proposito, Greenpeace sottolinea che "il nucleare si conferma come una pericolosa perdita di tempo, costosa e rischiosa. Un trucco per regalare soldi all'ennesima lobby, sottrarre investimenti a una rivoluzione energetica in cui l'Italia può essere protagonista (con un salto tecnologico ed occupazionale di prim'ordine) e rendere il nostro Paese sempre più dipendente dall'estero per le fonti energetiche: i brevetti sul nucleare sono tutti francesi, mentre l'uranio delle miniere di Areva ammazza la gente in Niger".

Ma forse è troppo tardi, perché il Governo è partito lancia in resta ed ora non lo ferma più nessuno, a parte una tornata elettorale che improbabilmente lo rovesci. Secondo quanto dichiarato dal Sottosegretario allo Sviluppo, Stefano Saglia, entro Gennaio 2011 sapremo dove verranno costruite le prime due centrali nucleari italiane, ma è lampante che una tale decisione non può essere presa nei pochi mesi che ci separano dal nuovo anno. Pertanto, per forza di cose, quei due siti sono già stati scelti, ma per ora nessun rappresentante di Governo ha il coraggio di rivelarne i nomi per non far alzare i cori di proteste, proprio ora che c'è il rischio di tornare alle urne. Sarebbero di certo un gran numero di voti persi, nel caso in cui si andasse alle elezioni prima della fine dell'anno.

Ma l'Italia è anche il Paese delle indiscrezioni e delle voci di corridoio: così sono in molti ad essere pronti a giurare che quei due siti sono due di quelli dove dove erano presenti le vecchie centrali ormai dismesse; ma Saglia ha annunciato che le bocche rimarranno cucite fino al nuovo anno. Ad ottobre, poi, il Consiglio dei Ministri redigerà un "decreto per la strategia nucleare", le cui anticipazioni fanno già venire i brividi.

Infatti, quei "poteri sostitutivi" accennati dal sottosegretario e applauditi dall'industria, altro non sono che quelli militari, mandando l’esercito a presidiare i siti per scoraggiare le proteste dei cittadini che non vogliono il nucleare sul loro territorio. Ma, se fosse vero, come Berlusconi continua a dire da mesi, che gli italiani vogliono il ritorno al nucleare, non avrebbe senso ricorrere all’esercito, alieno in un Paese normale e civile.

Riassumendo: il Governo ha tutta l'intenzione di accelerare i tempi del ritorno al nucleare, magari prima di cadere rovinosamente per qualche sgambetto parlamentare. Come già firmato e protocollato per progetti come il Ponte sullo Stretto, anche in questo caso se non se fa più niente gli investitori saranno indennizzati con soldi pubblici, che verosimilmente faranno impennare le bollette elettriche degli italiani.

Eppure, se si guarda agli ultimi sondaggi che attestano ad oltre il 60% la percentuale di popolazione contraria al ritorno al nucleare, qualcuno dovrebbe pur spiegare a questi signori che, nonostante la disinformazione e la campagna mediatica (che è appena al principio), gli italiani non vogliono il nucleare. Ma queste saranno le tematiche del prossimo autunno.

di Rosa Ana De Santis

Come ogni anno Rimini apre l’agenda politica della Chiesa e lo fa chiamando a raccolta le autorità e il governo. La lezione di questi giorni, apostrofata con idillio lirico dal ministro Sacconi che ha scomodato addirittura la mistica del dono, è quella che ricorda alla politica che la cultura cristiana è intrinsecamente legata al valore dell’accoglienza. Non esiste un concetto coerente e pieno di Europa senza quest’anima culturale e morale. In un paese come l’Italia, dove sono tristemente attuali le battaglie per il crocifisso e in cui le leggi sono modellate sulla morale religiosa cattolica, questo genere di lezione dovrebbe arrivare facilmente al legislatore.

Almeno così ci si aspetterebbe. Dovrebbe arrivare, altrettanto rapidamente, ai nostri vicini francesi, al presidente Sarkozy e alla sua benedizione per la cacciata dei rom. E ancora al nostro Ministro dell’Interno, che non pago della cacciata indiscriminata di donne e bambini in Francia, chiede all’Europa di poter cacciare tutti (perché non sembri una persecuzione ai danni dei soli rom), anche i cittadini comunitari.

Il suo livore va per il risalto mediatico che ha avuto la vicenda francese, scopiazzata dalla politica dei rimpatri del nostro governo e non, piuttosto, perché una cacciata dai confini è un rimedio preistorico che equivale a seppellire ogni sfida politica per il futuro. Peccato, arriva a dire il Ministro, non poter cacciare i rom di cittadinanza italiana che non lavorano. Perché forse dovremmo cacciare tutti i nostri disoccupati del sud. Non si rende conto, Maroni, che questo significa mettere in discussione il concetto preliminare e fondante della cittadinanza europea e di nullificarne ogni valore e ogni identità. Non se ne rende conto o non se ne cura ottemperando al preferito manifesto sull’Europa dei popoli e delle etnie tanto caro ai suoi amici del Carroccio.

L’isolamento che l’Italia, guidata da un ministro leghista, sta conquistando in Europa, in atteggiamento di aperta sfida con Bruxelles, non è affatto rassicurante e il monito che è arrivato direttamente da papa Ratzinger, in occasione dell’Angelus, sembra rimanere inascoltato. Va bene la voce del Papa per le staminali e per gli embrioni, per l’aborto e il matrimonio gay e per tutto quello che serve a preservare una cultura patriarcale e di controllo sociale; non va più bene - a quanto sembra -  quando in ballo c’è la difesa della nazionalità nemmeno come valore culturale, ma più banalmente come criterio di dominio e sfruttamento internazionale.

E’ evidente quanto sia stato sempre strumentale il richiamo del governo all’autorità della Chiesa, dalla vicenda Englaro al crocifisso nelle scuole, all’ora di religione, così come è evidente quanto la chiesa non abbia smesso un giorno di fare politica e di esercitare un ruolo di ispirazione morale della legge pubblica come risarcimento de facto per il perduto e rimpianto potere temporale. Del resto questo era stato il messaggio di Rimini nel 2009 e da allora la cronaca italiana ci ha documentato, passo dopo passo, quanto questo sposalizio con la politica sia riuscito.

Accogliere - facile fare previsioni - significa anche accogliere la vita umana in tutte le sue fasi e manifestazioni. Così come meno Stato e più società, come suggerito da Sacconi, può significare soltanto mettere a rischio la laicità e l’universalità della legge in un sistema come quello italiano, in cui la morale laica e quella religiosa tendono ancora ad essere un unicum. Forse solo la rivendicazione di uno Stato forte può preservarci: grottesca soluzione all’italiana.

Se l’accoglienza fosse quella indicata dalla Chiesa del duemila, diventeremmo probabilmente una grande comunità cristiana, illiberale e totalitaria ma buona nella sostanza morale; se diventiamo, come stiamo diventando, un Paese in cui si può cacciare un bambino in carne ed ossa e non un embrione, diventiamo soltanto un’appendice del Vaticano. Un binomio bizzarro fatto di cattolicità senza cristianità, un paese falsamente democratico, fondato su un sistema di profonda ingiustizia e di conclamata immoralità politica.

Quello che Rimini non ha detto è che la cristianità può far franare irrimediabilmente la costruzione della cattolicità tanto cara al nostro governo e al potere della Santa Sede. E’ questa doppia identità che può renderci cristiani ed europei, senza alcun bisogno di essere cattolici. Chissà se CL ci ha pensato. L’appuntamento è per il concilio vaticano terzo. 

 


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