di Fabrizio Casari

Di solito i partiti muoiono a Rimini, terra di balere, mare e discoteche per divertirsi e centro congressi a basso costo per officiare l’estrema unzione ai partiti. Stavolta, invece, è toccato a Mirabello, pochi chilometri distante, fungere da scenario per la tumulazione del partito di governo. Questo perché il PdL non c’è più, ha detto Gianfranco Fini, che del predellino è stato cofondatore e che dal predellino è stato radiato come usurpatore. Il PdL, ha detto scandendo le parole, il Presidente della Camera, è morto: quel che resta è una Forza Italia allargata.

Allargata a chi? A quei “colonnelli che hanno solo cambiato generale”. Il riferimento é a Gasparri, La Russa, Alemanno, Matteoli; insomma a tutte quelle mezze figure che Fini aveva elevato a rango di ministri, dopo averli tirati fuori dalle sedi missine e che ora - ma non da ora - si trovano più a loro agio con Berlusconi e Bossi. Queste le uniche parole riservate agli ex-camerati. Le stoccate dirette al Premier, accusato di “comandare” invece che “governare”, non sono state poche, ma nessuna ha raggiunto livelli particolarmente acidi quanto gli house organ del capo del predellino hanno sfornato in questi mesi sul Presidente della Camera.

La manifestazione tenutasi ieri e l’intervento di Fini, dovevano servire a più scopi: misurare la forza dei finiani, anche per valutare a partire da questo le possibilità di rientro paludato nel PdL; verificare le intenzioni politiche del Presidente della Camera, anche alla luce dei tentativi di riavvicinamento (non troppo convinti) del Cavaliere e, soprattutto, constatare la riserva d’ossigeno di cui il governo Berlusconi ancora dispone.

Tutte questioni alle quali l’ex presidente di An ha offerto risposte che solo Capezzone, per limiti d’ufficio oltre che propri, non é riuscito a cogliere. La folla intervenuta a Mirabello offre numeri ben più ampi di una corrente; per cui se qualcuno contava su una debacle numerica che riconducesse lo strappo ad un’insubordinazione di minoranza destinata a rientrare o, comunque, a non incidere, deve rifarsi i conti. Quella di Mirabello è folla da partito, non da dissidenti. Fine perciò di ogni mediazione destinata ad immaginare modi e tempi di una possibile ipotesi di rientro nel PdL. Ogni tentativo di riportare i finiani nell’alveo del Pdl è naufragato. “Non si può rientrare in qualcosa che non c’è” ha detto Fini di fronte ad alcune migliaia di plaudenti che questo volevano sentire.

Per quanto riguarda il passaggio relativo al quadro politico attuale, in particolare circa l’atteggiamento dei finiani nei confronti del governo, Fini ha ribadito quanto già si sapeva: rispetto sì del mandato elettorale, ma in ordine al programma concordato con il quale il predellino si era candidato al governo del Paese, non alle successive modifiche in corso d’opera che hanno portato il PdL ad essere una forza politica diretta politicamente dalla Lega e trasformata dal Premier in un colossale collegio di difesa dei suoi guai giudiziari e dei suoi interessi economici. In questo senso, Fini si è detto disponibile ad accogliere positivamente una norma che salvaguardi il Premier, ma ha ribadito con molta più forza il suo “basta” alle leggi ad personam.

Non più, dunque, una diarchia tra Arcore e Ponte di legno; il governo dovrà prendere atto del mutamento dello scenario e trattare, punto su punto, con Futuro e Libertà. Un vero e proprio patto di legislatura che, sotto diversi punti di vista, converrebbe a tutto il centrodestra: il Cavaliere è ai minimi storici nei sondaggi e il rapporto con il Quirinale non è mai stato così difficile; Futuro e Libertà, contemporaneamente, avrebbe bisogno di tempo e di scadenze politiche per strutturarsi al meglio. Ma, appunto, nessuna adesione sulla base del predellino, ma solo un patto di legislatura fra le sue tre componenti.

Difficile stabilire ora come reagirà il Premier, anche se è ipotizzabile il suo tentativo di allungare l’età del suo governo. Mentre Fini parlava a Mirabello, Rutelli offriva alleanze a poche centinaia di chilometri. Casini e Rutelli con il loro Terzo Polo (dove potrebbe anche trovare posto Fini) sono dietro l’angolo e persino qualche mente geniale del Pd non sarebbe ostile all’ammucchiata, perciò quello cui assisteremo sarà una bruciatura a combustione lenta per il Cavaliere.

Del resto, l’idea che la sua caduta comporti il ricorso al voto sta solo nella testa del predellino, non in quella del Quirinale, che risponde alla Costituzione italiana e non alle scadenze dei processi ai quali il Premier fugge o, ancor più, alle sentenze della Consulta attese nei prossimi 60 giorni, quanto mai pericolose per l’uomo di Arcore.

Per Napolitano, giudice ultimo della sostenibilità del quadro di governo, la strada per le elezioni passa prima per la verifica di una eventuale maggioranza alternativa alla Camera e al Senato. Peraltro, la legge finanziaria, la cui discussione comincerà entro breve, va approvata ad ogni costo entro la fine dell’anno, pena un esercizio provvisorio che né i mercati, né la Ue, ci perdonerebbero.

Dunque, il film che porterà gli italiani al voto andrà in scena solo a partire da Gennaio; fino ad allora, (se non in presenza di una diversa maggioranza, magari a guida Tremonti o Draghi) ci saranno schermaglie, distinguo, battaglie anche aspre, ma in assenza di maggioranze parlamentari alternative, il governo mangerà il panettone.

Il percorso di Futuro e Libertà è tracciato: consolidamento del processo organizzativo, anche sulla base della definitiva chiarezza del cammino iniziato ieri a Mirabello, poi il via alle operazioni di costruzione organizzativa e politica sul territorio che si concluderà entro la fine dell’anno con la nascita del nuovo partito. Questi sono infatti i tempi necessari per arrivare puntuali alla prossima scadenza elettorale, prevedibilmente in primavera. I tavoli che verranno imbanditi saranno diversi, ad ora è difficile immaginare chi siederà con chi. Ma sono, i tavoli elettorali, luoghi dove tutti tengono a sedersi. Le sedie del tavolo diventano spesso le poltrone del governo. Futuro e Libertà non si farà pregare.

di Giovanni Gnazzi

In attesa di vedere se l'agonia del processo breve diventerà l'inizio della nuova campagna elettorale, sembrano momentaneamente sospese le guerre condominiali nella destra italiana che ci hanno dilettato sotto l'ombrellone. In assenza dei peones alla Camera, l'estate ha visto lo scatenarsi degli gli inquilini dei tricamere (con Servizi?). In origine doveva essere la Casa della Libertà, ma si é capito che è diventata presto la libertà di farsi una casa.

La rissa interna a quello che sembrava solo un progetto politico, ma pare sia diventato anche un grande progetto immobiliare, ha visto infatti nel reciproco rinfacciarsi di operazioni dubbie sulle reciproche residenze, il diritto di cittadinanza della destra più sgangherata e pericolosa mai esistita in Italia. Ad aprire le danze fu Scajola. La sua casa romana, da dove - a insaputa dell’ex-ministro -.è possibile ammirare un notevole scorcio di Colosseo, venne acquistata dal rais di Imperia per una somma con la quale ci compra un bicamere in periferia.

Ma, certamente sempre a sua insaputa, si trovò proprietario di ben altra magione in ben altro quartiere. Sapeva, certo, di abitare in una bella casa nel centro della Capitale, ma non sapeva che qualcuno, per lui, l’aveva pagata. Alla storiella non ha creduto nessuno e Scajola dovette dimettersi; un habituè del gesto, si potrebbe dire, visto che ha reiterato l’uscita anticipata dal gabinetto di governo per la seconda volta nella sua carriera politica. Ormai Scajola lo sa: va al Quirinale in gruppo la prima volta per giurare, ma poi ci torna da solo con le dimissioni.

A Scajola seguirono altri impomatati esponenti della nomenclatura del predellino e dei compari di complemento, stavolta beneficiati direttamente da Propaganda Fide, ente cattolico di assistenza che, effettivamente, non poteva tirarsi indietro di fronte alle esigenze abitative di chi, quotidianamente, cerca di compiacerli legislativamente e dei di loro amici. E via con case bellissime negli angoli più belli di Roma, tutte affittate a prezzi di saldo. Per intenderci: su quelle proprietà il Vaticano non paga ICI e non versa imposte sulle pigioni percepite. Dev’essere per questo che è così generoso con i bisognosi.

Venne quindi il turno di Fini, che è stato coinvolto dai suoi ex-camerati, nell’intreccio della compravendita di un appartamento a Montecarlo. Detto appartamento, ereditato da Alleanza Nazionale, venne venduto ad una società con la quale - oltre ogni ragionevole dubbio - il di Fini cognato, tale Tulliani, giovanotto ambizioso e un tantino rapace, intrattiene stretti rapporti. Al punto che, la stessa società che acquisì l’appartamento, ha ritenuto di doverglielo successivamente affittare. Cosa se ne fa di un’appartamento in affitto a Montecarlo il Tulliani? Niente, per questo lo affitta. Sarebbe più comprensibile se fosse il suo, ma lui, come detto, è in affitto.

Pare che il Tulliani cognato avrebbe ottenuto l’affitto dell’appartamento in questione come premio per la sua mediazione nell’acquisto dello stesso dal tesoriere di AN, così implicando Fini oltre ogni sua eventuale responsabilità nella partita di giro del mattone. Lui però smentisce. Ma alcune domande, certo, andrebbero poste: come mai su sei miliardi di abitanti del pianeta proprio il cognato di Fini tratta una compravendita di una casa appartenente alle proprietà di AN? Come avrebbe potuto sapere dell’appartamento se qualcuno della cupola di AN non l’avesse informato della sua esistenza? E come mai lui, che nella vita svolge tante attività, ma non quella di mediatore (tantomeno immobiliare), lo diventa per l’occasione?

Ma, alla fine, la cosa c’interessa poco. Il tesoretto degli ex-camerati, ove che fosse allocato, non era nelle disponibilità del patrimonio pubblico e lo stesso Presidente della Camera - ammesso che fosse direttamente coinvolto nella vicenda - non pare comunque in conflitto d’interessi con la sua funzione istituzionale. Il Giornale ha tentato in ogni modo, soprattutto con la fantasia livorosa, di coinvolgere l’ormai ex-numero due del PDL. Essendo di proprietà del fratello del Premier, cerca di svolgere al meglio il suo ruolo. Berlusconi del resto, non da oggi, usa come una clava sui suoi avversari politici dossier, ricatti e il giornale di suo fratello.

Successivamente viene messo alla berlina il mutuo spaventoso acceso dal Vice-ministro Urso (ventimila Euro al mese) per pagarsi un’altra magione di pregio a Roma. Urso, autorevole esponente del pensatoio finiano, annuncia querele a Feltri, ribadendo come sia una sua insindacabile scelta quella di pagare un mutuo così pesante. Effettivamente, difficile dargli torto: se dispone di cifre così cospicue, le spendesse pure come vuole.

Ma la madre di tutte le case, neanche a dirlo, resta la villa di Arcore, acquisita de Berlusconi in modo perlomeno spregiudicato e a un terzo del suo valore, ci mancherebbe altro. L’operazione venne gestita da Cesare Previti e questo, da solo, già significa molto. Rimarrà forse alla ex-moglie o, prima o poi, come per il Giornale, l’intesterà al fratello. Morale? Ognuno ha i suoi ex-colonnelli, i suoi fratelli e anche i suoi cognati. Dev’essere questo il senso profondo della difesa dei valori della famiglia.

 

di Rosa Ana De Santis

I loro campi, avvinghiati come rovi sotto i ponti, rappresentano un problema grande e irrisolto. Le pessime condizioni igienico–sanitarie in cui vivacchiano non sono considerate tollerabili, soprattutto se le dimore in lamiera sono la loro casa permanente e non una roulotte di passaggio. Hanno cambiato volto gli zingari in Europa e i gitani non girano più. Qui inizia la seria difficoltà di convivenza tra le nostre città e i loro insediamenti. Qui inizia il tema della legalità, del sostentamento, dell’integrazione.

Argomenti spesso elementarizzati fino a diventare soltanto dicotomia tra sicurezza e buonismo filantropico. Ma il problema rimane lì, diviso tra un candidato e un altro e rimandato sine die. Fintanto che la candela abbandonata nella baracca non brucia il corpo di un bambino. E’ accaduto così al piccolo Marius il 28 agosto scorso. Allora il conforto e la pena invitano a riflettere sui diritti dei cittadini gitani. Così il diritto nasce solo sull’onda delle lacrime e mai come condizione preliminare del ragionamento politico. Un fallimento assicurato.

Questi cittadini infatti sono invisibili come fantasmi fintanto che non muoiono nei campi fatiscenti o non vengono cacciati dai confini. A questo proposito la scelta del governo francese sulla cacciata indiscriminata ha suscitato obiezioni da più fronti ed ha soprattutto inficiato in modo solenne la tutela prevista e inclusa nel concetto stesso di cittadinanza comunitaria. Come se l’essere rom rimandasse a una categoria speciale della cittadinanza, o piuttosto a un’appartenenza prioritaria e non complementare rispetto al criterio della nazionalità. Eppure i gitani non sono tutti uguali e sono al tempo stesso cittadini europei. L’accusa d’illegalità, che li avvolge tutti, va comprovata e da sola non basta ad alcuna restrizione dei loro diritti. Quello che Sarkozy ha dimenticato e che è ricaduto indistintamente su tutti. Bambini delle lacrime compresi.

Tentativi analoghi di pulizia sono in corso nella città di Roma. Nelle aree di degrado in cui vivono i nomadi, il sindaco Alemanno annuncia una grande opera di bonifica che, per ora, lascia a piedi più di mille rom e sinti, nonostante il censimento richiesto dallo stesso Comune per valutare la capacità del piano di accoglienza. Il discrimine, secondo Alemanno, sarà quello del sostentamento. Chi lavora resta, gli altri a casa. Ma quanti zingari pensiamo di veder assunti come domestici o come lavoratori nelle nostre efficienti città? Se persino i bambini nelle classi non sono tollerati granché dalle famiglie italiane?

Il circolo vizioso del pregiudizio è il primo impedimento alla piena integrazione. E il criterio dell’illegalità, che sembra una conseguenza del ragionamento, ne è invece la pregiudiziale premessa. Certo che non tutti i nomadi lavorano il rame e fanno i giostrai. Ma è la giustizia che deve fare il suo corso e la pena non è la cacciata di tutti per educarne uno, come si sarebbe detto in altri tempi. La scorciatoia invocata è ricca d’insidie.

A meno che il Ministro Maroni non sia pronto a cacciare tutti i falsi invalidi italiani, tutti quelli che vivono grazie alle mafie o che non esistono per il fisco italiano. Anche questi rubano diritti e alimentano la criminalità, ma non vivono tra fuochi e bagni chimici. Se li tolleriamo perché sono nati italiani, allora dovremo come minimo tollerare tutti i gitani che sono nati in Italia. Ma proprio tutti, senza pensare di cacciarne uno. A qualsiasi condizione e senza arringhe sulla sicurezza dei nostri cittadini.

Per parlare di fine del degrado dei campi abusivi e di reale aiuto umanitario per l’integrazione di questi cittadini disagiati, non c’è bisogno di scomodare la bontà. Basterebbe chiedersi dove siano finiti i 15 milioni di Euro dati dall’Europa all’Italia proprio per intervenire in modo speciale sull’integrazione dei rom. Fu proprio il Ministro Frattini, all’inizio del suo mandato, ad annunciare che per la prima volta l’Italia avrebbe avuto accesso a questi importanti fondi. Vanno aggiunti poi i fondi per i rimpatri dei migranti.

Finora si sono viste le operazioni di sgombero fatte nelle grandi città italiane che poco hanno avuto a che vedere con i campi abusivi e tantomeno con interventi di integrazione. Il gruppo Everyone, impegnato nella cooperazione internazionale, chiede di aprire un’inchiesta sul buco nero degli aiuti europei dati all’Italia o di esaminare i numeri in modo trasparente. Si va verso la pulizia etnica delle nostre città, altro che integrazione. Questo sembra. E ci si va con i soldi dell’integrazione in tasca. Anche questo sembra.

 

 

di Ilvio Pannullo

Che il governo non navighi in acque tranquille non è certo una notizia: dall’ormai celebre “faccia a faccia” consumatosi tra la seconda e la terza carica dello Stato con tanto di dito puntato al cuore del berlusconismo, quel culto del leader che tanto male ha fatto all’Italia, si procede a vista attenti ogni giorno a cogliere gli umori delle due fazioni interne alla maggioranza. È in questo quadro che s’inserisce l’ennesima provocazione di Generazione Italia, l’associazione fondata dal finiano Italo Bocchino e che vede nel comitato nazionale tutto il gruppo di Futuro e Libertà, recentemente costituitosi in Parlamento.

Sul sito del think tank megafono del Presidente della Camera Fini campeggia il simbolo di una stella rossa a cinque punte con una falce e martello sovraimpressa sul simbolo del Pdl. Il titolo dell’articolo in home page è: “Gli squadristi della libertà preparano la contestazione a Fini”. Giocando intelligentemente d’anticipo Bocchino, Granata e soci puntano a disinnescare la trappola pensata e tagliata su misura per minare la credibilità pubblica del loro comandante. E i toni sono adeguati alla gravità della situazione.

L’articolo attacca così: “Se mai servisse una conferma della deriva sinistrorsa/comunistoide del Pdl, ecco a voi l’ennesima conferma. Stamane riceviamo una telefonata: un nostro amico napoletano - si legge nell’articolo - ci informa che è stato contattato da un consigliere provinciale del Pdl che gli ha fatto una richiesta particolare. Choc, aggiungiamo noi. ‘Stiamo organizzando con la Brambilla una contestazione a Fini quando parlerà a Mirabello. Riesci a riempirmi un pullman? E’ tutto a spese del partito”. Si legge ancora nell’online: “Gli daranno anche il panino, in puro stile Cgil e magari anche un libretto rosso con tutte le istruzioni per contestare il nemico del popolo.

Siamo davvero arrivati a un punto bassissimo: il ministro del Turismo, invece di organizzare pullman di turisti stranieri alla volta della Provincia di Ferrara, nella magnifica Terra degli Estensi, perde tempo a organizzare pullman di squadristi della Libertà (?!?) per contestare la terza carica dello Stato. D’altronde, cosa potevamo attenderci da un ministro del Turismo che trascorre le proprie vacanze in Francia? Siamo alle comiche finali. E questa volta per davvero”.

Ovviamente scoppiata la bomba non poteva mancare l’immediata ed inutile smentita in pieno stile berlusconiano - dopotutto è pur sempre una sua pupilla - del Ministro Brambilla che ha dichiarato: “Simili meschini attacchi testimoniano solo la pochezza e la scarsità di contenuti politici di chi li compie” e aggiunge “ho già dato mandato ai miei legali di procedere nei confronti di chi ha formulato tali contenuti diffamatori e di chi eventualmente ne darà diffusione”.

La temperatura si alza e la controreplica non si fa attendere. A stretto giro arrivano le dichiarazioni del deputato Fabio Granata, che per essere sicuro di andare a segno rilascia alle agenzie un commento sulla norma in discussione del processo breve, la vera ossessione del Premier senza la quale rischierebbe di venire addirittura processato come un normale cittadino per i reati da lui commessi fuori dall’esercizio delle sue funzioni: “Sul processo breve non accetteremo mai una norma retroattiva che sarebbe un’amnistia mascherata che cancellerebbe migliaia e migliaia di procedimenti in corso”.

Questa la dura presa di posizione, ai microfoni di Cnr media, del deputato del Fli. “E’ un tema questo - ha aggiunto Granata - molto delicato, su cui vogliamo discutere e abbiamo il diritto di discutere. Abbiamo il diritto e il dovere di portare avanti le nostre idee. Lo abbiamo fatto con la creazione dei gruppi parlamentari e con Generazione Italia. Agosto ha segnato delle divisioni molto nette. Se tutto questo si trasformerà in un partito dipende dalla nostra volontà, certamente, ma anche da come si evolverà la situazione politica”.

In un’altra intervista radiofonica, a Radio Radicale questa volta, Granata offre poi agli ascoltatori una calendarizzazione dell’ormai prossima crisi di governo. Parlando del 16 di settembre, giorno in cui il collegio dei probiviri del Pdl dovrebbe discutere l’espulsione dello stesso Granata, di Briguglio e di Bocchino, dichiara: “Non siamo molto preoccupati della riunione dei probiviri, perché non riteniamo possibile che un grande partito possa mettere sotto processo qualcuno perché ha espresso delle opinioni. La questione vera è legata innanzitutto all’espulsione sostanziale di Gianfranco Fini dal partito che ha co-fondato. Quella è una questione dirimente, e poi c’è la nostra questione”. Insomma il solido squallido teatrino della politica italiana con personaggi decotti privi di una vera credibilità politica da spendere per accreditarsi presso i cittadini.

Bandiere come quella della legalità, infatti, non possono essere sventolate da tutti. Specialmente da chi nei momenti decisivi è sempre stato assente, come dimostrano le quasi quaranta (!) leggi ad personam votate dai redenti finiani, ora riabilitati come difensori delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana. Tutto appare opaco, falso, immaginato e studiato per le esigenze televisive.

I media hanno infatti imposto alla politica del nostro paese non solo il linguaggio, lo stile, ma anche le regole e i modelli di organizzazione. Infine, come colpo di grazia, gli attori. Dai partiti di massa, ideologici, organizzati sul territorio, si è passati a partiti senza società, organizzati al centro e inesistenti in periferia. Ma, soprattutto, personalizzati, influenzati dalle logiche della comunicazione e del marketing. Perché è questo che ciò fanno, è questo il loro lavoro: vendono idee, spacciano opinioni non certo perché ci credono, ma perché in un dato momento “tirano”.

Il tutto per strappare il voto di qualche cittadino, magari telespettatore e sicuramente dotato di scarsa memoria. Volano gli stracci e si scannano su tutto, si grida al tradimento salvo che poi non cambia mai nulla. Come altrimenti spiegare, capire, descrivere, la struttura oligarchica della democrazia nel nostro paese in apparenza sempre uguale a se stesso, cioè apparentemente democratico?  

di Fabrizio Casari

Lui ci ha messo il folklore, altri i baciamano, altri ancora grida manzoniane. Ma cosa fosse più fuori luogo in questo variopinto menù che ha fatto da sfondo alla visita di Moammar Gheddafi a Roma, è difficile dirlo. Chi invece da questa due giorni romana ha ottenuto quello che voleva, è stato certamente il leader libico. Che qualcuno ora definisce un satrapo, mentre anni addietro lo si definiva un pazzoide. Ma che, dal 1 settembre del 1969, governa ininterrottamente la Libia.

La visita ha definitivamente sancito lo sdoganamento libico nell'arena europea e, affinché il concetto sia ancor più chiaro, le proposte di accordi commerciali e politici avanzate dal Colonnello sono di rilievo tutt’altro che trascurabile. Mettono fine alla politica italiana delle fumose concessioni e di qualche regalìa presentate in passato come risarcimenti per gli orrori dell’epoca coloniale. Risarcimenti che, pure, sarebbero dovuti; é bene leggere quanto ha scritto Del Boca sul genocidio italiano in Libia, se ci si vuole proprio vergognare di qualcosa.

Sul fronte degli affari, la Libia offre mercati, appalti e commesse per la modernizzazione del paese e, come in qualunque contesto, se le relazioni politiche e commerciali sono positive, più semplice sarà aggiudicarsi i lavori. D’altra parte, la stessa Libia partecipa ormai in forma contundente in alcuni grandi asset dell’economia e della finanza italiana, nonostante le proteste padane. Dunque, per quanto la parata di padroncini e AD delle principali aziende italiane possa essere risultata poco bella a vedersi, essa è solo la versione mediatizzata e pubblica di quanto di solito avviene nei palazzi governativi esteri e, prima ancora, nelle rispettive ambasciate, che preparano modalità e contenuti delle missioni commerciali all’estero.

Che alcuni paesi europei abbiano storto la bocca e che gli stessi Stati Uniti non vedano di buon occhio il protagonismo italiano negli affari con Tripoli, non è una novità. Ci sono solo due possibili letture per interpretare il fenomeno: quella ingenua, che ritiene che la disapprovazione sia causata da autentico sdegno ideologico, politico o religioso, oppure quella un po’ più smaliziata e cinica, ma molto più verosimile, che inserisce i riferiti dissensi occidentali nella pura competizione sui mercati.

Giova ricordare, peraltro, che gli Usa che minacciavano l’Italia quando manteneva rapporti con Tripoli sotto embargo Onu, erano il paese che, insieme alla Francia, accumulava contratti commerciali con società libiche attraverso giochetti di scatole cinesi che, come d’incanto, trasformavano società statunitensi in società canadesi o lussemburghesi. E gli stessi spagnoli, con la Repsol in particolare, non si lasciavano sfuggire lauti affari con la Libia mentre le sanzioni contro Tripoli venivano ulteriormente rinforzate anche con il voto di Madrid. Business is business, certo, ma predicare in un modo e razzolare nell’altro non assegna patenti di coerenza a chi lo fa e obbligo di condivisione per chi ascolta.

D’altra parte, ogni qualvolta la politica estera italiana ha assunto un’iniziativa che non sia la mera applicazione del dettato statunitense, si è sempre assistito a polemiche e scontri. Da Mattei ad Andreotti, passando per la gestione del nostro contingente militare in Libano nei primi anni ’80 e al Craxi di Sigonella, da sempre l’Italia viene criticata aspramente appena tenta di intrecciare relazioni politiche, diplomatiche e commerciali con i paesi del Mediterraneo come espressioni di un’autonoma politica estera. Così avvenne con la Libia quando Andreotti si recava sotto la tenda del Colonnello o con l’Iran, quando il governo Prodi inviò Dini per primo a Teheran.

E così avvenne (in forme meno sfacciate ma concretissime) quando il secondo Governo Prodi, su iniziativa di Massimo D’Alema, svolse una funzione straordinaria di mediazione sulla guerra in Libano. Molti ricorderanno D’Alema sottobraccio con esponenti di Hezbollah e le polemiche che ne seguirono; molti, ma non tutti: tra i dimenticatori a tempo determinato ci sono molti adepti del predellino che allora criticavano l’ex Ministro degli Esteri per aver incontrato Hezbollah, e ora sono in fila indiana a cercarsi uno spazio per la foto con Gheddafi e Berlusconi. Dunque ben vengano accordi per forniture e appalti in Libia. La condizione delle nostre imprese, soprattutto dal punto di vista dell'occupazione, non consente ironie o sottovalutazioni.

Certo, la kermesse delle fanciulle in ascolto (arruolate per 80 Euro al giorno) degli inviti all’islamizzazione non sono spettacolo consueto; ma qui, appunto, siamo nel folklore di un copione ad uso e consumo dell’ego del Rais libico. Peraltro, andrebbe ricordato a chi teme un'improbabile islamizzazione via Tripoli, che proprio Gheddafi detiene il record dell’impiccagione dei fondamentalisti islamici. La Libia, infatti, nel corso degli anni ha stabilito una regola chiara: la religione si occupi delle anime, che il governo si preoccupa della cosa pubblica; quando l’integralismo religioso ha cercato una via per fare politica, la risposta é stata durissima.

E’ semmai proprio sul terreno dei diritti umani che la guardia non può essere abbassata. E qui ci si riferisce alla politica repressiva verso i flussi migratori che spostano colonne di disperati dall’Africa verso l’Europa. Senza tanti infingimenti, Gheddafi ha ricordato che il problema è del vecchio Continente, non il suo. E che quindi, se si vuole che la Libia svolga un ruolo da secondino dell’immensa prigione di miseria che si muove tra i due continenti, si sappia che non è disposta a farlo gratis. Del resto - afferma Tripoli - le politiche di governo dei flussi migratori di Italia, Francia, Spagna, non prevedono forse il respingimento alle frontiere?

Su questo, allora, sarebbe bene esser chiari. Quello che fa la Libia è indegno di un paese civile, è insopportabile per chiunque non abbia cuore e mente offuscati. La repressione nei confronti di migliaia di esseri umani che cercano con ogni mezzo di arrivare in Europa è al di fuori e contro qualunque norma internazionale. I suoi campi di detenzione somigliano maledettamente a dei lager.

Ma Gheddafi agisce per proprio conto o per conto dei governi europei che glielo chiedono? Beh, difficile avere dubbi in proposito. Se si vuole dunque scegliere un terreno di relazione franca e diretta con Tripoli, la questione della gestione dell’immigrazione nel rispetto dei principi più elementari dei diritti umani non può risultare una variabile secondaria nel rapporto tra Roma (e l’Europa in generale) e la Libia.

Siamo abbastanza certi, però di non aver colto né nei colloqui governativi, né tanto meno in quelli d’affari, il benché minimo cenno al riguardo. Sarebbe invece il caso di proporre - e non solo con la Libia - una clausola etica e sociale sui diritti umani come precondizione per ogni qual si voglia rapporto bilaterale. Anche solo per non fare la figura barbina di chi impone a Cuba una ridicola “posizione comune Ue” per l’arresto di qualche decina di mercenari, mentre consente invece a Pechino e a Tripoli, all’Indonesia e a tanti altri dittatorelli in Africa, di firmare contratti con mani sporche di sangue.

 


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