di Mariavittoria Orsolato

Una volta si diceva che le donne, in quanto tali, non vanno toccate neanche con un fiore. A ribaltare completamente questa vecchia, ma fondamentale massima, ci ha pensato la Corte di Cassazione, che con una sentenza ha stabilito la non punibilità delle molestie di genere nel caso in cui la donna abbia un carattere forte ed un piglio volitivo. L’antefatto si spiega brevemente: a seguito delle ripetute denuncie della moglie, Sandro F., un quarantacinquenne di Livigno, nel settembre 2005 era stato condannato in primo grado dal tribunale di Sondrio.

Anche la Corte d’Appello di Milano, nell'ottobre 2007, lo aveva ritenuto colpevole di maltrattamenti ai danni della moglie Roberta B., condannandolo a 8 mesi di reclusione con le attenuanti generiche. Stando alla sentenza milanese la colpevolezza dell’uomo era “provata sulla base di sue stesse ammissioni, anche se parziali, e sulla testimonianza di medici, conoscenti e certificati medici, da cui si ricava una condotta abituale di sopraffazioni, violenze e offese umilianti, lesive della integrità fisica e morale della moglie” per tre anni sottoposta ad ingiurie, minacce e percosse da parte del marito.

Ma Sandro è convinto del fatto suo e sfida il terzo grado di giudizio, sostenendo dinanzi alla Suprema Corte che la sua condotta non implicava il maltrattamento, in quanto la moglie “non era per nulla intimorita” dal comportamento del coniuge, ma solo “scossa, esasperata, molto carica emotivamente”. I giudici della Cassazione, a sorpresa, accolgono le istanze del marito, annullando le sentenze precedenti e stabilendo, con la sentenza 25138, che non si può considerare come “condotta vessatoria” l’atteggiamento aggressivo non caratterizzato da abitualità. “I fatti incriminati in questa vicenda - prosegue la Cassazione - appaiono risolversi in alcuni limitati episodi di ingiurie, minacce e percosse nell’arco di tre anni (per i quali la moglie ha rimesso la querela), che non rendono di per sé integrato il connotato di abitualità della condotta di sopraffazione”. L’accusa di conseguenza cade, in quanto il fatto non sussiste.

Il pronunciamento della Cassazione non può però essere più intempestivo. Solo questa settimana la cronaca ha portato alla ribalta almeno 6 ginocidi commessi da ex fidanzati o mariti, l’ultima in ordine una ragazza di 20 anni rea di aver scaricato il fidanzatino: un colpo in testa e un macabro biglietto con su scritto “solo così possiamo stare insieme”. Di “uomini che odiano le donne” ce ne sono quindi ancora molti e nella sua funzione di fonte giurisprudenziale, la sentenza della Cassazione - basata sull’assurdo concetto che la tempra caratteriale possa agire, anzi agisca automaticamente, da scudo contro le sopraffazioni dell’altro sesso - rischia di legittimare in una certa misura quell’atteggiamento machista che identifica le donne come esseri inferiori; oggetti cui il partner, prima che ispirare amore, deve ispirare timore reverenziale e desiderio di sottomissione.

Questa deprecabile condotta non può però essere ridotta al solo disagio psichico del carnefice o alle dinamiche di relazione che, caso per caso, emergono nelle indagini dei magistrati: l’innegabile misoginia che riscontriamo sempre più spesso nelle pagine di nera e, ahinoi, di politica, ha radici ben più profonde, che corrispondono ad una situazione politica e culturale con una precisa fisionomia.

Se in Italia esistono fenomeni come il “velinismo” e si producono documentari di denuncia come “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardo, significa che la questione della discriminazione di genere è tutt’altro che retorica veterofemminista. Esistono però anche mirabili esempi d’intellettuali (maschi of course) che ancora nel 2010 fanno proseliti sul “vittimismo” del genere femminile.

Poco meno di due mesi fa Massimo Fini, riciclando alla bell’e meglio un suo precedente pezzo uscito su Il Sole 24 ore, pubblicava sul blog del Il Fatto Quotidiano una tirata di 30 righe dal titolo “Donne, guaio senza soluzione”. Un compendio di bassezze da bar in cui spiccava il monito a guardarsi da quelle che, nel contesto di una “carrieruccia da segretaria”, se ne vanno “sculando in mini, ma se in ufficio le fai una innocente carezza sui capelli è già molestia e se le chiami due volte sul cellulare è già stalking”.

E’ proprio all’interno di questa poverissima filosofia - quella che riciclando il Nietsche meno brillante vuole la donna provocatrice “dionisiaca, orgiastica e baccante” - che il germe dell’odio e della violenza attecchisce senza difficoltà e produce comportamenti lesivi della dignità come quelli che la Cassazione ha deciso di dichiarare non sussistenti al reato. Certo, nella sua evoluzione sociale e lavorativa la donna ha indurito il suo carattere, cercando di impermeabilizzarsi rispetto al contesto sopracitato; ha cercato, magari sbagliando a volte, di conformarsi alla biosfera testosteronica per essere apprezzata in base alle proprie qualità.

La sentenza 25318 va però oltre questa dissumulata parità dei sessi e, sancendo che la molestia verso una donna non è punibile nella misura in cui quest’ultima mostri di “avere le palle”, implica tacitamente che la violenza non è punibile in quanto tale, ma va commisurata in base alla resistenza della vittima. Non c’è dubbio che questo rappresenti un enorme passo indietro rispetto alle acquisizioni sui diritti umani; diritti che, in seno alla loro aggettivazione, non hanno cromosomi.

 

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