di Carlo Musilli

La guerra contro la Libia è certamente una tragedia. Lo è per il costo alto di vite umane e d’infrastrutture del paese e, prima ancora, per l’assassinio della sua sovranità nazionale. Che Gheddafi fosse da cacciare è vero, come è vero che avrebbero dovuto deciderlo in Libia e non a Bruxelles o New York. Ma che la fine del suo regno familiare dovesse avvenire in conseguenza della distruzione del suo paese e del ritorno delle sue ricchezze al colonialismo europeo, però, andava decisamente evitato. Ma nella tragedia, spesso, emerge anche il suo lato farsesco e, dunque, non si può non parlare del ruolo dell’Italia.

Berlusconi appare nelle foto ufficiali tra gli altri potenti del mondo, ma è l’unico momento di condivisione di questi ultimi con lui. Avrebbe potuto a ben ragione proporre una mediazione italiana per il conflitto e, anche dove si fosse rivelata impraticabile, avrebbe comunque potuto pretendere un ruolo italiano di primo livello nel decidere l’applicazione della risoluzione Onu nello spirito e nella lettera della stessa. Infine, avrebbe potuto pretendere, visto il ruolo del nostro Paese, un ruolo di direzione anche nella definizione delle strategie militari e politiche da applicare.

Invece, sottotono e sotto schiaffo per la sua immagine personale, è stato, semplicemente, snobbato, messo nell’angolo. Nemmeno invitato al summit che ha deciso le linee operative dell’attacco. Perché per tutte le Cancellerie è ormai imbarazzante aver a che fare con un soggetto simile, privo di qualsiasi credibilità interna ed internazionale, al punto che persino il presidente cileno Pinera, nei giorni scorsi a Roma, ha tenuto soprattutto a prendere le distanze dal premier italiano.

D’altra parte, la credibilità del cavaliere è pari a quella del suo ormai ex-amico di Tripoli. Addirittura, Gheddafi si era trovato al centro di un’elaborazione di strategia politica per il controllo dei flussi migratori, cioè uno dei temi più importanti del presente e del futuro per la governance internazionale. Che poi il Colonnello abbia concordato sulla soluzione insieme alla destra italiana è solo parte della tragedia e della farsa: da un lato la dimensione criminogena del Rais, dall’altro un gruppo di pensatori difficili da collocare nella storia della cultura politica di questo secolo.

Ad ogni modo, ciò che appare evidente è che nella riconquista coloniale della Libia, il retroscena è rappresentato dalla retrocessione dell’Italia a ultima provincia dell’Impero. Che il nostro paese sia il dirimpettaio immediato, dunque il più soggetto alle reazioni libiche, non conta; che ne sia il principale partner commerciale, e dunque quello che vedrà più colpita la sua bilancia dei pagamenti in generale e per il suo fabbisogno energetico in particolare, nemmeno. Che sia il Paese dove prevedibilmente si rovescerà il peso del flusso migratorio in fuga dalla guerra, e che quindi pagherà in termini economici e sociali il costo più alto, conta ancora meno.

Di fronte a ciò, un Paese sovrano avrebbe fatto sentire la sua voce. Benchè imbelle politicamente, é fondamentale tatticamente e operativamente. Dal governo italiano, se così si può chiamare quello in carica, ci saremmo attesi almeno un sussulto di decenza, vista la pesantissima eredità storica fatta di guerra, occupazione coloniale e sterminio che l’Italia ha nei confronti della Libia. E invece, a cento anni di distanza dall’avventura coloniale fascista e della tragedia che essa rappresentò, eccoci di nuovo in guerra con la “quarta sponda”.

Ironia della sorte e pena della storia, un fascista c’era (Graziani) e un postfascista c’è (La Russa) a guidare, esaltati, le reciproche aggressioni. Il ministro sanbabilino, infatti, ha indossato il fez e si è lanciato, eccitatissimo, verso l’agognata esposizione mediatica. Lui e Frattini elargiscono ammonimenti e avvertenze, è il loro momento di gloria. Ma fa parte del folklore governativo, cioè la sua modalità politica unica. Semmai è la Lega ad avere, come avvenne per l’aggressione alla Serbia, più di qualche ragionevole dubbio.

Quello che però meriterebbe una riflessione è l’atteggiamento dell’opposizione, che scendeva in piazza contro la guerra in Irak e lancia ora grida di guerra contro la Libia. Dopo l’infelice esperienza dei Balcani, era lecito illudersi che il centrosinistra potesse avere un sussulto di argomentazioni e ragionamenti sul senso vero delle cosiddette “guerre umanitarie”. Evidentemente così non è.

Nemmeno la storia di Mattei e di Moro, o di Andreotti, di Craxi, Dini o lo stesso Prodi (non giganti della sovversione, insomma) ha avuto licenza nelle scelte del Pd. Quando l’orizzonte ideale è rappresentato dall’adesione alle politiche statunitensi e la storia della politica estera e delle relazioni internazionali italiane nel Mediterraneo e in Medio Oriente viene ignorata, ci si può solo interrogare sulle differenze possibili - oltre a quelle concernenti lo stile di governo - tra il berlusconismo e il vuoto assoluto del Pd. C’è poco da stare allegri.

 

di Rosa Ana De Santis

Era a Torino, il 17 marzo del 1861, che si riuniva il Primo Parlamento d’Italia e che quel mosaico di particolarismi, ridotto a brandelli da invasori e occupazioni, assumeva dignità di un paese unito. Oggi i 150 anni. Arriva la festa nazionale dopo le aspre polemiche di governo, dovute soprattutto a quelle camice verdi che continuano a fingersi federaliste e che hanno in cuore il veleno della secessione. Gli stessi che qualche giorno fa hanno preferito andare al bar piuttosto che cantare Mameli, abbandonando il Consiglio della Regione Lombardia. La stessa cosa che è successa anche in Emilia Romagna, nella seduta dell’Assemblea Legislativa.

E’ stato per bocca di un artista, maschera del cinema italiano, che siamo riusciti a sentire dalla tv di Stato, scandita con emozione ma in un filo di voce estraneo alle parate d’occasione, la bellezza di un inno spesso vituperato, il valore di una storia di liberazione che la storiografia, con eccesso di semplificazione, ha sempre tolto al popolo e ai giovani italiani e ha affidato unicamente al Conte di Cavour e alla mappa delle alleanze massoniche. E’ stato il Festival di Sanremo a rilanciare sulle prime pagine di giornali e Tg il Risorgimento e la sua importanza.

Segno tangibile di un imbarazzante silenzio delle Istituzioni. Un’assurdità tutta italiana che solo la mediazione della destra al governo con la Lega può rendere più comprensibile e per questo ancora più insopportabile. Grazie anche a questi tentennamenti di convenienza,  l’Italia si riempie a stento di tricolori. Cerimonie pubbliche, concerti, celebrazioni fin nei più piccoli comuni sembrano “commemorazioni dovute”, non partecipate. Nel Nord, in particolare in Veneto, il governatore Zaia, dopo l’iniziale dissociazione dalla festa nazionale, annuncia cerimonie striminzite, quasi obbligate e mal sopportate dal suo elettorato. Il calendario delle celebrazioni istituzionali scandito dal Comitato nato appositamente per il 150° attraversa tutto l’anno e tutto il paese. Un calendario appiccicato alla sua vita reale.

E’ un caso e una dolorosa combinazione che la celebrazione dell’unità nazionale capiti in un anno come questo. Lacerato da tensioni e contraddizioni: da un lato i volgarissimi scandali che hanno travolto le Istituzioni e che hanno abbassato profondamente il livello della politica nazionale e la stessa agenda di governo; dall’altro le altissime ambizioni riformatrici che vorrebbero invece arrivare alle radici della giovanissima storia italiana. Una polarità insidiosa, che pone un’ipoteca altissima sul corso dei prossimi eventi politici e che ha definitivamente tramortito il comune sentire degli italiani.

L’informazione quotidiana passa dalle fotografie delle prostitute dell’Olgettina alla riforma della giustizia, dai battibecchi tra il Presidente della Camera e il premier Berlusconi agli annunci sulla necessità di riformare la Costituzione e la giustizia. Come possa un paese tanto lacerato dall’alto affrontare e costruire passaggi storici così importanti è l’interrogativo rimosso, annacquato da chi, governo in testa, onorerà questa festa per dovere di retorica lasciando la società civile in una navigazione a vista, fatta di una rassegnazione senza precedenti nei riguardi del paese e delle sue sorti.

La dialettica politica è ormai priva di tensione e di passione, ruota intorno alle quisquilie del gossip e ai personalismi di turno. Persino sulla memoria dell’unità si è riusciti ad evitare di trattare questioni fondamentali, dando in pasto ai cittadini gli scarti della polemica sul giorno di vacanza e sui suoi costi. Miseria di un paese che non ha ancora capitalizzato il suo bagaglio di esperienza e la sua stessa storia di unità, così vicina nel tempo e così troppo giovane, contrariamente a quanto sembra. Così poco matura da rendere ancor più pericolose le spinte eversive di divisione, che oggi invece siedono in Parlamento votate a furor di popolo.

Questo doveva essere il primo impegno delle Istituzioni. Far tacere chi ha nostalgia dei regni antichi, fidandosi di quello che i padri del Risorgimento avevano capito 150 anni fa. Che valore ha una commemorazione senza memoria? L’unica Italia che tutti amiamo, senza divisioni e distinzioni, quella in cui ci riconosciamo immediatamente, è quella del passato e delle nostre eccellenze di arte e d’ intelletto. Lì sta tutto il nostro orgoglio nazionale, lì è annidato tutto l’amor di patria. Quello che esportiamo all’estero come un marchio e che sentiamo nel cuore al cospetto di tanti capolavori di bellezza creati dall’ingegno italiano.

E, almeno per questo, forse ci fa più male veder sprofondare Pompei che non la Lega che diserta l’Inno. E per questo oggi nessuno si stupisce se il Parlamento sembra diventata una provincia del Bagaglino. Né qualcuno di noi si rammarica di aver visto più tricolori appesi alle finestre per l’ultimo mondiale di calcio che non per la festa della nostra Patria.

 

 

di Rosa Ana De Santis

Torna alla Camera l’esame del disegno di legge sul testamento biologico. La votazione sarà ad aprile e il dibattito parlamentare torna ad animarsi di analisi e polemiche che, mai come in questo caso, rafforzano divisioni e conflitti morali, soprattutto in virtù del modo inadeguato con cui la politica italiana e le Istituzioni si misurano con le grandi questioni morali ed etiche. Il ddl Calabrò, il testo della maggioranza che il Sottosegretario Roccella ha definito una legge di libertà senza “derive eutanasiche”, ha conquistato quasi 600 emendamenti nel suo corso di dibattito parlamentare.

Il nodo centrale della questione, rivendicato dalle opposizioni, è introdurre nella dichiarazione anticipata di trattamento sanitario sulla fine della propria vita, la possibilità di rifiutare alimentazione e idratazione forzate che, anche alla persona meno erudita risultano essere, su un corpo inerte che versa in uno stato vegetativo persistente cronico, un accanimento inutile e senza speranza.

Ma il tema fondamentale, prima di essere di ordine medico-clinico, attiene ai diritti fondamentali individuali e alla libertà insopprimibile che ciascuno rivendica ed esercita sul proprio corpo e sulla propria esistenza. Quello che dovrebbe essere, così ci hanno insegnato a scuola, un assioma incontrovertibile di ogni democrazia liberale.

Ancora più caotica, ma utile all’analisi delle varie posizioni la terza via rutelliana, nata in corso di dibattito generale, che ribadisce come alimentazione e idratazione forzata siano sostegno vitale e non cure da poter sospendere, ma come - ed è questo il passaggio più degno di nota - nella fase terminale il medico e il fiduciario possano prevederne la sospensione. Un testo che lascia intravedere come persino nelle file di chi s’ispira esplicitamente alla tradizione religiosa di questo paese si avverta la necessità di adottare, se pur timidamente, un metodo laico e liberale di trattare le questioni etiche che riguardano la vita di tutti i cittadini.  Anche dei non credenti, si suppone.

Sugli argomenti vince però la propaganda e la retorica della vita ad ogni costo, l’interpretazione più oscurantista del cattolicesimo e, soprattutto, la pericolosissima idea che sul singolo e sulla sua volontà, anche quando costui prende decisioni che riguardano solo se stesso e che non hanno ricadute di danno o vantaggio per gli altri, sia un Autorità a dover decidere per lui o su di lui. Lo Stato diventa in questo modo uno Stato Etico, un alter ego della Chiesa che s’intromette nella vita individuale e codifica nella legge il modo in cui ciascuno è legittimato a morire, e quindi anche a vivere. Con tutte le implicazioni normative che la trasgressione della norma esige su medici e familiari coinvolti.

Il caso Englaro, che ha avuto il coraggio e il merito di sdoganare nel dibattito generale una questione sommersa di cui la politica si era sempre disinteressata, ha portato dai tribunali al Parlamento l’urgenza di legiferare sulla fine della vita, mostrando però come la politica arranchi su quello che, Costituzione alla mano, i tribunali hanno riconosciuto pienamente a Beppino Englaro. Questa la legge che desiderano le opposizioni e, molto probabilmente, la società civile: una legge semplice che riconosca ad ogni persona l’autorità di esprimere una scelta vincolante sulla propria vita che sia rispettata da medici, familiari e personale sanitario.

La violenza dell’imposizione covata dalla legge nasconde altro però, ancor più intollerabile dei suoi formali presupposti. Si tratta della finzione della cosiddetta “difesa della vita”, che nasconde obiettivi più spiccioli e più biechi. In primo luogo perché non è visibilmente questo il governo della rettitudine cattolica e dell’ortodossia morale, mentre siamo invece alle prese con un chiaro scambio che l’Esecutivo offre alla Chiesa per ottenere indulgenza plenaria per il Presidente del Consiglio.

Un perdono che pagheranno caro tutti i cittadini che non potranno mai più scegliere di rifiutare per anni un tubo naso gastrico infilato a forza nell’addome e una condizione di esistenza vegetale come quella di Eluana, che sarà semplicemente obbligatoria per tutti.

Tanto è vero questo che persino alcuni religiosi, soprattutto quelli che si sono scatenati contro i festini di Arcore e le indecenze erotiche e di corruttela del premier, mostrano più indulgenza e più riguardo per i cittadini e la loro comprensione del problema di quanto non siano la Roccella e i suoi fans, così  tanto accorati a difendere la vita e la dignità delle persone da aver accettato, con il famoso Milleproroghe, che i fondi destinati ai malati terminali oncologici e alle loro cure palliative servissero a pagare le multe del latte degli allevatori padani.

Questa la denuncia di fuoco che arriva dalla Vicepresidente dei deputati del PD, Rosa Villecco Calipari. A questo orrore, che toglie ogni credibilità al governo e ai suoi profeti della vita, dovrebbero rispondere i paladini del testo Calabrò ed i cattolici di ogni parte politica che lo hanno condiviso. Se c’era un valido argomento politico per impedire le derive eutanasiche e blindare il disegno di legge non doveva essere proprio questo? L’aiuto dello Stato a chi vive condizioni estreme di sofferenza cronica senza speranza?  Invece no. Si preferisce aiutare l’elettorato leghista e condannare i malati terminali a non poter decidere di morire e a rimanere in una condizione della quale lo Stato ora non ha i soldi di occuparsi. Un capolavoro di ributtante ipocrisia.

La stessa con la quale tutti fanno finta di non sapere che avviene già, in moltissime case e forse persino negli Hospice preposti, che le persone che soffrono vengano risparmiate al proseguo feroce dell’agonia e, con tanta morfina, vengano accompagnate a “morire dolcemente”, addormentandosi. Come si chiama quest’alleanza di pazienti, medici e familiari? Fine dell’accanimento terapeutico, suicidio assistito, eutanasia? O più semplicemente si chiama pietà? Quella sacra nobiltà dei sentimenti umani che la follia di questa legge sta togliendo ad ognuno di noi. Sanno tutti, governo in primis, che la loro legge non verrà applicata. Perché nella cittadinanza vissuta, nelle relazioni familiari esistenti, il baratto tra indulgenza primaria dei preti e amore per le persone non ha luogo, non può averne.

 

 

 

 

di Rosa Ana De Santis

La vicenda di Yara non è ancora conclusa. Proseguono a tappeto le indagini nel tormento di chi insegue la verità per dare giustizia al crimine orrendo di cui è rimasta vittima la piccola di Brembate, ma anche per sollevare la coscienza collettiva dall’incubo del mostro o forse del male assoluto. E’ in questo clima di silenzio e cautela, cui ci ha abituati proprio la famiglia di Yara nel modo composto e riservato con cui ha custodito una sofferenza insostenibile, che il governo mostra la sua faccia più volgare e imbarazzante.

E’ in questa atmosfera di sospensione, di panico e di domande, infatti, che la Santanchè, sempre lei, come ha ribadito la Procura di Bergamo, “ha perso l’ennesima occasione “per tacere”. Con totale assenza di pudore riesce a portare avanti la guerra ai magistrati in cui si è scatenata in tutte le recenti apparizioni televisive, a perorare la causa di Berlusconi, il suo datore di lavoro, utilizzando persino la morte di Yara e la caccia al suo predatore. Lo fa, guarda il caso, in una brillante intervista rilasciata al Giornale. Il quotidiano dove a turno le fanciulle di Silvio al governo si alternano in spassionate arringhe di difesa.

Sostiene il Sottosegretario all'Attuazione del Programma di Governo che se i magistrati avessero impiegato meno tempo e risorse per le indagini sull’Olgettina, avrebbero lavorato meglio sulla scomparsa di Yara. Ovvio che la retorica sofistica di questa propaganda accumula, una sull’altra, tesi ridicole e che un comportamento di questo tipo, destabilizzante per il paese intero oltre che mendace, andrebbe richiamato ufficialmente. Ma sia il Ministro dell’Interno che della Giustzia tacciono. E del resto sempre hanno taciuto, sia che si dovesse censurare i travestimenti da poliziotte delle fanciulle a pagamento del sultano, sia che si dovesse difendere la magistratura e la giustizia che, per mandato, si è tenuti a difendere.

Yara è stata uccisa la sera stessa del suo rapimento, proprio nel luogo in cui è stata ritrovata mesi dopo. Le ricerche, sostenute anche da tante persone della Protezione Civile, sono state massicce e a tappeto. Molti altri casi purtroppo hanno testimoniato come, per una manciata di metri, tanti corpi siano rimasti nascosti per tanto tempo. Dal ritrovamento del corpo ad oggi é stato prelevato il dna di almeno 40 persone indiziate e il cerchio si è stretto sempre di più intorno a chi Yara conosceva bene e alle persone di cui si fidava ciecamente.

Il fatto che le pagine di giornale tacciano sul corso delle indagini è la prova tangibile che la Procura sta lavorando e che ha bisogno di assoluto silenzio per procedere. Solo alla Santanchè sembrano in conflitto questo rapporto aritmetico tra una causa e l’altra, una Procura e l’altra, così come l’idea che non siano state impiegate risorse adeguate per l’indagine sul caso di Yara. Ignote le ragioni sulle quali il Sottosegretario botulinico fondi le sue pesantissime accuse alle autorità giudiziarie innescando un pericoloso scontro tra istituzioni, inopportuno soprattutto su questo caso, ma purtroppo in voga negli ultimi anni in Italia.

Nei giorni in cui il premier viene chiamato in aula sulle donne dei festini e la riforma della giustizia, (per tanti versi anche necessaria, ma forse non per quelli cui tiene l’utilizzatore finale) va avanti, è evidente la ragione spicciola e di convenienza politica che muove certe critiche e certe contestazioni: ha a che vedere direttamente con la corte di Silvio. Al punto che persino una pagina infernale di cronaca nera può diventare una buona occasione, emotiva e di assicurato audience, per strumentalizzare dolore e violenza, mostri e vittime in una confusione mentale e mediatica che offende e banalizza proprio l’uccisione di Yara, il suo corpo che attende ancora sepoltura e l’attesa di giustizia dei suoi familiari.

Gli unici che potranno esprimere giudizi, commenti e accuse se la giustizia non gli renderà giustizia. Gli unici che continuano ancora a non farlo, anche con quella scelta visibile e simbolica di togliere lettere e candele davanti al cancello di casa, spostandoli qualche metro più in là.

Come a non permettere al pubblico a casa di appropriarsi di quel dolore. Come per ribadirne tutta l’insopportabile e assoluta proprietà e per vietarne ogni spettacolo, figuriamoci quello della paladina di Silvio che accosta l’Olgettina e i guai del suo capo con la fine tremenda di Yara. Un parallelo indecente e facilmente smascherabile come propaganda della Santanchè per ingraziarsi meglio il Premier.

Il Sottosegretario in tacchi a spillo e gonna stretta assomiglia tanto, nella volgarità degli intenti, a quel Corona che è entrato di soppiatto come un ladro, solo qualche settimana fa, dalla finestra della cucina nella casa della mamma di Sarah, ad Avetrana. Corona lo fa per rubare quel dolore, succhiarlo come un vampiro e farne uno scoop accessibile a tutti. Lo fa per il suo conto in banca.

La Santanchè no. Non lo fa per soldi, né si scusa, come Corona ha dovuto fare. Lo fa per Silvio. Lo dice come rappresentante di governo che non bisognava indagare su di lui, ma su Yara”. Una dichiarazione d’amore per il capo che non conosce limite di vergogna, né di pietà. Nel caso di specie, la decenza sapevamo già essere fuori luogo.

di Mariavittoria Orsolato

“Libertà vuol dire avere la possibilità di educare i propri figli liberamente, e liberamente vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare principi che sono il contrario di quelli dei genitori”. Così parlò Berlusconi lo scorso 27 febbraio, smentendo come al solito il giorno seguente. Tanto è bastato per riaccendere gli animi degli operatori scolastici e degli studenti che, dopo l’approvazione definitiva della riforma Gelmini, torneranno in piazza il prossimo 12 marzo aggiungendo la loro istanza a quella della difesa della costituzione.

Mentre infatti la scuola pubblica agonizza sotto il tagli imposti dal nuovo corso, il Governo pensa ad istituzionalizzare il buono scuola per gli istituti privati. Dal 2000 - anno in cui venne creato ad hoc dal presidente della Lombardia Formigoni, per compiacere il suo elettorato cattolico - l’istituto del buono scuola per le famiglie degli studenti delle scuole private (cattoliche in maggioranza) ha conquistato anche Veneto, Emilia-Romagna, Friuli, Liguria, Toscana, Sicilia, Piemonte. Questo incentivo, pagato ovviamente anche da chi i figli li manda alla scuola pubblica, non è in realtà riuscito ad incidere sulle iscrizioni alle paritarie ma rimane un ottimo strumento politico per accattivarsi l’indulgenza del Vaticano.

Un’indulgenza più che mai necessaria dopo gli scandali del “bunga-bunga” e che, solo nel 2005, è costata al bilancio 500 milioni di euro. Se il buono scuola venisse esteso a tutto il territorio nazionale, servirebbero almeno tre riforme Gelmini per coprire il buco. Ma, come dicevamo, si tratta fortunatamente solo di becera propaganda.

Nel frattempo a Palazzo della Minerva si continua a limare sugli esuberi. La prossima ondata di tagli, prevista per l’anno scolastico 2011/2012, prevede 19.700 cattedre in meno e un esercito di professori di medie e superiori, circa 27.400, pensionati ma non sostituiti. Le regioni più colpite dalle nuove disposizioni saranno quelle meridionali e le isole, dove per il prossimo anno il Miur stima un calo nelle iscrizioni, ma secondo i calcoli del Ministero questo repulisti servirà a ricollocare i 30.000 precari in attesa di una cattedra.

I toni di Maria Stella Gelmini sono ottimisti, il ministro parla di “saldo in positivo” ma per quanto riguarda il personale tecnico e amministrativo c’è un bel segno meno per 14.000 dipendenti. Stessa sorte tocca ai supplenti, i docenti meno tutelati, che in soli due anni - dal 2008 al 2010 - hanno visto svanire ben 25.000 contratti. D’altronde il budget stanziato dal Tesoro nella finanziaria si è assottigliato ulteriormente, passando da 186 milioni di euro del 2008 a 127 milioni per il 2010.

A questo desolante panorama si aggiunga che nel biennio attuativo della riforma le classi di elementari, medie e superiori sono calate di 10.617 unità, con il risultato che in un’aula vengono stipati anche 30 o 35 ragazzi. Il tutto in barba alle norme di sicurezza e alla qualità della didattica, che per essere all’altezza del suo compito dovrebbe espletarsi in contesti molto meno dispersivi.

La crisi economica globale che, nelle motivazioni ufficiali, è alla base di questo colossale ridimensionamento dell’educazione pubblica, miete le sue vittime anche dopo che queste hanno chiuso i libri. Stando alle ultime rilevazioni di "Alma Laurea", sia i laureati “brevi” che quelli specialistici faticano sempre di più a trovare un contratto di lavoro: per i primi il tasso di disoccupazione è al 16,2%, mentre per i secondi il dato è ancor più paradossale, 17,7%.

Se infatti è vero che i laureati posseggono strumenti culturali e professionali più affinati per reagire ai mutamenti di mercato e società,  la realtà dei fatti vuole stipendi svalutati nel loro potere d’acquisto e contratti precari come routine. Nonostante l’istruzione superiore sia ormai alla portata di tutte le classi sociali, si perpetrano le disparità tra i ceti di provenienza, con il risultato che solo la rete di soci e clienti, vecchia di 2000 anni, riesce a dare reali speranze ai giovani neolaureati. Va da sé che a questa soluzione riescano ad accedere solo i cosiddetti “figli di”.

La pubblica istruzione in un regime democratico significa emancipazione, mobilità sociale e sicurezza. La pubblica istruzione italiana targata Gelmini ha deliberatamente scelto di abiurare questi tre obiettivi in nome di un pareggio di bilancio che, dopo l’uscita dei dati sul debito pubblico (+200 miliardi solo nel 2010), risulta essere semmai un miraggio. Anche per questo il mondo della scuola ha deciso di tornare nuovamente in piazza dopo i tre mesi di mobilitazione che hanno preceduto l’approvazione della nuova legge sull’università. Gli studenti e i docenti della penisola tengono a far sapere al premier, alla maggioranza e, perché no, anche al mondo cattolico, che la scuola pubblica non “inculca” ma educa. E lo fa nonostante il Ministero si ostini a volerla rendere un colabrodo.


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