di Rosa Ana De Santis

Torna alla Camera l’esame del disegno di legge sul testamento biologico. La votazione sarà ad aprile e il dibattito parlamentare torna ad animarsi di analisi e polemiche che, mai come in questo caso, rafforzano divisioni e conflitti morali, soprattutto in virtù del modo inadeguato con cui la politica italiana e le Istituzioni si misurano con le grandi questioni morali ed etiche. Il ddl Calabrò, il testo della maggioranza che il Sottosegretario Roccella ha definito una legge di libertà senza “derive eutanasiche”, ha conquistato quasi 600 emendamenti nel suo corso di dibattito parlamentare.

Il nodo centrale della questione, rivendicato dalle opposizioni, è introdurre nella dichiarazione anticipata di trattamento sanitario sulla fine della propria vita, la possibilità di rifiutare alimentazione e idratazione forzate che, anche alla persona meno erudita risultano essere, su un corpo inerte che versa in uno stato vegetativo persistente cronico, un accanimento inutile e senza speranza.

Ma il tema fondamentale, prima di essere di ordine medico-clinico, attiene ai diritti fondamentali individuali e alla libertà insopprimibile che ciascuno rivendica ed esercita sul proprio corpo e sulla propria esistenza. Quello che dovrebbe essere, così ci hanno insegnato a scuola, un assioma incontrovertibile di ogni democrazia liberale.

Ancora più caotica, ma utile all’analisi delle varie posizioni la terza via rutelliana, nata in corso di dibattito generale, che ribadisce come alimentazione e idratazione forzata siano sostegno vitale e non cure da poter sospendere, ma come - ed è questo il passaggio più degno di nota - nella fase terminale il medico e il fiduciario possano prevederne la sospensione. Un testo che lascia intravedere come persino nelle file di chi s’ispira esplicitamente alla tradizione religiosa di questo paese si avverta la necessità di adottare, se pur timidamente, un metodo laico e liberale di trattare le questioni etiche che riguardano la vita di tutti i cittadini.  Anche dei non credenti, si suppone.

Sugli argomenti vince però la propaganda e la retorica della vita ad ogni costo, l’interpretazione più oscurantista del cattolicesimo e, soprattutto, la pericolosissima idea che sul singolo e sulla sua volontà, anche quando costui prende decisioni che riguardano solo se stesso e che non hanno ricadute di danno o vantaggio per gli altri, sia un Autorità a dover decidere per lui o su di lui. Lo Stato diventa in questo modo uno Stato Etico, un alter ego della Chiesa che s’intromette nella vita individuale e codifica nella legge il modo in cui ciascuno è legittimato a morire, e quindi anche a vivere. Con tutte le implicazioni normative che la trasgressione della norma esige su medici e familiari coinvolti.

Il caso Englaro, che ha avuto il coraggio e il merito di sdoganare nel dibattito generale una questione sommersa di cui la politica si era sempre disinteressata, ha portato dai tribunali al Parlamento l’urgenza di legiferare sulla fine della vita, mostrando però come la politica arranchi su quello che, Costituzione alla mano, i tribunali hanno riconosciuto pienamente a Beppino Englaro. Questa la legge che desiderano le opposizioni e, molto probabilmente, la società civile: una legge semplice che riconosca ad ogni persona l’autorità di esprimere una scelta vincolante sulla propria vita che sia rispettata da medici, familiari e personale sanitario.

La violenza dell’imposizione covata dalla legge nasconde altro però, ancor più intollerabile dei suoi formali presupposti. Si tratta della finzione della cosiddetta “difesa della vita”, che nasconde obiettivi più spiccioli e più biechi. In primo luogo perché non è visibilmente questo il governo della rettitudine cattolica e dell’ortodossia morale, mentre siamo invece alle prese con un chiaro scambio che l’Esecutivo offre alla Chiesa per ottenere indulgenza plenaria per il Presidente del Consiglio.

Un perdono che pagheranno caro tutti i cittadini che non potranno mai più scegliere di rifiutare per anni un tubo naso gastrico infilato a forza nell’addome e una condizione di esistenza vegetale come quella di Eluana, che sarà semplicemente obbligatoria per tutti.

Tanto è vero questo che persino alcuni religiosi, soprattutto quelli che si sono scatenati contro i festini di Arcore e le indecenze erotiche e di corruttela del premier, mostrano più indulgenza e più riguardo per i cittadini e la loro comprensione del problema di quanto non siano la Roccella e i suoi fans, così  tanto accorati a difendere la vita e la dignità delle persone da aver accettato, con il famoso Milleproroghe, che i fondi destinati ai malati terminali oncologici e alle loro cure palliative servissero a pagare le multe del latte degli allevatori padani.

Questa la denuncia di fuoco che arriva dalla Vicepresidente dei deputati del PD, Rosa Villecco Calipari. A questo orrore, che toglie ogni credibilità al governo e ai suoi profeti della vita, dovrebbero rispondere i paladini del testo Calabrò ed i cattolici di ogni parte politica che lo hanno condiviso. Se c’era un valido argomento politico per impedire le derive eutanasiche e blindare il disegno di legge non doveva essere proprio questo? L’aiuto dello Stato a chi vive condizioni estreme di sofferenza cronica senza speranza?  Invece no. Si preferisce aiutare l’elettorato leghista e condannare i malati terminali a non poter decidere di morire e a rimanere in una condizione della quale lo Stato ora non ha i soldi di occuparsi. Un capolavoro di ributtante ipocrisia.

La stessa con la quale tutti fanno finta di non sapere che avviene già, in moltissime case e forse persino negli Hospice preposti, che le persone che soffrono vengano risparmiate al proseguo feroce dell’agonia e, con tanta morfina, vengano accompagnate a “morire dolcemente”, addormentandosi. Come si chiama quest’alleanza di pazienti, medici e familiari? Fine dell’accanimento terapeutico, suicidio assistito, eutanasia? O più semplicemente si chiama pietà? Quella sacra nobiltà dei sentimenti umani che la follia di questa legge sta togliendo ad ognuno di noi. Sanno tutti, governo in primis, che la loro legge non verrà applicata. Perché nella cittadinanza vissuta, nelle relazioni familiari esistenti, il baratto tra indulgenza primaria dei preti e amore per le persone non ha luogo, non può averne.

 

 

 

 

di Rosa Ana De Santis

La vicenda di Yara non è ancora conclusa. Proseguono a tappeto le indagini nel tormento di chi insegue la verità per dare giustizia al crimine orrendo di cui è rimasta vittima la piccola di Brembate, ma anche per sollevare la coscienza collettiva dall’incubo del mostro o forse del male assoluto. E’ in questo clima di silenzio e cautela, cui ci ha abituati proprio la famiglia di Yara nel modo composto e riservato con cui ha custodito una sofferenza insostenibile, che il governo mostra la sua faccia più volgare e imbarazzante.

E’ in questa atmosfera di sospensione, di panico e di domande, infatti, che la Santanchè, sempre lei, come ha ribadito la Procura di Bergamo, “ha perso l’ennesima occasione “per tacere”. Con totale assenza di pudore riesce a portare avanti la guerra ai magistrati in cui si è scatenata in tutte le recenti apparizioni televisive, a perorare la causa di Berlusconi, il suo datore di lavoro, utilizzando persino la morte di Yara e la caccia al suo predatore. Lo fa, guarda il caso, in una brillante intervista rilasciata al Giornale. Il quotidiano dove a turno le fanciulle di Silvio al governo si alternano in spassionate arringhe di difesa.

Sostiene il Sottosegretario all'Attuazione del Programma di Governo che se i magistrati avessero impiegato meno tempo e risorse per le indagini sull’Olgettina, avrebbero lavorato meglio sulla scomparsa di Yara. Ovvio che la retorica sofistica di questa propaganda accumula, una sull’altra, tesi ridicole e che un comportamento di questo tipo, destabilizzante per il paese intero oltre che mendace, andrebbe richiamato ufficialmente. Ma sia il Ministro dell’Interno che della Giustzia tacciono. E del resto sempre hanno taciuto, sia che si dovesse censurare i travestimenti da poliziotte delle fanciulle a pagamento del sultano, sia che si dovesse difendere la magistratura e la giustizia che, per mandato, si è tenuti a difendere.

Yara è stata uccisa la sera stessa del suo rapimento, proprio nel luogo in cui è stata ritrovata mesi dopo. Le ricerche, sostenute anche da tante persone della Protezione Civile, sono state massicce e a tappeto. Molti altri casi purtroppo hanno testimoniato come, per una manciata di metri, tanti corpi siano rimasti nascosti per tanto tempo. Dal ritrovamento del corpo ad oggi é stato prelevato il dna di almeno 40 persone indiziate e il cerchio si è stretto sempre di più intorno a chi Yara conosceva bene e alle persone di cui si fidava ciecamente.

Il fatto che le pagine di giornale tacciano sul corso delle indagini è la prova tangibile che la Procura sta lavorando e che ha bisogno di assoluto silenzio per procedere. Solo alla Santanchè sembrano in conflitto questo rapporto aritmetico tra una causa e l’altra, una Procura e l’altra, così come l’idea che non siano state impiegate risorse adeguate per l’indagine sul caso di Yara. Ignote le ragioni sulle quali il Sottosegretario botulinico fondi le sue pesantissime accuse alle autorità giudiziarie innescando un pericoloso scontro tra istituzioni, inopportuno soprattutto su questo caso, ma purtroppo in voga negli ultimi anni in Italia.

Nei giorni in cui il premier viene chiamato in aula sulle donne dei festini e la riforma della giustizia, (per tanti versi anche necessaria, ma forse non per quelli cui tiene l’utilizzatore finale) va avanti, è evidente la ragione spicciola e di convenienza politica che muove certe critiche e certe contestazioni: ha a che vedere direttamente con la corte di Silvio. Al punto che persino una pagina infernale di cronaca nera può diventare una buona occasione, emotiva e di assicurato audience, per strumentalizzare dolore e violenza, mostri e vittime in una confusione mentale e mediatica che offende e banalizza proprio l’uccisione di Yara, il suo corpo che attende ancora sepoltura e l’attesa di giustizia dei suoi familiari.

Gli unici che potranno esprimere giudizi, commenti e accuse se la giustizia non gli renderà giustizia. Gli unici che continuano ancora a non farlo, anche con quella scelta visibile e simbolica di togliere lettere e candele davanti al cancello di casa, spostandoli qualche metro più in là.

Come a non permettere al pubblico a casa di appropriarsi di quel dolore. Come per ribadirne tutta l’insopportabile e assoluta proprietà e per vietarne ogni spettacolo, figuriamoci quello della paladina di Silvio che accosta l’Olgettina e i guai del suo capo con la fine tremenda di Yara. Un parallelo indecente e facilmente smascherabile come propaganda della Santanchè per ingraziarsi meglio il Premier.

Il Sottosegretario in tacchi a spillo e gonna stretta assomiglia tanto, nella volgarità degli intenti, a quel Corona che è entrato di soppiatto come un ladro, solo qualche settimana fa, dalla finestra della cucina nella casa della mamma di Sarah, ad Avetrana. Corona lo fa per rubare quel dolore, succhiarlo come un vampiro e farne uno scoop accessibile a tutti. Lo fa per il suo conto in banca.

La Santanchè no. Non lo fa per soldi, né si scusa, come Corona ha dovuto fare. Lo fa per Silvio. Lo dice come rappresentante di governo che non bisognava indagare su di lui, ma su Yara”. Una dichiarazione d’amore per il capo che non conosce limite di vergogna, né di pietà. Nel caso di specie, la decenza sapevamo già essere fuori luogo.

di Mariavittoria Orsolato

“Libertà vuol dire avere la possibilità di educare i propri figli liberamente, e liberamente vuol dire non essere costretti a mandarli in una scuola di Stato, dove ci sono degli insegnanti che vogliono inculcare principi che sono il contrario di quelli dei genitori”. Così parlò Berlusconi lo scorso 27 febbraio, smentendo come al solito il giorno seguente. Tanto è bastato per riaccendere gli animi degli operatori scolastici e degli studenti che, dopo l’approvazione definitiva della riforma Gelmini, torneranno in piazza il prossimo 12 marzo aggiungendo la loro istanza a quella della difesa della costituzione.

Mentre infatti la scuola pubblica agonizza sotto il tagli imposti dal nuovo corso, il Governo pensa ad istituzionalizzare il buono scuola per gli istituti privati. Dal 2000 - anno in cui venne creato ad hoc dal presidente della Lombardia Formigoni, per compiacere il suo elettorato cattolico - l’istituto del buono scuola per le famiglie degli studenti delle scuole private (cattoliche in maggioranza) ha conquistato anche Veneto, Emilia-Romagna, Friuli, Liguria, Toscana, Sicilia, Piemonte. Questo incentivo, pagato ovviamente anche da chi i figli li manda alla scuola pubblica, non è in realtà riuscito ad incidere sulle iscrizioni alle paritarie ma rimane un ottimo strumento politico per accattivarsi l’indulgenza del Vaticano.

Un’indulgenza più che mai necessaria dopo gli scandali del “bunga-bunga” e che, solo nel 2005, è costata al bilancio 500 milioni di euro. Se il buono scuola venisse esteso a tutto il territorio nazionale, servirebbero almeno tre riforme Gelmini per coprire il buco. Ma, come dicevamo, si tratta fortunatamente solo di becera propaganda.

Nel frattempo a Palazzo della Minerva si continua a limare sugli esuberi. La prossima ondata di tagli, prevista per l’anno scolastico 2011/2012, prevede 19.700 cattedre in meno e un esercito di professori di medie e superiori, circa 27.400, pensionati ma non sostituiti. Le regioni più colpite dalle nuove disposizioni saranno quelle meridionali e le isole, dove per il prossimo anno il Miur stima un calo nelle iscrizioni, ma secondo i calcoli del Ministero questo repulisti servirà a ricollocare i 30.000 precari in attesa di una cattedra.

I toni di Maria Stella Gelmini sono ottimisti, il ministro parla di “saldo in positivo” ma per quanto riguarda il personale tecnico e amministrativo c’è un bel segno meno per 14.000 dipendenti. Stessa sorte tocca ai supplenti, i docenti meno tutelati, che in soli due anni - dal 2008 al 2010 - hanno visto svanire ben 25.000 contratti. D’altronde il budget stanziato dal Tesoro nella finanziaria si è assottigliato ulteriormente, passando da 186 milioni di euro del 2008 a 127 milioni per il 2010.

A questo desolante panorama si aggiunga che nel biennio attuativo della riforma le classi di elementari, medie e superiori sono calate di 10.617 unità, con il risultato che in un’aula vengono stipati anche 30 o 35 ragazzi. Il tutto in barba alle norme di sicurezza e alla qualità della didattica, che per essere all’altezza del suo compito dovrebbe espletarsi in contesti molto meno dispersivi.

La crisi economica globale che, nelle motivazioni ufficiali, è alla base di questo colossale ridimensionamento dell’educazione pubblica, miete le sue vittime anche dopo che queste hanno chiuso i libri. Stando alle ultime rilevazioni di "Alma Laurea", sia i laureati “brevi” che quelli specialistici faticano sempre di più a trovare un contratto di lavoro: per i primi il tasso di disoccupazione è al 16,2%, mentre per i secondi il dato è ancor più paradossale, 17,7%.

Se infatti è vero che i laureati posseggono strumenti culturali e professionali più affinati per reagire ai mutamenti di mercato e società,  la realtà dei fatti vuole stipendi svalutati nel loro potere d’acquisto e contratti precari come routine. Nonostante l’istruzione superiore sia ormai alla portata di tutte le classi sociali, si perpetrano le disparità tra i ceti di provenienza, con il risultato che solo la rete di soci e clienti, vecchia di 2000 anni, riesce a dare reali speranze ai giovani neolaureati. Va da sé che a questa soluzione riescano ad accedere solo i cosiddetti “figli di”.

La pubblica istruzione in un regime democratico significa emancipazione, mobilità sociale e sicurezza. La pubblica istruzione italiana targata Gelmini ha deliberatamente scelto di abiurare questi tre obiettivi in nome di un pareggio di bilancio che, dopo l’uscita dei dati sul debito pubblico (+200 miliardi solo nel 2010), risulta essere semmai un miraggio. Anche per questo il mondo della scuola ha deciso di tornare nuovamente in piazza dopo i tre mesi di mobilitazione che hanno preceduto l’approvazione della nuova legge sull’università. Gli studenti e i docenti della penisola tengono a far sapere al premier, alla maggioranza e, perché no, anche al mondo cattolico, che la scuola pubblica non “inculca” ma educa. E lo fa nonostante il Ministero si ostini a volerla rendere un colabrodo.

di Rosa Ana De Santis

Non ci sarà l’election day, stando a quanto indicato nel decreto del governo in firma nei prossimi giorni. Una decisione che sarebbe stata sensata in termini di risparmio economico e di affluenza elettorale. Approfittando infatti delle elezioni amministrative del 15 e del 16 maggio, gli italiani avrebbero potuto, con occasione, esprimersi sul referendum relativo alla privatizzazione dell’acqua, sul nucleare e sul legittimo impedimento. Quesiti referendari che toccano argomenti politici non tanto al centro dell’agenda di governo, ma con scottanti e problematiche ricadute su tutta la società civile. Facile ipotizzare che unendo tutte le votazioni ad anno scolastico ancora aperto, il quorum sarebbe stato facilmente raggiunto.

Ed è questo l’unico motivo, senza dubbio, per cui Maroni, in nome del governo, ha annunciato che i tre quesiti saranno spostati al12 giugno, quando l’estate sarà iniziata e quasi tutte le scuole saranno ormai chiuse per invitare gli italiani ad andarsene al mare e a non perdere l’ennesimo fine settimana per le votazioni. Lui dice per onorare una prassi consolidata nella tradizione italiana, ma lo dice con lingua biforcuta. Questa prassi - come la chiama il governo - o questa strategica scissione delle date, costa alle tasche degli italiani, secondo le stime delle opposizioni, almeno 350 milioni di euro.

Un’operazione che suona inopportuna in tempo di crisi. Non era stata proprio la teoria della crisi a rendere, fino a pochi giorni fa, insicura la festa nazionale del 17 marzo? Una data storica tanto importante e di alto valore simbolico che poteva essere messa in discussione come un lusso che la situazione economica del paese non poteva permettersi, così dicevano i padani. A quanto pare queste preoccupazioni non ci sono più o, banalmente, si cerca un modo per disincentivare l’elettorato, già demotivato e poco partecipe, ad andare alle urne per esprimere un parere proprio su ciò che più riguarda la loro vita e i diritti costituzionali fondamentali.

Si tratta infatti di ostacolare la mercantilizzazione dell’acqua, di impedire la riattivazione delle centrali nucleari che oltre a rappresentare una forma di energia vetusta minacciano il nostro diritto alla salute e, infine, la difesa di quel diritto costituzionale fondamentale che ci vuole tutti uguali di fronte alla legge. Tanto per chiedere a questo famoso popolo che ha eletto il Presidente del Consiglio cosa ne pensa dell’abusato suo legittimo impedimento.

Questo governo, pur di non facilitare i comitati promotori del referendum e pur di affossare con ogni mezzuccio “truffaldino” - come lo chiama Articolo 21 - la possibilità che gli italiani si esprimano su questioni fondamentali è disposto a sprecare così tanto denaro pubblico. Una doppia beffa e un doppio insulto a questo Paese cui le opposizioni, Idv in testa, replicano con accuse pesantissime e con una mozione alla Camera per l’election day.

La scelta del governo, oltre a denunciare paura per i quesiti referendari, esprime ancora una volta l’orientamento di chi guida il nostro Paese, seguendo la prassi di smarcare i grandi temi della politica e le questioni urgenti che toccano la vita reale dei cittadini e di occupare l’agenda del Parlamento con i guai giudiziari del premier e con le sue disperate arringhe di difesa. Un paese in ostaggio di un personalismo i cui unici pericolosi precedenti non sono poi tanto lontani nelle pagine della storia.

E’ proprio per questa operazione fatta ad arte, che rischia di annullare milioni di firme e di svuotare uno strumento democratico tanto efficace come il referendum, che c’è bisogno di un colpo di reni, di uno scatto di volontà partecipativa da parte degli elettori. Ci piacerebbe che non ci fossero partenze ed esodi prima di aver risposto alle domande del referendum. Che le persone andassero alle urne come quando hanno scelto il loro sindaco alle ultime elezioni o il presidente di regione qualche mese fa o, persino, il premier alle ultime politiche. Che la parabola discendente dell’affluenza elettorale non impedisse il raggiungimento del quorum.

Perché questa sarebbe l’ennesima sconfitta simbolica oltre che reale di chi cerca di riportare il paese alle forme e ai contenuti di una piena democrazia. Non quella televisiva per capirci, non quella di Ruby Rubacuori, non quella che ci manda in vacanza e butta i nostri soldi dalla finestra mentre il paese si riempie di disoccupati, non quella che ci venderà l’acqua come una merce preclusa ai poveri, o che ci sotterrerà le scorie radioattive nei mari di casa, magari con qualche appalto affidato ai Casalesi. Non quella in cui il premier eletto dal popolo è al di sopra della legge dello Stato. Perché, prima o poi, ci sveglieremo dalle fiction e troveremo un Paese che della libertà avrà conservato solo le loro bandiere. 

di Cinzia Frassi

Pensiamo ad uno di quei telefilm americani dove succede di tutto. Mettiamoci quattro co-protagonisti: carabinieri molto poco fedeli alla fiamma, ricattatori, protettori di trans e dei loro pusher, con svariate irruzioni e scorribande in vari appartamenti per cogliere in flagrante i clienti dei trans, requisire loro droga, preziosi, denaro e arrotondare lo stipendio con qualche ricatto. Mettiamoci poi che una bella sera uno dei loro pusher li informi che un politico, un pezzo grosso, sia a casa di un trans e che questi quindi si trovino, giusto per caso, a fare irruzione proprio nell’abitazione del trans in questione.

Cosa fanno a questo punto i quattro in divisa?  Naturalmente girano un breve filmato con il telefonino, mettendo anche sul tavolo della droga che poi naturalmente fanno sparire, era giusto una comparsa. Poi incalzano (diciamo così) il governatore a consegnare tutto il denaro di cui dispone in quel momento, prospettandogli le fatali conseguenze di una divulgazione del filmato e delle circostanze in cui si trova. Non ancora soddisfatti, lo costringono anche a compilare assegni per pagare il loro silenzio.

Un brutto film sì. Ma, come in tutti i film americani, ci scappa anche il morto. Un pusher tossicodipendente, informatore dei quattro co-protagonisti, assume una dose di droga eccessiva, un mix letale per farlo stare zitto, dato che le circostanze del caso sono ad un tratto cambiate e va assolutamente scongiurato il rischio che il pusher possa cantare.

Nel nostro paese, dove la realtà supera sempre film, telefilm, serial e la fantasia, accade anche questo. Così, mentre un capo di governo organizza festini con minorenni (ma questo è un altro film) la procura di Roma chiude le indagini sul caso Marrazzo, ex presidente della Regione Lazio, coinvolto in un piano per ricattarlo, estorcergli denaro e forse rovinargli la carriera, la famiglia, la vita.

Il procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo e il pm Rodolfo Sabelli, alla conclusione delle indagini che avrebbero ricostruito il presunto ricatto nei confronti dell'ex presidente della Regione Lazio e chiarito molte circostanze dell'omicidio del pusher Ginaguarino Cafasso, hanno chiesto il rinvio a giudizio per quattro carabinieri, all'epoca dei fatti in servizio presso la compagnia Trionfale, Nicola Testini, Luciano Simeone, Carlo Tagliente e Antonio Tamburrino; della trans José Alexander Vidal Silva (Natalie), sorpresa con Marrazzo il 3 luglio 2009 nel suo appartamento di via Gradoli, e di tre pusher, Emiliano Mercuri, Massimo Salustri e Bruno Semprebene.

Resta invece ancora aperta l’inchiesta sulla morte del trans Brenda. Gli atti depositati parlano di associazione per delinquere, omicidio volontari aggravato, concussione, violazione della legge sugli stupefacenti, rapina, favoreggiamento, perquisizioni illegali. Questi i reati indicati in ben 26 capi d'accusa a carico degli otto indagati.

Niente male, ce ne sarebbe per farne una nuova serie tv. “Sono consapevole che la situazione ha assunto un rilievo pubblico di tali dimensioni da rendere oggettivamente e soggettivamente inopportuna la mia permanenza alla guida della Regione, anche al fine di evitare nel giudizio dell'opinione pubblica la sovrapposizione tra la valutazione delle vicende personali e quella sull'esperienza politico-amministrativa”. Questa era una dichiarazione di Piero Marrazzo che risale al 24 ottobre 2009. Evitare la sovrapposizione tra vicende personali con l’esperienza politico amministrativa. Non ci sono reati. Non ha commesso reati. Si tratta di una vicenda personale, di fatti che semmai possono avere rilievo famigliare.

Senza bisogno di scomodare ancora e per l’ennesima volta il bunga bunga del nostro presidente del Consiglio e le vicende legate ai giri dei suoi festini, pensiamo a quanti siedono o sono stati seduti sulle comode poltrone della politica pur avendo commesso reati - anche con un rilievo molto stretto con le loro mansioni - e che ancora vi siedono. Pensiamo a quanti nomi con condanne passate in giudicato risalenti alla famosa stagione di tangentopoli ancora passeggiano tra Montecitorio e Palazzo Chigi. O a coloro che hanno - ad esempio - condanne definitive per concorso esterno in associazione mafiosa.

Potremmo continuare. Va da se che in questa vicenda non sono i reati ad aver fatto la differenza, dato anche che pare non siano nemmeno più di grande rilievo per spostare il consenso. Quindi mettiamo da parte la fedina penale. Certo, andrebbe ricordato l’art. 54 della Costituzione al secondo comma recita: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. Devono adempiere le loro funzioni, cioè il loro lavoro, il mandato. E la vita privata? E’ privata, fino a che non costituisce reato.

Il punto nevralgico della questione allora potrebbe essere legato esclusivamente all’aspetto sessuale della vicenda: un politico, anzi no, un uomo, colto a spassarsela, diciamo così. Anche qui però diventa difficile orientarsi. Anche qui potremmo fare qualche nome, qualcuno addirittura non si è nemmeno dimesso. C’è chi ne avrebbe fatto addirittura un'abitudine, un sistema standard di “divertimento”, come il nostro presidente del Consiglio. Quindi, nemmeno da qui se ne esce. Certo, ci sarebbe da dire che siamo nei confini del belpaese, dove sull’onda del volemose bene, tutto si può fare. Nel resto del mondo l’elenco di politici di vario calibro che si sono dimessi per vicende sessuali di vario tipo sarebbe assai lungo.

Va da se che all’estero i politici si vedono costretti a dimettersi per cose che da noi fanno sorridere, come aver copiato una tesi di dottorato, vicenda che ha portato alle dimissioni del ministro della Difesa tedesco, il barone zu Guttenberg. Quindi, difficile stabilire una regola in politica. Difficile però anche stabilire i motivi per cui in una vicenda così grave per le condotte delle persone (anche in divisa) coinvolte, per il ricatto e per lo sciacallaggio successivo da parte di politica e parte della stampa, abbia spazzato via una carriera, un bravo giornalista, un politico.

Difficile anche capire certi giornali che ancora si accaniscono. Libero, lo scorso 1 febbraio, ha lanciato in prima pagina il titolone: "Marrazzo ci ricasca" e nell'occhiello "l'ex governatore del Lazio fermato dai carabinieri ad un posto di blocco”. Aggiunge anche: "E la procura di Milano chiede il processo immediato per Berlusconi". Nella fattispecie Piero Marrazzo, che ha querelato il giornale in questione, è stato fermato da una pattuglia a bordo della sua auto, mentre accompagnava un trans a casa. Niente eccesso di velocità o altre infrazioni, documenti a posto. Anche qui nessun reato, nessuna infrazione, multa, droga. Niente. Se non le urla degli house organ del padrone che alza il polverone scopo lotta politica. Indegna.

 

 


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