di Rosa Ana De Santis

Era a Torino, il 17 marzo del 1861, che si riuniva il Primo Parlamento d’Italia e che quel mosaico di particolarismi, ridotto a brandelli da invasori e occupazioni, assumeva dignità di un paese unito. Oggi i 150 anni. Arriva la festa nazionale dopo le aspre polemiche di governo, dovute soprattutto a quelle camice verdi che continuano a fingersi federaliste e che hanno in cuore il veleno della secessione. Gli stessi che qualche giorno fa hanno preferito andare al bar piuttosto che cantare Mameli, abbandonando il Consiglio della Regione Lombardia. La stessa cosa che è successa anche in Emilia Romagna, nella seduta dell’Assemblea Legislativa.

E’ stato per bocca di un artista, maschera del cinema italiano, che siamo riusciti a sentire dalla tv di Stato, scandita con emozione ma in un filo di voce estraneo alle parate d’occasione, la bellezza di un inno spesso vituperato, il valore di una storia di liberazione che la storiografia, con eccesso di semplificazione, ha sempre tolto al popolo e ai giovani italiani e ha affidato unicamente al Conte di Cavour e alla mappa delle alleanze massoniche. E’ stato il Festival di Sanremo a rilanciare sulle prime pagine di giornali e Tg il Risorgimento e la sua importanza.

Segno tangibile di un imbarazzante silenzio delle Istituzioni. Un’assurdità tutta italiana che solo la mediazione della destra al governo con la Lega può rendere più comprensibile e per questo ancora più insopportabile. Grazie anche a questi tentennamenti di convenienza,  l’Italia si riempie a stento di tricolori. Cerimonie pubbliche, concerti, celebrazioni fin nei più piccoli comuni sembrano “commemorazioni dovute”, non partecipate. Nel Nord, in particolare in Veneto, il governatore Zaia, dopo l’iniziale dissociazione dalla festa nazionale, annuncia cerimonie striminzite, quasi obbligate e mal sopportate dal suo elettorato. Il calendario delle celebrazioni istituzionali scandito dal Comitato nato appositamente per il 150° attraversa tutto l’anno e tutto il paese. Un calendario appiccicato alla sua vita reale.

E’ un caso e una dolorosa combinazione che la celebrazione dell’unità nazionale capiti in un anno come questo. Lacerato da tensioni e contraddizioni: da un lato i volgarissimi scandali che hanno travolto le Istituzioni e che hanno abbassato profondamente il livello della politica nazionale e la stessa agenda di governo; dall’altro le altissime ambizioni riformatrici che vorrebbero invece arrivare alle radici della giovanissima storia italiana. Una polarità insidiosa, che pone un’ipoteca altissima sul corso dei prossimi eventi politici e che ha definitivamente tramortito il comune sentire degli italiani.

L’informazione quotidiana passa dalle fotografie delle prostitute dell’Olgettina alla riforma della giustizia, dai battibecchi tra il Presidente della Camera e il premier Berlusconi agli annunci sulla necessità di riformare la Costituzione e la giustizia. Come possa un paese tanto lacerato dall’alto affrontare e costruire passaggi storici così importanti è l’interrogativo rimosso, annacquato da chi, governo in testa, onorerà questa festa per dovere di retorica lasciando la società civile in una navigazione a vista, fatta di una rassegnazione senza precedenti nei riguardi del paese e delle sue sorti.

La dialettica politica è ormai priva di tensione e di passione, ruota intorno alle quisquilie del gossip e ai personalismi di turno. Persino sulla memoria dell’unità si è riusciti ad evitare di trattare questioni fondamentali, dando in pasto ai cittadini gli scarti della polemica sul giorno di vacanza e sui suoi costi. Miseria di un paese che non ha ancora capitalizzato il suo bagaglio di esperienza e la sua stessa storia di unità, così vicina nel tempo e così troppo giovane, contrariamente a quanto sembra. Così poco matura da rendere ancor più pericolose le spinte eversive di divisione, che oggi invece siedono in Parlamento votate a furor di popolo.

Questo doveva essere il primo impegno delle Istituzioni. Far tacere chi ha nostalgia dei regni antichi, fidandosi di quello che i padri del Risorgimento avevano capito 150 anni fa. Che valore ha una commemorazione senza memoria? L’unica Italia che tutti amiamo, senza divisioni e distinzioni, quella in cui ci riconosciamo immediatamente, è quella del passato e delle nostre eccellenze di arte e d’ intelletto. Lì sta tutto il nostro orgoglio nazionale, lì è annidato tutto l’amor di patria. Quello che esportiamo all’estero come un marchio e che sentiamo nel cuore al cospetto di tanti capolavori di bellezza creati dall’ingegno italiano.

E, almeno per questo, forse ci fa più male veder sprofondare Pompei che non la Lega che diserta l’Inno. E per questo oggi nessuno si stupisce se il Parlamento sembra diventata una provincia del Bagaglino. Né qualcuno di noi si rammarica di aver visto più tricolori appesi alle finestre per l’ultimo mondiale di calcio che non per la festa della nostra Patria.

 

 

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