di Michele Paris

Il rapporto annuale di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nel mondo contiene una corposa sezione dedicata al nostro paese. Il quadro che ne emerge appare a tratti inquietante. Le preoccupazioni della autorevole ONG per l’Italia riguardano in particolare le continue discriminazioni nei confronti dei migranti, dei rom e degli omosessuali, ma anche i maltrattamenti e i decessi di detenuti. Il tutto in un clima di crescente intolleranza alimentata dagli esponenti del mondo politico.

Il cinquantesimo rapporto di Amnesty è stato pubblicato di recente ed è basato sull’analisi delle restrizioni poste alla libertà di espressione in 90 paesi, di casi di tortura in cento paesi e di processi considerati iniqui in 54 paesi.

La prima parte del capitolo riguardante l’Italia riassume i giudizi espressi da vari organismi internazionali sulla condizione dei diritti umani nel nostro paese. La visita da parte dell’alto commissario dell’ONU per i diritti umani ha così sollevato preoccupazioni per il fatto che le autorità italiane considerano i rom e i migranti come “problemi legati alla sicurezza”, tralasciando invece la ricerca di metodi che favoriscano il loro inserimento nella società.

Di seguito vengono citati i rapporti della Commissione per la Prevenzione della Tortura presso il Consiglio d’Europa e del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU. In essi viene evidenziato il rifiuto da parte delle autorità italiane di introdurre il reato di “tortura” nel nostro codice penale e di abolire invece quello di “immigrazione clandestina”.

Oltre al sovraffollamento delle carceri, si ricorda poi la condanna da parte dello stesso Consiglio d’Europa delle intercettazioni dei migranti in mare e il loro forzato respingimento verso la Libia o altri paesi extra-UE. Una pratica questa che viola apertamente la proibizione, come riconosce il diritto internazionale, di rimandare qualsiasi individuo in un paese dove esistono seri rischi di violazione dei diritti umani.

Nel capitolo riguardante le pratiche discriminatorie, viene evidenziato come siano i rom a subire il trattamento peggiore. I loro diritti all’educazione, all’alloggio, alle cure sanitarie e al lavoro risultano sistematicamente calpestati. A ciò vanno aggiunte, secondo i ricercatori di Amnesty, le dichiarazioni provocatorie da parte di “alcuni politici e rappresentanti di varie autorità” che contribuiscono ad alimentare un clima d’intolleranza non solo verso i rom, ma anche gli immigrati, gay, lesbiche, bisessuali e transessuali. Per contrastare questo clima, lo scorso mese di agosto è diventato operativo l’Osservatorio per la Sicurezza contro gli Atti Discriminatori (OSCAD), un organo della polizia che dovrebbe incoraggiare e semplificare le denunce da parte delle vittime di atti discriminatori.

Sempre per quanto riguarda i rom, vengono ricordati i numerosi sfratti che hanno luogo in tutto il paese e che provocano la disgregazione di intere comunità e rendono impossibile l’accesso al mondo del lavoro e alla scuola. In particolare, Amnesty ricorda il “piano nomadi” del comune di Roma, iniziato nel gennaio 2010 e la cui implementazione ha “perpetuato una politica di segregazione ed ha causato un peggioramento delle condizioni di vita” per molti rom.

Sul fronte delle discriminazioni LGBT, continuano gli “attacchi omofobici”. Inoltre, a causa del vuoto legale esistente in Italia, alle vittime di crimini motivati da discriminazioni circa l’orientamento e l’identità sessuale non viene garantita la stessa protezione di cui godono gli altri cittadini.

Estremamente preoccupanti sono anche le carenze che riguardano i diritti degli immigrati. Per cominciare, le procedure per l’ottenimento dell’asilo non sono facilmente accessibili. Le autorità, inoltre, non proteggono adeguatamente i migranti, così che questi ultimi sono esposti a violenze razziste. Anche in questo caso è evidente lo scadimento di una classe politica, che in maniera ingiustificata associa automaticamente l’immigrazione al crimine, contribuendo alla xenofobia e all’intolleranza diffusa.

L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) e le ONG avevano poi espresso tutte le loro preoccupazioni per i trattati tra Italia, Libia e altri paesi nordafricani per il controllo dell’immigrazione. Una situazione che ha negato a centinaia di richiedenti asilo - inclusi bambini - l’accesso alle procedure di protezione previste dal diritto internazionale.

Oltre ai noti fatti di Rosarno del gennaio 2010, viene citato un episodio dello scorso ottobre, quando un’imbarcazione con a bordo 68 persone venne respinta e fatta tornare in Egitto senza aver concesso ai migranti la possibilità di chiedere eventualmente asilo.

Come altri paesi africani, asiatici e dell’Est Europa, anche l’Italia è stata inoltre teatro delle cosiddette “extraordinary renditions” della CIA. Il riferimento è quello del caso Abu Omar, il cittadino egiziano rapito illegalmente in una strada di Milano nel febbraio del 2003 da agenti statunitensi e italiani e quindi trasferito nel suo paese d’origine per essere interrogato sotto tortura. Se gli agenti americani sono stati condannati in absentia, per quelli italiani la giustizia si è fermata di fronte al segreto di stato posto dal nostro governo.

Numerosi sono anche gli episodi di maltrattamenti ad opera delle forze di sicurezza dello stato. Per Amnesty International persistono le preoccupazioni per la mancanza di indipendenza e imparzialità degli organi preposti alle indagini. Per i decessi in carcere sono emersi dubbi sulla raccolta delle prove circa le responsabilità dei funzionari implicati, tanto questi ultimi rimangono spesso impuniti. I casi più eclatanti citati da Amnesty sono quelli di Federico Aldovrandi, Aldo Bianzino, Stefano Cucchi e Giuseppe Uva.

Il rapporto sull’Italia si chiude con le vicende legali seguite ai fatti del G8 di Genova del 2001. Nonostante le condanne emesse dal processo di secondo grado, molti degli imputati hanno potuto beneficiare della prescrizione. “Se l’Italia avesse introdotto il reato di tortura nel suo codice penale”, fa notare Amnesty, “la prescrizione non avrebbe potuto essere applicata”.

di Fabrizio Casari

Giuliano Pisapia, Luigi De Magistris, Massimo Zedda e Roberto Cosolini sono i nuovi sindaci di Milano, Napoli, Cagliari e Trieste. Sono i nomi contro i quali la crisi della destra al governo si è stampata con ogni evidenza, vista anche la dimensione numerica delle loro vittorie e il fatto che sono spalmate su zone distinte del Paese. Il centrosinistra vince otto ballottaggi su undici e forse, come ironicamente ha dichiarato Bersani, il PDL dirà che si è trattato di un pareggio.

E invece è un cappotto vero e proprio. Per le dimensioni della sconfitta, per l’ubicazione in lungo e largo dell’Italia, è superiore anche alle peggiori previsioni del PDL. I toni terroristici di una Milano che si minacciava invasa da zingari, islamici, spacciatori di droga, ladri di ogni risma, insomma tutto tranne gli alieni, hanno dimostrato come il padrone della destra italiana abbia perso ragione ed equilibrio e, con esse, voti, influenza e credibilità. Con la sua caduta, vengono giù anche i suoi consigliori peggiori, tra i quali spiccano Sallusti e Santanchè, simpaticamente denominati Olindo e Rosa. Colpiva ieri pomeriggio, mentre erano ancora in corso lo spoglio, la home page di Libero, uno degli house organ di Arcore, che titolava: “E adesso godetevi il comunismo”.

Evidentemente, il perseverare negli errori è una caratteristica ineliminabile di una compagine ideologica e isterica che, priva di cultura politica, non può tollerare il giudizio degli elettori che hanno deciso di cacciare la destra dal governo di Milano, dove da 20 anni dettava legge. D’altra parte, una campagna elettorale con i toni come quelli usati dalla destra, è stata ritenuta unanimemente un fallimento di comunicazione politica. E’ vero, ma la questione andrebbe analizzata sotto un altro aspetto: consapevoli dell’aria di sconfitta che tirava in tutta Italia, hanno scelto di giocarsi la carta della disperazione, le bugie, gli insulti, le false promesse, nel disperato tentativo di provare a spaventare l’elettorato per cercare d’invertire la tendenza.

Hanno tentato di tutto, proprio su Milano, consci dell’importanza politica e simbolica del capoluogo lombardo, per cercare di ribaltare il risultato del primo turno: le follie, le finte gaffes di Vespa, l’occupazione militare dei telegiornali in sommo sprezzo delle regole, i toni urlati e paradossali e quelli più pacati. A quest’ultima specie va ascritta la circumnavigazione dell’emittenza pubblica e privata del volto di Cl a Milano, Lupi, spedito a girare come una trottola per ogni studio televisivo a cercare di recuperare i danni provocati dalla coppia Sallusti-Santanchè.

Ma non è stato sufficiente. Perché proprio il voto di Milano è andato assumendo, dal primo turno al ballottaggio, il sapore della sfida politica al cuore dell’impero berlusconiano e del maggiore insediamento leghista (questi ultimi, tra l’altro, perdono persino Novara, roccaforte piemontese del partito di Bossi). Milano è stata la culla, dal Risorgimento ad oggi, di tutti i grandi processi di trasformazione politica, economica e sociale del Paese ed è per questo che il suo voto era così importante per entrambi gli schieramenti. Milano, da sempre, anticipa i processi che si ampliano poi a livello nazionale.

La sconfitta di Berlusconi sotto al Duomo (simbolicamente bissata persino dalla sconfitta ad Arcore) ne è il segno politico evidente. Il crepuscolo del berlusconismo e di Berlusconi in prima persona è cominciato ed è l’aspetto decisivo della crisi della destra che, in Italia almeno, non è mai stata altro che la strenua difesa degli interessi del suo proprietario. E il voto di Milano, come quello di Napoli, dove diventano sindaci due esponenti dell’opposizione di sinistra non targati PD, dimostra ulteriormente che più che una vittoria del partito di Bersani (il cui contributo è stato, ovviamente, determinante) è la vittoria dell’antiberlusconismo, inteso come messaggio di contenuto e stile di governo.

Napoli ha giudicato insopportabile il fiume di balle e mancate promesse del capo dell’esecutivo e, pur non soddisfatta del governo uscente (l’ha fatto capire chiaramente al primo turno), ha ritenuto di dover cambiare guardando a sinistra, perché una sinistra inedita è foriera di speranza, mentre la destra partenopea è una delle parti peggiori della destra italiana.

Il voto, da nord a sud, dalla Sardegna a Trieste (dove il centrosinistra vince anche la Provincia) da Crotone a Macerata, racconta dello sgretolamento progressivo del blocco sociale della destra berlusconiana. E’ un verdetto preciso che esprime un’inversione di tendenza nell’elettorato, che presenta il conto per quindici anni (su venti complessivi) di governo che hanno stremato il paese sotto il profilo economico, sociale e politico. E proprio di fronte all’emergenza economica e sociale e alle incombenze pesanti che gravitano sull’Italia, una parte consistente dell’elettorato moderato ha ritenuto di dover ritirare il credito che pure aveva offerto in passato. Altro che “rafforzare l’azione di governo”, come afferma Lupi: è proprio questo governo che persino gli elettori moderati non vogliono continuare ad avere.

Milano, infatti, dimostra soprattutto una cosa: che la borghesia milanese, conservatrice o progressista che sia, stanca dell’insipienza governativa e dell’incapacità di ascolto a fronte della volgarità galoppante, ha deciso che Berlusconi ed il berlusconismo debbano passare all’archivio della storia del paese, che di tutt’altro ha invece bisogno. Pensare di dipingere uno dei suoi figli, da tutti conosciuto e stimato per le idee e i modi, gentili e misurati, come una specie di Attila ai confini dell’impero, è stato un errore di comunicazione fatale per la destra. Vedere i maggiordomi del bunga-bunga dare dell’immorale ad una persona per bene, composta e colta, è stato il paradosso ignorante e decisivo per la sconfitta del berlusconismo.

Per Salvini, della Lega Nord, il voto di Milano è stato un voto contro Berlusconi, mentre per Cicchitto non si può parlare di “fine del berlusconismo e di Berlusconi”. Ma sono solo i primi colpi che tendono a presentare uno dei prossimi scenari possibili: la presa di distanza della Lega da Berlusconi e, con essa, la fine del PDL e del governo. Bossi e i suoi dovranno, infatti, riflettere a fondo sul costo che potrebbero pagare continuando a tenere in vita il governo, e le difficoltà e le sconfitte dei suoi candidati raccontano bene la crisi di credibilità che la stessa Lega ha presso i suoi elettori. Un segnale d’allarme serio, non certo trascurabile o addossabile per intero al cavaliere.

Se si riproporrà la rottura del 1994 o si sceglierà l’appoggio esterno è ancora presto per dirlo: ma la consapevolezza del ciclo politico che si è chiuso, a Via Bellerio l’hanno ben presente. Insomma, una resa dei conti appare all’orizzonte: magari non assumerà nell’immediato la forma della rottura pubblica ed evidente, ma se verrà confermata la disponibilità annunciata ad una nuova legge elettorale sarà il segno che, in prospettiva, prima ancora della tenuta di questo governo, la Lega si prepara ad andare avanti da sola.

Il disastro elettorale apre uno scontro interno al variegato mondo della destra italiana e già si annunciano i primi colpi bassi. Il partito dell’amore si prepara alle stilettate dell’odio.

 

di Eugenio Roscini Vitali

Il 12 novembre 2003, alle 10:40 (le 08:40 in Italia) il quartier generale dei carabinieri a Nassiriya venne devastato da un attentato suicida: morirono 19 italiani (12 carabinieri, 5 militari dell’esercito e 2 civili), 9 cittadini iracheni e altre 140 persone rimasero ferite. Una strage che poteva però essere evitata: l’ha stabilito la Corte di Cassazione nelle motivazioni con le quali spiega perché lo scorso 20 gennaio ha dato il via libera ai risarcimenti per i familiari delle vittime.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso dei parenti degli italiani morti nell’attacco suicida alla base Maestrale e le richieste avanzate lo scorso 30 novembre dal  procuratore militare Francesco Gentile e ha annullato con rinvio la sentenza d’appello con la quale erano stati negati i risarcimenti ed erano stati definitivamente assolti il generali Bruno Stano, comandante del contingente italiano a Nassiriya, e Vincenzo Lops, primo comandante di Antica Babilonia e suo predecessore.

Dato che la Procura non ha impugnato l’assoluzione in Appello dei due generali, la decisione dei giudici vale soltanto ai fini civili; ma, come ha dichiarato alla lettura del dispositivo l’avvocato Francesca Conte, rappresentante legale della stragrande maggioranza dei familiari, «si tratta di una grande vittoria morale, perchè le famiglie non hanno mai chiesto denaro ma soltanto l'accertamento della verità, nemmeno quando siamo stati soli e il governo ha fatto leggi contro di noi».

In primo grado il generale Bruno Stano (sul quale dovrà essere fatto rivalere il risarcimento ai familiari delle vittime) era stato condannato con il rito abbreviato dal Gup del Tribunale militare di Roma, Giorgio Rolando: due anni di reclusione per distruzione colposa di opere militari e per non aver aumentato la protezione della base nonostante le notizie «crescenti, dettagliate e diffuse» d’imminenti attentati, nonché per aver sottovalutato «il livello di rischio connesso alla minaccia concretamente esistente» di attacchi armati contro le forze del contingente italiano da attuare con mezzi carichi di esplosivo.

In quella sede all’ufficiale, per il quale il pubblico ministero aveva chiesto 12 mesi di reclusione, erano stati concessi i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. Il giudice aveva inoltre condannato il generale Stano al risarcimento del danno alle parti civili rimettendo le parti davanti al giudice civile; assolto invece «perché il fatto non sussiste» il generale Vincenzo Lops, per il quale era sta richiesta una condanna a 10 mesi, e rinviato a giudizio con rito ordinario il colonnello dei carabinieri Georg Di Pauli, comandante del contingente dell'Arma ai tempi dell’attentato.

La sentenza con cui il 24 novembre 2009 la Corte militare d’Appello di Roma  aveva assolto i due alti ufficiali e le motivazioni con le quali, nel maggio successivo, il tribunale militare di Roma aveva prosciolto il colonnello Di Pauli - perché il fatto non costituisce reato - avevano lasciato spazio ad un ipotesi d’innocenza che aveva indignato non poco i familiari delle vittime.

L’avvocato Conte aveva commentato la sentenza Di Pauli come una sorta di “pacificazione” sociale che non avrebbe comunque fermato chi, in nome della verità, sarebbe andato avanti: «Un mese e mezzo fa abbiamo ricevuto una lettera del ministro della Difesa, La Russa, che invitava tutte la parti civili o offese ad accordarsi su un risarcimento per chiudere la vicenda. Noi abbiamo rifiutato perché non sono i soldi che ci interessano, vogliamo solo la verità; andremo in sede civile per chiedere che vengano riconosciute le responsabilità del ministero della Difesa. Del resto già nella sentenza d'appello nei confronti degli altri imputati si dice che questi non hanno colpe perché hanno obbedito a ordini superiori. E le famiglie delle vittime vogliono sapere chi ha dato questi ordini, di chi sono le responsabilità, perché questa strage si poteva evitare».

Nel dettaglio, le motivazione della sentenza emessa dalla Cassazione rilevano che nel giudizio devono essere attribuiti comportamenti imprudenti e negligenti e «non vi è dubbio che si tratti di profili classici di vera e propria colpa». Diversamente da quanto valutato per il generale Vincenzo Lops, che «ebbe comunque a rappresentare la problematica al successore, compresa la prospettiva di un cambio di collocazione della base», per il generale Stano la Suprema corte conclude che «non può non essere ribadito il vero e proprio preavviso di pericolo concreto contro le basi italiane in Nassiriya, che seguiva un crescendo di allarmi, secondo cui un gruppo di terroristi di nazionalità siriana e yemenita si sarebbe trasferito a Nassiriya, risultato ex post tragicamente veridico».

Per quanto riguarda la morte e il ferimento dei soldati investiti dall’esplosione della “riservetta” posta davanti alla base Maestrale, piazza Cavour non può non mettere in risalto quanto assurda sia stata la collocazione di quel deposito di munizioni, che secondo le norme di sicurezza doveva essere posto al riparo da eventuali attacchi.

 

di Rosa Ana De Santis

A dire che l’Italia è il fanalino d’Europa non sono le solite agenzie di rating, fallaci quanto interessate, ma l’Istituto centrale di statistica, che nella presentazione dei dati riguardanti il biennio 2008-2009, ha spiegato meglio di qualunque discorso il danno che la destra sta recando al sistema Italia. A cadere sotto i colpi dell’incompetenza del governo sono i due perni sui quali il sistema italiano si reggeva: risparmio e welfare.

A forza di picconare politicamente e legislativamente il lavoro e lo stato sociale, l’Italia è diventata la parente povera d’Europa. E se la riserva storica del nostro paese è sempre stata la relazione di solidarietà interfamiliare, con le generazioni che si venivano reciprocamente in aiuto, a formare una sorta di ammortizzatore sociale permanente, l’analisi dei numeri proposti dall’Istat evidenzia come ormai anche questo filo stia spezzandosi, causa un sovraccarico che non più in grado di sopportare.

I numeri dell’ISTAT raccontano soprattutto, dietro alla crisi dei numeri e delle statistiche, il modo in cui il sistema Italia ha affrontato la crisi economica. L’Italia del risparmio e delle case di proprietà ha protetto le nuove generazioni da un impoverimento che avrebbe avuto nell’immediato un impatto ben più violento di quello che ha effettivamente avuto. Ma tutto questo non basta più.

I numeri della politica economica di questo governo sono ben rappresentati da questi dati: la crescita italiana è in media dello 0,2, contro l’1,3 della media Ue. La produzione industriale è diminuita del 19% rispetto al 2007 e il tasso di disoccupazione reale è attorno al 15%. Il livello di ricchezza del paese è tornato indietro di dieci anni, la mortalità scolastica è al 18% (la media europea è al 14). Ottocentomila sono le donne che, a causa della loro gravidanza, hanno perduto il lavoro e 2 milioni e centomila giovani sono senza lavoro e senza nessuna prospettiva di trovarlo, dal momento che non accedono a nessuna possibile formazione. Ben 15 milioni di italiani (circa il 25% della popolazione) sono a rischio esclusione sociale e 7,5 milioni di individui sono a rischio di povertà cronica; di questi, 1,7 milioni sono già in condizione di grave deprivazione.

Un italiano su quattro, insomma, rischia di lasciare l’universo della cittadinanza per entrare nell’inferno dei senza diritti. E siccome anche nella crisi c’è chi la paga più degli altri, si registra che nelle regioni del Sud il 57% delle persone vive a rischio di povertà: nel biennio 2008-2009 più della metà delle persone che hanno perso il lavoro (532.000 di cui 501.000 giovani sotto i 29 anni) erano residenti al sud, dove l’occupazione si è ridotta di 280.000 unità. E, più poveri tra i poveri, i lavoratori extracomunitari, dove pure assunti regolarmente, segnano una retribuzione inferiore del 24% rispetto a quelli degli italiani.

Le famiglie italiane, un tempo al primo posto in Europa per quota di risparmio, hanno ormai eroso le risorse accumulate. Lo scorso anno la propensione al ribasso è stata del 9,1, il valore più basso dal 1990. Cresce ogni anno il numero delle famiglie che non sono in grado di pagare le utenze domestiche (11,1), che non riescono ad affrontare spese impreviste di 800 euro (33,4), che non possono permettersi di pagare un riscaldamento adeguato per le case nelle quali abitano (11,5), che non possono permettersi nemmeno una settimana di ferie all’anno (39,7) e neanche un pasto adeguato ogni due giorni (6,9).

Sono cifre, queste, che raccontano il declino di un paese che resta tra i primi dieci del mondo per Pil, ma che vede accumularsi la sua ricchezza in fasce sempre più ristrette di famiglie a scanso di una povertà crescente che investe ormai, come si vede, almeno il 30% della popolazione, con una tendenza sempre crescente nella divaricazione della forbice sociale.

E l’assoluta mancanza di qualunque politica si sostegno allo sviluppo segnerà pesantemente anche il prossimo periodo. Finiti i risparmi, se nessuno avrà pensato alla crescita, il lavoro seguirà il trend dell’assoluta precarietà e di una produzione delocalizzata, ovvero low cost, non prima di aver reso superflua ogni traccia di diritto del lavoro, e si abbatterà una nuova emergenza non più solo sui giovani, ma anche sugli over 50. Una disoccupazione senza welfare che si tradurrà in nuova, cronica povertà. Solo che questa volta non avremo nemmeno più la casa di proprietà. E Termini Imerese non sarà un caso, così come non sarà più solo Marchionne il nuovo fenomeno dell’imprenditoria italiana.

Quello che manca è un disegno sul futuro, manovre per uscire dalla depressione che è rimasta dopo la crisi del biennio appena passato, una politica per la crescita che persino per ammissione di Tremonti non è buona. Ovviamente il Ministro non ci sta all’analisi del rapporto ISTAT e continua a parlare di un paese ricco, il cui bilancio ha tenuto (anche se omette di spiegare il come). Non dice il ministro che la ricchezza di alcuni è speculare all’impoverimento di tanti altri (ceto medio in modo particolare) e che la media del benessere non dice sulla distribuzione dello stesso, con l’aggravante, tutta moderna, per cui chi esce dal circuito virtuoso della società non ha più alcuna mobilità in ingresso. Si è mobili per la disoccupazione, ma non per tornare ad essere occupati. La storia delle industrie storiche del paese lo conferma.

Tremonti sostiene che i numeri vanno interpretati e questo è vero: prima ancora che interpretati, però, vanno letti oggettivamente e quello che raccontano, in fondo, sono la rappresentazione di uno scenario che tutto il paese conosce.

Ad aggravare ulteriormente il quadro, è arrivata la relazione della magistratura contabile dello Stato. La Corte dei Conti, infatti, sull’onda dei numeri ISTAT, annuncia altri anni di rigore (intervento del 3% l’anno per rientrare del debito, come imposto dall’Europa) che renderanno impossibile qualunque riduzione della pressione fiscale. Una manovra da 46 miliardi ci attende all’orizzonte e l’ironia del Ministro Tremonti ci invita ad affrontarla con un approccio a metà tra la “sopravvivenza” e il “tiriamo a campare”. Per la crescita c’è tempo dice il governo, dimenticandosi di Confindustria, e ricordando alla chetichella di non poter ridurre la pressione fiscale. O meglio di non poterla ridurre a tutti, perché rimane al posto di sempre la vergogna dell’evasione, alfa e omega di tutta l’iniquità del sistema economico italiano per il quale questo, come altri governi, non hanno saputo e voluto fare granché.

Il Paese, sfugge ai buontemponi di Palazzo Chigi, è già impoverito. E’ l’esodo dei nostri cervelli a dirlo, è l’abbandono scolastico in crescita a confermarlo. Ed è proprio l’inerzia dei nostri amministratori davanti a tutto questo a dirci che i numeri dell’ISTAT suscitano un legittimo allarme per tutto quello che non ci dicono di domani, più che per quello che raccontano di oggi. 

 

 

di Cinzia Frassi

Ad una manciata di giorni dai ballottaggi a Milano e a Napoli, la politica continua il suo percorso e da un'aggiustatina alla strategia elettorale. A Milano Letizia Moratti cerca di dare un tono diverso alla campagna elettorale molto aggressiva del primo turno, che l'ha portata ad una percentuale di 7 punti sotto al rivale Pisapia. Dopo la trovata geniale, risoltasi in un autogol senza precedenti, del faccia a faccia su Sky, Letizia offre candidamente le sue scuse, condizionate però ad un confronto politico con l'ex condannato, poi ammnistiato quindi assolto Pisapia.

Questi, giustamente, gliele rimanda indietro e la lascia ancora con la mano tesa, come a fine trasmissione su Sky, dicendo che "di solito chi chiede scusa, ancorchè dopo otto giorni e una sconfitta elettorale, non pone condizioni se pensa sinceramente di aver sbagliato". Il momento del confronto, aggiunge Pisapia, sarà necessariamente domenica 29 e lunedì 30 maggio.

Ma Letizia Moratti non si dà per vinta e mentre incassa i fischi al presidio promosso dalle associazioni dei disabili per denunciare i tagli decisi dal governo, davanti a striscioni che paventano il pericolo della sinistra estremista alla guida della città, ecco che inizia a snocciolare qualche promessa. Cioè qualche regalino, un piccolo premio in cambio del voto: abolizione dell'Ecopass, sosta libera per i residenti anche sulle strisce blu nel loro quartiere, sconti sui parcheggi per i negozianti e allargamento degli orari per il carico e scarico delle merci. Accanto alle promesse elettorali dell'ultimo momento, c'è la solita vecchia retorica che paventa il nemico rosso. Ecco, questa è la strategia targata Moratti per vincere il ballottaggio contro il suo avversario: il terrorismo alla Bossi, qualche comparsata del cavaliere e le promesse elettorali dei momenti di saldo.

Proprio oggi Berlusconi alza ancora i toni: con Pisapia zingari e comunisti, Milano non sarà in mano a comunisti e centri sociali. E ancora: “Pisapia vuole Milano come Stalingrado”. Nelle sue numerose (e rigorosamente senza contradditorio) comparizioni televisive dice di voler spiegare ai milanesi “il programma di un sindaco sostenuto dalla sinistra estrema e integralista, un programma incompatibile non solo con l'Expo 2015 ma dannoso per famiglie ed imprese, perché prevede più tasse, un grande centro islamico, il voto amministrativo agli immigrati, il blocco degli sgomberi dei rom e il riconoscimento agli zingari della possibilità di autocostruzione. A Milano, la sinistra vuole fare la Stalingrado d'Italia".

Intanto Carlo Verna, segretario dell'Usigrai, riguardo proprio allo spazio tv concesso al capo del governo, dichiara che “i giornalisti della Rai hanno una loro dignità e si dissociano apertamente da quest’uso spregiudicato e folle di una risorsa di tutti, il servizio pubblico, che dovrebbe quindi garantire tutti". Dal canto suo Pisapia sembra intenzionato a voler consolidare i consensi e il vantaggio del primo turno ma anche lui alza i toni.

Soprattutto non risparmia risposte puntuali alle provocazioni dello staff elettorale del sindaco uscente e di tutto l'entourage al completo venuto su per darle man forte. Le fila del governo per il ballottaggio di Milano trascinano il dibattito su argomenti che stuzzicano quegli elettori che hanno disertato le urne e i famosi indecisi intercettati a quanto pare da Pisapia. Soprattutto puntano a impressionare le tasche dei milanesi e mandano avanti lo stereotipo dello straniero che ruba il lavoro. Tutti temi da Lega nord. Così, tra le righe delle battute del cavaliere si scorge chiaramente il suggeritore Bossi che non ci sta a perdere proprio nel profondo nord, dove solo tre anni fa aveva portato a casa un incontestabile incremento dei consensi.

Pisapia dal canto suo cerca di smontare quelle stesse argomentazioni, parlando di promesse elettorali del governo al ricatto della Lega e mostra le contraddizioni e le strumentalizzazioni del suo programma. Per esempio chiarisce che mentre fino a un mese fa la Moratti era favorevole ai referendum ambientali di giugno, ora si pronuncia così sull'Ecopass. A proposito della moschea chiarisce che “Bossi e tanti elettori della Lega non sanno che il centro multiculturale è già previsto dal piano di governo del territorio approvato dal centrodestra”. Pensa di riuscire così a vincere il secondo turno.

Ancora più alti, se possibile, i toni tra De Magistris e Lettieri a Napoli. Anche qui Berlusconi punta sull'argomento di sempre, quello sul quale tutti guadagnano e che nessuno intende quindi risolvere: a'monnezz'. Direttamente dal Tg2 il capo del governo urla che "la tragedia dei rifiuti l'avevamo risolta in soli 58 giorni. La sinistra dovrebbe chiedere scusa a Napoli e invece ha la sfrontatezza di chiedere il voto e per di più sotto mentite spoglie, quelle di un magistrato d'assalto che non ha alcuna esprienza amministrativa e gestionale".

Il 38% di Lettieri, imprenditore, ex presidente della sezione napoletana di Confindustria, non è stato sufficiente per evitare il ballottaggio con l'ex magistrato candidato nelle fila dell'Italia dei Valori, Luigi De Magistris, che si ferma a poco più del 27%. I confronti televisivi tra i due sono scontri aperti, ricchi di secchi insulti. Nessuno tuttavia ha una ricetta vera e propria sul tema di punta dei rifiuti. Da un lato Lettieri punta sul business degli inceneritori mentre il suo sfidante è contrario.

Di traffico di rifiuti tossici, sversamenti abusivi, bonifiche, nessuna idea di rilievo, così come assenti sono le analisi circa i motivi per cui ciò che nel resto del paese è cosa gestibile, sotto al vulcano diventa cosa impossibile. Qui il confronto sembra quasi si stia consumando grazie all'accordo tra il candidato del Pd e quello che sembrava non essere il candidato del Pd, De Magistris. In questo modo il centrosinistra ha finito con il sottrarre, paradossalmente, i voti di Morcone, riuscendo ad andare al ballottaggio sostendendo proprio l'ex magistrato.

Per chi si domanda quale sia la strategia migliore per vincere i ballottaggi, come picchettare gazebo, parlare con le gente, escogitare un programma vincente, Roberto Calderoli risponde: “Non è con i comizi che si attirano i voti o meno, ma la settimana prossima ci sarà una grossa sorpresa di Berlusconi e Bossi che cambierà l'atteggiamento dei milanesi per il ballottaggio". Così si vincono ballottaggi ed elezioni, con boutade e colpi da manuale. Parola di ministro per la Semplificazione.


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