di Fabrizio Casari

Giuliano Pisapia, Luigi De Magistris, Massimo Zedda e Roberto Cosolini sono i nuovi sindaci di Milano, Napoli, Cagliari e Trieste. Sono i nomi contro i quali la crisi della destra al governo si è stampata con ogni evidenza, vista anche la dimensione numerica delle loro vittorie e il fatto che sono spalmate su zone distinte del Paese. Il centrosinistra vince otto ballottaggi su undici e forse, come ironicamente ha dichiarato Bersani, il PDL dirà che si è trattato di un pareggio.

E invece è un cappotto vero e proprio. Per le dimensioni della sconfitta, per l’ubicazione in lungo e largo dell’Italia, è superiore anche alle peggiori previsioni del PDL. I toni terroristici di una Milano che si minacciava invasa da zingari, islamici, spacciatori di droga, ladri di ogni risma, insomma tutto tranne gli alieni, hanno dimostrato come il padrone della destra italiana abbia perso ragione ed equilibrio e, con esse, voti, influenza e credibilità. Con la sua caduta, vengono giù anche i suoi consigliori peggiori, tra i quali spiccano Sallusti e Santanchè, simpaticamente denominati Olindo e Rosa. Colpiva ieri pomeriggio, mentre erano ancora in corso lo spoglio, la home page di Libero, uno degli house organ di Arcore, che titolava: “E adesso godetevi il comunismo”.

Evidentemente, il perseverare negli errori è una caratteristica ineliminabile di una compagine ideologica e isterica che, priva di cultura politica, non può tollerare il giudizio degli elettori che hanno deciso di cacciare la destra dal governo di Milano, dove da 20 anni dettava legge. D’altra parte, una campagna elettorale con i toni come quelli usati dalla destra, è stata ritenuta unanimemente un fallimento di comunicazione politica. E’ vero, ma la questione andrebbe analizzata sotto un altro aspetto: consapevoli dell’aria di sconfitta che tirava in tutta Italia, hanno scelto di giocarsi la carta della disperazione, le bugie, gli insulti, le false promesse, nel disperato tentativo di provare a spaventare l’elettorato per cercare d’invertire la tendenza.

Hanno tentato di tutto, proprio su Milano, consci dell’importanza politica e simbolica del capoluogo lombardo, per cercare di ribaltare il risultato del primo turno: le follie, le finte gaffes di Vespa, l’occupazione militare dei telegiornali in sommo sprezzo delle regole, i toni urlati e paradossali e quelli più pacati. A quest’ultima specie va ascritta la circumnavigazione dell’emittenza pubblica e privata del volto di Cl a Milano, Lupi, spedito a girare come una trottola per ogni studio televisivo a cercare di recuperare i danni provocati dalla coppia Sallusti-Santanchè.

Ma non è stato sufficiente. Perché proprio il voto di Milano è andato assumendo, dal primo turno al ballottaggio, il sapore della sfida politica al cuore dell’impero berlusconiano e del maggiore insediamento leghista (questi ultimi, tra l’altro, perdono persino Novara, roccaforte piemontese del partito di Bossi). Milano è stata la culla, dal Risorgimento ad oggi, di tutti i grandi processi di trasformazione politica, economica e sociale del Paese ed è per questo che il suo voto era così importante per entrambi gli schieramenti. Milano, da sempre, anticipa i processi che si ampliano poi a livello nazionale.

La sconfitta di Berlusconi sotto al Duomo (simbolicamente bissata persino dalla sconfitta ad Arcore) ne è il segno politico evidente. Il crepuscolo del berlusconismo e di Berlusconi in prima persona è cominciato ed è l’aspetto decisivo della crisi della destra che, in Italia almeno, non è mai stata altro che la strenua difesa degli interessi del suo proprietario. E il voto di Milano, come quello di Napoli, dove diventano sindaci due esponenti dell’opposizione di sinistra non targati PD, dimostra ulteriormente che più che una vittoria del partito di Bersani (il cui contributo è stato, ovviamente, determinante) è la vittoria dell’antiberlusconismo, inteso come messaggio di contenuto e stile di governo.

Napoli ha giudicato insopportabile il fiume di balle e mancate promesse del capo dell’esecutivo e, pur non soddisfatta del governo uscente (l’ha fatto capire chiaramente al primo turno), ha ritenuto di dover cambiare guardando a sinistra, perché una sinistra inedita è foriera di speranza, mentre la destra partenopea è una delle parti peggiori della destra italiana.

Il voto, da nord a sud, dalla Sardegna a Trieste (dove il centrosinistra vince anche la Provincia) da Crotone a Macerata, racconta dello sgretolamento progressivo del blocco sociale della destra berlusconiana. E’ un verdetto preciso che esprime un’inversione di tendenza nell’elettorato, che presenta il conto per quindici anni (su venti complessivi) di governo che hanno stremato il paese sotto il profilo economico, sociale e politico. E proprio di fronte all’emergenza economica e sociale e alle incombenze pesanti che gravitano sull’Italia, una parte consistente dell’elettorato moderato ha ritenuto di dover ritirare il credito che pure aveva offerto in passato. Altro che “rafforzare l’azione di governo”, come afferma Lupi: è proprio questo governo che persino gli elettori moderati non vogliono continuare ad avere.

Milano, infatti, dimostra soprattutto una cosa: che la borghesia milanese, conservatrice o progressista che sia, stanca dell’insipienza governativa e dell’incapacità di ascolto a fronte della volgarità galoppante, ha deciso che Berlusconi ed il berlusconismo debbano passare all’archivio della storia del paese, che di tutt’altro ha invece bisogno. Pensare di dipingere uno dei suoi figli, da tutti conosciuto e stimato per le idee e i modi, gentili e misurati, come una specie di Attila ai confini dell’impero, è stato un errore di comunicazione fatale per la destra. Vedere i maggiordomi del bunga-bunga dare dell’immorale ad una persona per bene, composta e colta, è stato il paradosso ignorante e decisivo per la sconfitta del berlusconismo.

Per Salvini, della Lega Nord, il voto di Milano è stato un voto contro Berlusconi, mentre per Cicchitto non si può parlare di “fine del berlusconismo e di Berlusconi”. Ma sono solo i primi colpi che tendono a presentare uno dei prossimi scenari possibili: la presa di distanza della Lega da Berlusconi e, con essa, la fine del PDL e del governo. Bossi e i suoi dovranno, infatti, riflettere a fondo sul costo che potrebbero pagare continuando a tenere in vita il governo, e le difficoltà e le sconfitte dei suoi candidati raccontano bene la crisi di credibilità che la stessa Lega ha presso i suoi elettori. Un segnale d’allarme serio, non certo trascurabile o addossabile per intero al cavaliere.

Se si riproporrà la rottura del 1994 o si sceglierà l’appoggio esterno è ancora presto per dirlo: ma la consapevolezza del ciclo politico che si è chiuso, a Via Bellerio l’hanno ben presente. Insomma, una resa dei conti appare all’orizzonte: magari non assumerà nell’immediato la forma della rottura pubblica ed evidente, ma se verrà confermata la disponibilità annunciata ad una nuova legge elettorale sarà il segno che, in prospettiva, prima ancora della tenuta di questo governo, la Lega si prepara ad andare avanti da sola.

Il disastro elettorale apre uno scontro interno al variegato mondo della destra italiana e già si annunciano i primi colpi bassi. Il partito dell’amore si prepara alle stilettate dell’odio.

 

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