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di Mariavittoria Orsolato
Oggi una manifestazione da Gaglione a Chiomonte chiuderà il campeggio No Tav che va avanti dal 15 luglio. Quello di quest’anno è il dodicesimo campeggio, ma mai prima d’ora l’attenzione dei media e delle forze dell’ordine era stata così asfissiante e soprattutto così male indirizzata. Scorrendo i servizi delle maggiori testate italiane, i toni e le immagini fanno ripensare ai giorni del G8 e al misto di violenza e mistificazione che venne perpetrato ai danni del movimento altermondista.
Come a Genova, anche in Val Susa gruppi di persone che si auto-organizzano stanno provando a contrastare un progetto imposto dall’alto. Come i no-global - che poi in realtà no-global non erano per nulla, anzi - anche i No-Tav sanno in partenza che l’iniziativa presa dalla politica e voluta dalle lobbies è destinata ad essere fallimentare, enormemente costosa in termini economici e sociali.
Per i promotori si tratterebbe di un progetto “strategico” del quale l’Italia non può proprio fare a meno: senza quel supertunnel ferroviario di oltre 50 km di lunghezza (sotto una delle parti a più alta concentrazione di amianto delle Alpi) l’Italia è destinata a un declino epocale, tagliata per sempre fuori dall’Europa. Balle. Se mai l’Italia dovesse essere estromessa dall’UE, i problemi sarebbero i buchi nelle casse statali ed una politica economica suicida, e gli abitanti della valle lo sanno.
Sanno anche che per quanto il trasporto su rotaia sia più apprezzabile che quello su gomma, un’opera colossale come la Tav - con oltre 70 chilometri di gallerie, dieci anni di cantiere, decine di migliaia di viaggi di camion, materiali di scavo da smaltire, perforatrici, migliaia di tonnellate di ferro e calcestruzzo, oltre all’energia necessaria per farla poi funzionare - non è certo preferibile nell’ottica costi/benefici. Sono poi a conoscenza di un rapporto del 2003 della Direction des Ponts et Chaussées francese (gli ingegneri del genio civile d’oltralpe) che afferma che riguardo al trasferimento modale tra gomma e rotaia, la Lione-Torino sarà del tutto ininfluente.
I valligiani, numeri alla mano, sanno che il costo ufficiale della tratta internazionale è 10,3688 miliardi di euro - di cui quasi 7 a carico dell’Italia - e che il costo della tratta nazionale è di circa 5, 16 miliardi di euro; e sanno anche che, dato che i 10 anni di tempo preventivati per portare a termine l’opera non verranno mai rispettati, con gli interessi, il totale a carico dello Stato diventerà complessivamente di 17,2002 miliardi di euro.
Praticamente due finanziarie, cifre che in questi tempi di vacche anoressiche sono assolutamente fuori dalla portata della tasche nazionali. E il bello è che anche nel momento in cui la Tav dovesse funzionare, la linea non sarà mai in grado di ripagarsi e diventerà fonte di continua passività, trasformandosi in un asfissiante cappio fiscale per tutti i cittadini, non solo i valligiani.
Gli abitanti della Val Susa sanno poi del pericolo reale delle infiltrazioni malavitose nella gestione dei cantieri e dei fondi stanziati: proprio il 27 giugno, mentre a Chiomonte fumavano i lacrimogeni, la corte d’appello di Firenze mandava assolti i dirigenti del consorzio Cavet, condannati in primo grado per l’inquinamento e lo smaltimento illecito di rifiuti, durante lo scavo delle gallerie per l’Alta Velocità nella zona del Mugello. Inevitabile, quindi, che quella contro il treno diventasse solo una parte della battaglia.
Di fronte alla contestazione ragionata di un progetto oggettivamente negativo, lo Stato si è barricato e sta cercando di ricreare il clima che fu delle giornate di Genova, perché “il nemico” è fondamentalmente lo stesso. Tra i due movimenti, è innegabile, si è creata una sorta di forza centripeta per cui il variegato mondo del dissenso - antagonisti, anarchici, ambientalisti, studenti e operai, sindaci ed amministratori locali - ha deciso di riunirsi sotto il vessillo del treno sbarrato.
Non è stato semplice. Si è dovuti passare per lutti come quelli di Sole e Baleno e battaglie come quella di Venaus, ma alla fine, mortificato dai poteri forti e stimolato dalla consapevolezza di queste realtà, il movimento No-Tav si è trovato proiettato da una lotta di territorio e contro una grande opera a una battaglia generale sui diritti e sulla democrazia.
In Val di Susa gli scontri, così pittorescamente dipinti dalle veline della Questura torinese e copia/incollati sulle aperture delle maggiori testate nostrane - l’attentissimo Fatto compreso -racchiudono in loro molti dei temi cari al movimento altermondista: la difesa dei beni comuni, la critica a un modello di sviluppo distruttivo, la tutela della Costituzione, l’antimilitarismo, la lotta alla repressione, la democrazia dal basso. E la storia si ripete, tristemente autoreferenziale nel suo copione.
La protesta, che come a Genova ha assunto le forme della creatività e della disobbedienza civile, ha dovuto fare i conti con i metodi repressivi imposti da quelli per cui la Tav s’ha da fare, sinistra (sic!) compresa. In questo mese i valligiani e i tanti accorsi per unirsi a quella che è ormai resistenza, hanno dovuto fare la conoscenza dei lacrimogeni al CS, sparati ad altezza d’uomo anche all’interno del campeggio - un fotografo è tutt’ora ricoverato con gravi fratture al volto - e fronteggiare la “macchina del fango” mediatica che, dopo aver bruciato la carta black-block, ci prova col dossieraggio a carico di alcuni manifestanti.
A chi dissente e manifesta, lo Stato riserva repressione. Ci sono gli idranti, i fogli di via, le criminalizzazioni come quella dell’incendio alla stazione Tiburtina di Roma, in un primo movimento attribuito ai No-Tav. Nessuno spazio per le molte evidenze tecniche e scientifiche, nessuna attenzione al rapporto costi/benefici e all’effettiva utilità dell’opera.
Non bisogna stupirsi perciò se il fronte No-Tav ha raccolto tutta quella serie di istanze che da anni si oppongono ad una gestione suicida della cosa pubblica e alla repressione sistematica delle forme organizzate di dissenso. Quando l’ingiustizia diventa legge, diceva Brecht, la resistenza diventa un dovere. E questa è la prima cosa tra le tante che i valligiani sanno.
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di Rosa Ana De Santis
La Camera ha respinto per la seconda volta la legge sull’omofobia che voleva riconoscere sul piano normativo delle aggravanti per le discriminazioni di natura sessuale ai danni degli omosessuali. La proposta era nata anche sull’onda di episodi di cronaca che in una pericolosa escalation avevano contato numerose vittime di violenza e di abusi e aveva conquistato una credibilità trasversale per l’impegno del Ministro Mara Carfagna (svanito presto) e di Paola Concia del Pd che l’aveva sostenuto con forza con molte altre deputate.
La legge crolla in aula per le pregiudiziali di costituzionalità. Udc, Pdl e Lega hanno espresso i loro 293 SI alle pregiudiziali contro i 250 uniti per il NO. Gli astenuti sono stati 21, tra cui brilla con sfacciata incoerenza politica proprio il nome del Ministro delle Pari Opportunità che aveva ingaggiato, almeno sulle copertine dei rotocalchi, la battaglia contro le discriminazioni sessuali con tanto di manifesti a crocette e di foto di gruppo al fianco di Vladimir Luxuria.
Le ragioni del Pdl o quelle della Lega ruotano tutte intorno al rifiuto di quella protezione privilegiata che la legge avrebbe offerto alle vittime di discriminazioni sessuali. Un principio che, secondo loro, farebbe a pugni con l’eguaglianza dei cittadini a prescindere da sesso, credo religioso e politico come affermato dalla nostra Costituzione. Peccato che l’eguaglianza scritta sulla carta e di assoluta inappuntabilità formale spesso ha bisogno di essere “riempita” di contenuti speciali laddove la realtà non coincide con la giustizia, l’essere con il dover essere.
Tra l’altro, risulta stupefacente che il Pdl, che chiede ogni due giorni le modifiche alla Carta invocandone un suo presunto superamento, nell’occasione sia così attento ad ossequiarne il testo, guardandosi bene dallo spirito e dal senso profondo che i padri costituenti vollero dare all’uguaglianza. Proprio la lettera della Carta, dove invoca uguaglianza rispetto ai sessi, pone con forza il rifiuto della discriminazione e apre quindi ogni possibilità alle sanzioni per chi discrimina. Dunque, un’aggressione contro una persona perché gay non riduce a reato comune il fatto, ma lo carica semmai dell’intento discriminatorio che dovrebbe trovare una sanzione appropriata in sé.
Il governo e i cattolici ossessionati dai gay ricorderanno che qualcosa di analogo è stato fatto per la violenza sessuale ai danni delle donne. La legge stabilisce che una violenza ai danni del corpo femminile non può essere uguale alla violenza fisica tout court, ha qualcosa di diverso in sé, più grave e tale da meritare un’aggravante speciale. Stessa cosa per le molestie a carattere sessuale o per le famose quote rose da inserire nella rappresentanza. Del resto quando la violenza e la discriminazione hanno una finalità di tipo razziale e xenfobo sono più gravi della violenza”punto e basta”.
La Lussana, voce della Lega, ha provato in aula a smontare la proposta di legge proprio evidenziandone le insidie del principio di eguaglianza, senza capire che non si sarebbe trattato di inficiare il principio di eguaglianza, ma di declinarlo secondo quelle che sono autentiche emergenze sociali.
Il Ministro, promotore della battaglia di civiltà, avrebbe potuto ricordare ai suoi amici di partito che l’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge è proprio ciò che molti cittadini non hanno “di fatto”. Gli omosessuali non sono uguali agli altri cittadini. Subiscono numerose discriminazioni, non sono riconosciute le loro unioni, non hanno gli stessi diritti per una casa popolare o dentro gli ospedali. E ora un’aggressione di tipo sessuale passerà per una rissa come tante. Il presidente della Camera non ha potuto fare altro che registrare il voto, ma ha espresso la sua personale posizione contro le pregiudiziali.
La legge muore prima di nascere, nel tradimento del Ministro che avrebbe dovuto difenderla e nell’ostinazione di chi rifiuta culturalmente la condizione degli omosessuali a tal punto da non vederne le prevaricazioni subite e le mille forme di esclusione sociale da cui sono vessati.
L’Italia con questo voto ha scelto di non recepire il Trattato di Lisbona che ha impegnato l’Europa contro tutte le discriminazioni sessuali (omosessuali, lesbiche e trans). Ancora una volta siamo fuori o indietro. E’ questo il marchio di casa nostra, in una carambolesca adorazione di quel principio di eguaglianza che è così facile da difendere se tanto non cambia nulla nella realtà. Diceva Hegel “tanto peggio per i fatti”.
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di Giovanni Gnazzi
Un delirio fondamentalista ha colpito la destra italiana. In una simultaneità oraria, mentre i suoi esponenti parlamentari bocciavano la legge contro l’omofobia, il volto peggiore e delirante della compagine, l’eurodeputato leghista Borghezio, si lanciava in lodi alle tesi folli del nazi-cristiano norvegese Breivik, autore della strage di Oslo. Non è da meno l’ex ministro Speroni, quello del cravattino e dei 360 all’ora in autostrada. Sembrerebbero eventi e temi distanti tra loro; il primo, sull’omofobia che non esiste, frutto di una concezione della libertà e dell’uguaglianza degna del peggiore darwinismo sociale, che prevede la sapiente amministrazione delle stesse a danno delle potenziali vittime.
Il secondo, invece, frutto del delirio di quello che si vorrebbe un mentecatto ma che, in fondo, commette solo l’errore di non utilizzare il filtro tra le farneticazioni mentali e quelle verbali che altri, nel suo stesso partito, utilizzano furbescamente. Quanto a Feltri, che rimproverava i giovani sterminati dal nazista norvegese di non saper reagire, sarebbe auspicabile che a lui, come ai suoi amici, gli venisse tolta la scorta, visto che loro tanto sanno reagire. Risparmieremmo denaro dei contribuenti e avremmo un divertimento assicurato.
Ma nonostante si possano leggere come fatti distinti e distanti fra loro, i due momenti di teologia integralista applicata sono molto più vicini di quel che sembra, pur se manifestati con toni e parole diverse. La concezione dello Stato etico, il culto del cristianesimo della Vandea come dimensione giuridica dell’organizzazione sociale ed elemento regolatore dei rapporti tra gli individui, sono l’humus di cui è pervaso una buona parte del centrodestra italiano, in particolare la Lega e le frattaglie neonaziste che trovano spazio e ruoli dentro l’inguardabile schieramento dei berluscones.
La Lega, del resto, della Vandea è sempre stata idolatrante, basta ricordare Irene Pivetti che, da Presidente della Camera dei Deputati, indossava al collo la catenina con il suo simbolo. E tutta la propaganda cialtrona dei figli del Po ha sempre avuto al centro simboli, tesi e metodi da crociati invasati. Il Carroccio, infatti, si è dissociato da Borghezio, ma si guarda bene dal cacciarlo. Persino il Front National francese, guidato da Marine Le Pen, ha dovuto reagire sospendendo Jaques Coutela, candidato alle prossime amministrative, che aveva definito Breivik “ un resistente, un’icona, un nuovo Carlo Martello in lotta contro l’invasione musulmana”. La Lega no: critica, ma non caccia Borghezio né Speroni.
Perché l’islamofobia, come l’omofobia, sono il pane quotidiano con cui la destra italiana e la Lega in particolare si nutrono. Sono il legame più profondo con il rigurgito dei movimenti neonazisti che, in tutta l’Europa del nord e dell’est, stanno riprendendo vigore, approfittando della crisi economica, sociale e, soprattutto, culturale del continente. Il neonazismo, nella sua dimensione italiana, non va ricercato tanto e solo negli ex-appartenenti al Msi o ai suoi emuli a tempo scaduto; è invece nella Lega Nord che va individuato il filone principale dell’odio razziale, dell’isterìa cavernicola del fondamentalismo cristiano, i prodrom del nuovo fascismo.
E desta stupore che le parole di Borghezio non abbiano ricevuto una pronta e dura reprimenda da parte del Vaticano. Sarebbe stato necessario, infatti, dire con forza che la Chiesa non prevede l’odio e l’intolleranza, che la cristianità non prevede il razzismo e che i deliri dell’assassino norvegese non possono trovare accoglienza nella famiglia dei cristiani.
E invece no, almeno non ancora. Non si dica, per favore, che la Santa Sede non s’inchina a rispondere ad un disgraziato come Borghezio: per molto meno e per personaggi con ruoli minori da un punto di vista istituzionali da San Pietro sono partite scomuniche e reprimende. O si è invece troppo occupati a festeggiare la vittoria in aula contro l’omofobia?
Resta comunque un fatto, aldilà di ogni interpretazione possibile: un esponente della Lega Nord, componente determinante del governo italiano, pensa che le tesi del nazista cristiano Breivik siano condivisibili e altrettanto afferma un ex-ministro italiano. A loro dire, Breivik magari avrà sbagliato metodo nel diffonderlo, ma che ciò che pensa e dice é “ottimo”.
Mai tanta vergogna aveva inondato l’Italia, almeno dai tempi nei quali con la benedizione del Papa i rastrellamenti nazi-fascisti contribuivano alla Scioah. Sarà curioso vedere come la stessa ambasciata italiana ad Oslo troverà la faccia per partecipare ai futuri momenti commemorativi che il governo norvegese ha messo in agenda. Compito arduo quello di separare ciò che é inseparabile. Per quanto civile e composto, il governo di Oslo sa riconoscere e definire gesti e parole. E chiunque auspica la libertà di parola per chiunque, nel caso di Borghezio farebbe certamente un’eccezione.
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di Sara Seganti
La partecipazione riparte dal basso. Dopo la vittoria di Pisapia a sindaco di Milano e l’importante passaggio dei referendum di giugno, anche Zingaretti, l’attuale presidente della Provincia di Roma, ha intensificato i rapporti con la società civile in vista della sua prossima candidatura a sindaco della Capitale. Zingaretti ha, infatti, preso parte all’incontro “Per il bene di Roma” organizzato nel cuore di Testaccio dalla rete "La città di tutti" che riunisce 130 associazioni di cittadini romani interessati a partecipare attivamente alla politica della capitale e che ha, in pratica, conferito a Zingaretti l’investitura “dal basso” per le prossime elezioni, in stile Pisapia.
Il fenomeno, che vede la società civile riassumere su di sé quella delega che ha smesso di concedere in bianco alla politica e ai partiti, presentandosi come interlocutore attivo e competente, in grado di orientare l’azione per il bene pubblico nelle direzioni giuste, è in totale antitesi con il clima d’intrigo che regna incontrastato nei palazzi del potere.
In questi giorni, infatti, per la prima volta in 27 anni il parlamento italiano ha consentito un’autorizzazione a procedere per un deputato, minando così il principio di totale immunità che de facto era sempre stato garantito dall’occupare uno scranno alla Camera. Ciò che è avvenuto al deputato Pdl, Alfonso Papa, indagato per concussione e al centro dell’inchiesta sulla P4 avrebbe potuto rappresentare un momento di buon costume parlamentare: una risposta fattiva all’ondata di anti-politica che serpeggia nel paese.
Purtroppo così non è stato: la nostra classe politica non riesce più ad uscire dalla bagarre e dalla contrapposizione formale, incurante di cosa pensano coloro che stanno fuori dal palazzo. Complice anche una legge elettorale figlia del suo tempo, definita porcellum dal suo stesso creatore, che non permette più di esprimere preferenze dirette e finisce per mandare in parlamento solo gli unti dal leader. Cosa ne è di una democrazia parlamentare se la delega tra gli eletti e gli elettori non funziona più?
Il coinvolgimento attivo della società civile - secondo l’idea che unicamente coloro che conoscono direttamente il territorio e i suoi problemi possano mediare tre le diverse esigenze e, contemporaneamente, essere più indipendenti rispetto a chi è sempre concentrato sulla raccolta di voti - è una risposta sufficiente alla crisi della rappresentanza, rappresenta un futuro per le democrazie?
Senza voler citare, ancora una volta, l’anomalia italiana del berlusconismo che, pure, costituisce buona parte del problema, e cercando di capire le profonde motivazioni della crisi della rappresentanza occorre guardare, oltre la nostra storia nazionale, anche ai recenti cambiamenti globali. Perché il mondo ampliato e interconnesso, la nuova società tecnologica e la crescente interdipendenza delle economie nazionali sono fenomeni che hanno modificato radicalmente l’universo all’interno del quale agisce la politica.
L’idea sostenuta da molti è che, in uno scenario globalizzato, la politica non abbia più le competenze necessarie per regolamentare settori complessi e interconnessi all’interno di un quadro di legge coerente. In questo contesto, l’entusiasmo per il ruolo svolto dalle associazioni, dalle fondazioni e dai comitati, è legato (e non solo in Italia) all’idea di governance, termine mutuato dalla gestione del privato, che sembra aver conquistato i pensatori politici al punto da decretare la fine della politica, così come l’abbiamo conosciuta, per far posto agli esperti, alla società civile e ai tavoli di negoziazione divisi per settori.
L’Unione Europea regola già molti settori usando questa nuova modalità di coinvolgimento dei diversi interlocutori, riattualizzando in parte il funzionamento dei tavoli sindacali. Le nuove parole chiave sono partecipazione dal basso, mediazione, trasparenza, e internet.
Non può passare inosservata, tra gli esempi recenti di una nuova via alla cittadinanza, la recente esperienza dell’Islanda che oggi sta riscrivendo la sua costituzione, con un sistema di consultazione dal basso, via internet. L’Islanda è un piccolo paese con 300.000 abitanti che non permette paragoni con la nostra realtà, ma la sua recente parabola può essere uno spunto di riflessione.
L’Islanda entra in crisi nel 2008, prima del fallimento di Lehman Brothers, passando in pochi mesi da uno dei tenori di vita più alti del mondo all’insolvibilità, conseguenza di una deregulation finanziaria sfrenata. La cosa interessante è che gli islandesi sono riusciti a far cadere il governo e a rifiutarsi di ripagare il debito contratto principalmente con Inghilterra e Olanda, vincendo pochi mesi fa un referendum con il 90% dei voti.
Nel momento in cui hanno dichiarato fallimento, gli islandesi hanno iniziato un processo di democrazia dal basso per riscrivere, o meglio per migliorare, la carta costituzionale e rifondare un patto sociale, ripensando il rapporto tra politica e mercato. Questo esperimento è condotto in crowdsourcing, partendo dalla rappresentanza diretta e dalle piattaforme di discussione delle proposte sul web.
L’Islanda sta facendo un esperimento nuovo, in un contesto molto particolare: oggi il paese ha ricominciato a crescere, ma è ancora isolato economicamente dall’esterno e ha dimensioni talmente piccole da poter essere paragonato a un comune. Ciò nonostante, l’idea che sia possibile riprendersi la delega e usarla per riscrivere collettivamente le regole della vita pubblica è un’idea forte di cui la politica oggi ha più che mai bisogno.
Queste nuove e varie forme di partecipazione attiva della cittadinanza sono sicuramente una risposta positiva alla ridefinizione degli equilibri, interni e globali, che siamo costretti ad affrontare. Occorre scongiurare il rischio, però, che questa partecipazione diretta si identifichi con l’ideale di una governance incolore, correndo il rischio di decretare, insieme alla fine della politica, anche la fine delle idee.
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di Fabrizio Casari
La nuova manovra finanziaria ha ricevuto il nyet dei mercati. Che abbia superato lo stress-test per gli istituti di credito di venerdì scorso è servito a poco. E’ lecito allora ipotizzare che lo stress-test sulle banche sia stato superato sia per la valutazione sulla tenuta degli Istituti di credito che in virtù delle condizioni politiche straordinarie che avevano segnato il passaggio della manovra al Senato: regia del Colle e opposizione responsabile (anche troppo). Ma, finita la sperimentazione dell’emergenza, è tornata la sostanza della manovra e del suo contesto politico e, con esse, anche i rischi per le banche italiane. La speculazione internazionale, certo, ma non solo. I mercati finanziari non si fidano della nuova finanziaria perché, fondamentalmente, non si fidano del governo.
Il motivo è fin troppo evidente: da un lato la manovra si fonda su un solo precetto: non contiene accenni alla crescita e, dunque, è puramente indirizzata sulla riduzione della spesa pubblica senza che questa possa essere, da sola, determinante per il risanamento dei conti. La manovra, infatti, così com’è stata concepita, ha respiro breve ed affannoso, è pura contabilità destinata solo a fare cassa. Una macelleria sociale che non da alcuna indicazione circa la possibilità di far ripartire l’economia; semmai, contiene in sé tutti gli indicatori possibili per un ulteriore depauperamento del tessuto sociale ed economico del Paese.
Ma, più ancora che il merito dei conti, l’elemento di fondo che incide nella valutazione negativa che la Borsa ha voluto esprimere ieri è il giudizio severissimo sul governo, sulla sua capacità di tenuta sia come compagine politica che, ancor più, sulla capacità di gestire la fiducia degli italiani. C’è infatti un elemento indiscutibilmente necessario per una politica economica che preveda rigore dei conti e rilancio dello sviluppo: un governo forte ed autorevole che la ispira. E qualunque manovra che, addirittura, cancelli il rilancio e preveda solo (e male) il rigore, a maggior ragione dev’essere gestita da un Esecutivo e da un establishment forte e in grado di raccogliere il consenso popolare.
Ebbene, nulla di tutto ciò è ascrivibile all’Italia di oggi. Quella che i mercati leggono in profondità, infatti, è la definitiva crisi di credibilità, autorevolezza e consenso del governo, premier in testa. Non si tratta solo e soltanto dell’accavallarsi di ogni tipo di scandali - pure ormai irrefrenabili, come sempre quando si scoperchia la pentola di un regime - quanto della percezione evidente del “rompete le righe” politico che risulta evidente dalle spinte centrifughe che vengono da ogni piega della maggioranza. E’ ormai il tutti contro tutti, il free for all della rissa di governo.
E del resto, azionisti e risparmiatori, hanno un convincimento comune: l’Italia rischia d’affondare se non trova le energie e le idee per ripartire. Energie e idee di cui però, nella finanziaria, non c’è traccia. Si prosegue invece con la logica fin qui seguita e fin qui dimostratasi fallimentare. Qui sta il giudizio negativo sulla manovra e sullo stesso governo. Nessuna manovra economica che aspiri ad avere successo può limitarsi a proseguire con ulteriore e maggiore ferocia sociale le fallimentari politiche economiche del governo Berlusconi. Nessun investitore può scommettere su un paese che appare piegato e piagato, con una classe imprenditoriale inetta ed un governo alla deriva.
La mancanza totale di fiducia degli italiani nel governo, giunta puntualmente con l’apertura delle urne nelle recenti consultazioni amministrative e referendarie, racconta meglio di ogni altro report la fine dell’illusionismo collettivo e si erge invece a sentenza inappellabile circa il bisogno di una nuova fase politica e di governo.
C’è, più in generale, la consapevolezza della fine del regime berlusconiano, dello scollamento evidente tra il blocco sociale che ha consentito negli ultimi diciassette anni d’imbrigliare e imbrogliare il Paese con la favola del buon governo. La metafora poco felice del Titanic con la quale Tremonti ha affrescato alla sua maniera la situazione economica (ci vuole coraggio a chiedere d’investire su una nave che s’inabisserà…) è stata invece ribaltata proprio sul governo, che vede le sue componenti scannarsi per un posto sulle scialuppe di salvataggio. Ma fanno acqua persino quelle. Meglio sbrigarsi a trovare una nave più affidabile, dicono in Borsa; meglio trovarne una decisamente alternativa, dicono le vittime del governo e delle borse.