di Mariavittoria Orsolato

Oggi una manifestazione da Gaglione a Chiomonte chiuderà il campeggio No Tav che va avanti dal 15 luglio. Quello di quest’anno è il dodicesimo campeggio, ma mai prima d’ora l’attenzione dei media e delle forze dell’ordine era stata così asfissiante e soprattutto così male indirizzata. Scorrendo i servizi delle maggiori testate italiane, i toni e le immagini fanno ripensare ai giorni del G8 e al misto di violenza e mistificazione che venne perpetrato ai danni del movimento altermondista.

Come a Genova, anche in Val Susa gruppi di persone che si auto-organizzano stanno provando a contrastare un progetto imposto dall’alto. Come i no-global - che poi in realtà no-global non erano per nulla, anzi - anche i No-Tav sanno in partenza che l’iniziativa presa dalla politica e voluta dalle lobbies è destinata ad essere fallimentare, enormemente costosa in termini economici e sociali.

Per i promotori si tratterebbe di un progetto “strategico” del quale l’Italia non può proprio fare a meno: senza quel supertunnel ferroviario di oltre 50 km di lunghezza (sotto una delle parti a più alta concentrazione di amianto delle Alpi) l’Italia è destinata a un declino epocale, tagliata per sempre fuori dall’Europa. Balle. Se mai l’Italia dovesse essere estromessa dall’UE, i problemi sarebbero i buchi nelle casse statali ed una politica economica suicida, e gli abitanti della valle lo sanno.

Sanno anche che per quanto il trasporto su rotaia sia più apprezzabile che quello su gomma, un’opera colossale come la Tav - con oltre 70 chilometri di gallerie, dieci anni di cantiere, decine di migliaia di viaggi di camion, materiali di scavo da smaltire,  perforatrici, migliaia di tonnellate di ferro e calcestruzzo, oltre all’energia necessaria per farla poi funzionare - non è certo preferibile nell’ottica costi/benefici. Sono poi a conoscenza di un rapporto del 2003 della Direction des Ponts et Chaussées francese (gli ingegneri del genio civile d’oltralpe) che afferma che riguardo al trasferimento modale tra gomma e rotaia, la Lione-Torino sarà del tutto ininfluente.

I valligiani, numeri alla mano, sanno che il costo ufficiale della tratta internazionale è 10,3688 miliardi di euro - di cui quasi 7 a carico dell’Italia - e che il costo della tratta nazionale è di circa 5, 16 miliardi di euro; e sanno anche che, dato che i 10  anni di tempo preventivati per portare a termine l’opera non verranno mai rispettati, con gli interessi, il totale a carico dello Stato diventerà complessivamente di 17,2002 miliardi di euro.

Praticamente due finanziarie, cifre che in questi tempi di vacche anoressiche sono assolutamente fuori dalla portata della tasche nazionali. E il bello è che anche nel momento in cui la Tav dovesse funzionare, la linea non sarà mai in grado di ripagarsi e diventerà fonte di continua passività, trasformandosi in un asfissiante cappio fiscale per tutti i cittadini, non solo i valligiani.

Gli abitanti della Val Susa sanno poi del pericolo reale delle infiltrazioni malavitose nella gestione dei cantieri e dei fondi stanziati: proprio il 27 giugno, mentre a Chiomonte fumavano i lacrimogeni, la corte d’appello di Firenze mandava assolti i dirigenti del consorzio Cavet, condannati in primo grado per l’inquinamento e lo smaltimento illecito di rifiuti, durante lo scavo delle gallerie per l’Alta Velocità nella zona del Mugello. Inevitabile, quindi, che quella contro il treno diventasse solo una parte della battaglia.

Di fronte alla contestazione ragionata di un progetto oggettivamente negativo, lo Stato si è barricato e sta cercando di ricreare il clima che fu delle giornate di Genova, perché “il nemico” è fondamentalmente lo stesso. Tra i due movimenti, è innegabile, si è creata una sorta di forza centripeta per cui il variegato mondo del dissenso - antagonisti, anarchici, ambientalisti, studenti e operai, sindaci ed amministratori locali - ha deciso di riunirsi sotto il vessillo del treno sbarrato.

Non è stato semplice. Si è dovuti passare per lutti come quelli di Sole e Baleno e battaglie come quella di Venaus, ma alla fine, mortificato dai poteri forti e stimolato dalla consapevolezza di queste realtà, il movimento No-Tav si è trovato proiettato da una lotta di territorio e contro una grande opera a una battaglia generale sui diritti e sulla democrazia.

In Val di Susa gli scontri, così pittorescamente dipinti dalle veline della Questura torinese e copia/incollati sulle aperture delle maggiori testate nostrane - l’attentissimo Fatto compreso -racchiudono in loro molti dei temi cari al movimento altermondista: la difesa dei beni comuni, la critica a un modello di sviluppo distruttivo, la tutela della Costituzione, l’antimilitarismo, la lotta alla repressione, la democrazia dal basso. E la storia si ripete, tristemente autoreferenziale nel suo copione.

La protesta, che come a Genova ha assunto le forme della creatività e della disobbedienza civile, ha dovuto fare i conti con i metodi repressivi imposti da quelli per cui la Tav s’ha da fare, sinistra (sic!) compresa. In questo mese i valligiani e i tanti accorsi per unirsi a quella che è ormai resistenza, hanno dovuto fare la conoscenza dei lacrimogeni al CS, sparati ad altezza d’uomo anche all’interno del campeggio - un fotografo è tutt’ora ricoverato con gravi fratture al volto - e fronteggiare la “macchina del fango” mediatica che, dopo aver bruciato la carta black-block, ci prova col dossieraggio a carico di alcuni manifestanti.

A chi dissente e manifesta, lo Stato riserva repressione. Ci sono gli idranti, i fogli di via, le criminalizzazioni come quella dell’incendio alla stazione Tiburtina di Roma, in un primo movimento attribuito ai No-Tav. Nessuno spazio per le molte evidenze tecniche e scientifiche, nessuna attenzione al rapporto costi/benefici e all’effettiva utilità dell’opera.

Non bisogna stupirsi perciò se il fronte No-Tav ha raccolto tutta quella serie di istanze che da anni si oppongono ad una gestione suicida della cosa pubblica e alla repressione sistematica delle forme organizzate di dissenso. Quando l’ingiustizia diventa legge, diceva Brecht, la resistenza diventa un dovere. E questa è la prima cosa tra le tante che i valligiani sanno.

 

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