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di Fabrizio Casari
Quattro SI messi insieme fanno un NO enorme. Poche volte, in passato, un quorum aveva così ben rappresentato un giudizio popolare complessivo sul governo, le sue politiche economiche e sociali, il suo conflitto con la Costituzione, prima e oltre che quello con le altre istituzioni dello Stato. Il quorum, atteso e temuto, è arrivato come uno tsunami sui flutti del governo che ha tentato ogni mossa, anche la più furbetta, anche la più indegna, per evitarlo. Non sono servite a nient’altro che a determinare l’entità e il peso della sconfitta dell’Esecutivo. Ventisei milioni di italiani hanno dato inizio alle pratiche di divorzio tra la destra e il Paese.
Non è bastato il silenzio stampa da parte dei grandi media, siano essi privati o pubblici al servizio di un privato. Non è stato sufficiente nemmeno cercare di disincentivare l’affluenza alle urne con inviti diretti a non votare, spalmati in lungo e largo dalle dichiarazioni del Premier fino alle previsioni del tempo del Tg minzoliniano. E nemmeno l’ultimo, disperato tentativo d’includere gli italiani residenti all’estero con la speranza di aumentare ulteriormente la soglia del quorum ha avuto successo.
Il popolo italiano, attivatosi sui territori, nei posti di lavoro, sulla rete web, è sceso in campo nel vero senso della parola, riscoprendo il gusto e il piacere della mobilitazione, dello schierarsi contro un pacchetto di misure che sono state considerate inique, sbagliate, pericolose per tutti e convenienti solo per lobbies e cricche che perseguono i loro interessi in spregio a quelli collettivi.
Il risultato straordinario ottenuto pone alcune riflessioni, che riguardano tutto lo schieramento politico, sia governo che opposizione. Il Governo può solo ammettere la sconfitta: suoi erano i provvedimenti sottoposti al giudizio popolare, sue le scelte politiche che li avevano proposti, sua l’ideologia che li aveva ispirati. E, ancor più, indicano con chiarezza che il “tocco magico” del Premier è ormai un pallido ricordo.
Berlusconi, infatti, appare ora come un re Mida alla rovescia, tale è ormai il sentimento generale di ripudio che il popolo italiano gli tributa ad ogni apertura di urne, siano esse destinate al voto amministrativo o a quello referendario. Già il cavaliere aveva miseramente perso il referendum sulle modifiche costituzionali e quelli di ieri sono voti che raccontano, definitivamente, l’irrilevanza delle indicazioni del capo del governo sul tessuto del Paese.
Ha invitato a non votare e gli italiani sono corsi a votare. Ha chiesto di sostenerlo nella sua guerra alla Costituzione - e, di conserva, alla magistratura - e gli italiani gli hanno risposto che sono dalla parte della Carta e dei doveri che essa impone a tutti, uomini di Stato in primo luogo. Impossibile non leggere una batosta per il Governo e impossibile anche non vedere il tramonto di Berlusconi che del governo è Alfa e Omega.
Ha fatto molti danni e molti ancora può farne, ma nessuna proposta che giunge da Berlusconi ha ormai un quoziente di gradimento sufficiente a proporlo come guida politica del Paese e, forse, dello stesso PDL. Il Paese, come ha giustamente commentato Bersani, ha divorziato da Berlusconi. Il Premier non rappresenta più la maggioranza, non incarna più il senso comune degli italiani.
Ma i messaggi arrivano chiari anche all’opposizione, in particolare al PD, che ai referendum non aveva creduto sin dall’inizio, nel timore che il mancato raggiungimento del quorum potesse produrre una vittoria di Berlusconi di cui davvero non c’era bisogno. Ma, soprattutto, la lezione che il centrosinistra deve trarre da questa battaglia vinta è che, nonostante 17 anni di berlusconismo, il tessuto democratico di questo paese tiene. E non solo quello che si manifesta nelle istituzioni che resistono ai golpe striscianti della maggioranza, ma quello che vive nel cuore della società italiana, che al momento buono sa riscoprire il valore determinante della sua capacità di mobilitazione e, quindi, della sua capacità di determinare una nuova fase politica.
Associazioni di ogni tipo, articolate su tutto il territorio, organizzazioni sociali, gruppi d’iniziativa e forze politiche, che in questi lunghissimi e difficilissimi anni hanno lavorato sul territorio, nelle scuole, nei posti di lavoro, nella comunicazione online, in condizioni di cattività, senza risorse se non quelle provenienti dalla loro volontà di non mollare, hanno costituito il collante fondamentale che, insieme alla forza elettorale dei partiti d’opposizione, ha creato i presupposti prima politici, poi numerici, per proporre la sconfitta del Governo. Per ribaltare, insomma, i rapporti di forza elettorali.
Ora, senza voler togliere importanza agli aspetti tattici dello schieramento antiberlusconiano, senza voler ridurre il peso preponderante che una nuova legge elettorale potrebbe avere nel decidere le prossime elezioni, si deve passare dalle schermaglie parlamentari, dai riposizionamenti più o meno settimanali, a un messaggio chiaro: la sinistra, i democratici, hanno voglia di rimettersi in gioco, di uscire dalla sbornia qualunquistica di questi ultimi 17 anni e vogliono farlo sulla base di parole d’ordine precise. La sinistra tutta, complessivamente intesa, non può essere espunta dalla costruzione dell’Italia post-berlusconiana perché, semplicemente, o la sinistra avrà voce determinante in questo processo o, semplicemente, questo processo non inizierà.
Proprio quel terreno così fertile di volontà di partecipazione politica da parte di milioni di italiani, che negli ultimi anni avevano disertato le urne ricche di personaggi troppo somiglianti tra loro, dev’essere quindi il tavolo su cui scrivere l’agenda politica dell’opposizione ed il suo programma di governo. Più che dedicarsi all’annoso (e soprattutto noioso) discettare sull’eventualità del coinvolgimento di Casini, il PD deve assumere una nuova direzione di marcia: il popolo italiano, a maggioranza, ha deciso che la destra berlusconiana è inadatta a governare. Aprire il confronto con questo popolo, permettergli di prendere la parola e contribuire a forgiare il programma politico per l’oggi e per il domani, é la base indispensabile per proporre un cambio di prospettiva politica, una nuova fase storica per questo Paese. Ce n’è un grande bisogno.
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di Alessandro Iacuelli
Dopo il referendum del 1987, si è tornato a parlare di nucleare civile in Italia dal 21 gennaio 2005, giorno dell'approvazione di una legge apposita sul riordino del settore energetico, meglio conosciuta come "Legge Marzano". L'allora ministero delle Attività Produttive, a tale proposito, fece notare che "in teoria nulla osta perché in Italia si torni all'energia di origine nucleare, visto che i referendum del 1987 riguardavano l’eliminazione dei contributi in denaro da parte dello Stato".
Nonostante questo, la spinta verso il nucleare poteva avere un senso alla fine degli anni '80, avendo ancora l'Italia un mercato dell'energia pubblico e sotto controllo statale, impianti pronti a ripartire e staff tecnico-scientifico tra i migliori al mondo. Ma a fine anni '80, sull'onda del referendum e soprattutto sull'onda del disastro di Chernobyl, tale spinta non ci fu. Si preferì invece, anche a livello governativo, approfittare della sconfitta del nucleare per fare un altro giro di vite con la metanizzazione, convertendo (in modo peraltro costosissimo) a metano molte centrali elettriche funzionanti con altri combustibili.
Non si sta qui a sindacare se la scelta della metanizzazione sia stata giusta o meno ma, una volta presa quella strada, cambiarla completamente adesso significherebbe pagare costi che nessun investitore privato affronterebbe, scaricando quindi sul settore pubblico il compito di pagare. Vero è che il metano dobbiamo comprarlo dall'estero, ma non è certo la via nucleare quella che garantirebbe l'indipendenza energetica: oggi le competenze per riportare il nucleare in Italia non ci sono più.
Moltissimi dei progettisti e tecnici dell'epoca d'oro del nucleare italiano sono andati in pensione, senza trasmettere alle nuove generazioni di tecnici quelle competenze acquisite. Pertanto il nucleare in Italia non sarebbe certamente un "nucleare italiano", ma sarebbe realizzato con tecnologie, personale e aziende estere. Non sarebbe neanche un "nucleare pubblico", in un mercato privatizzato, dove l'unica spinta è il profitto a fine anno. Spinta al profitto che, in nome della sicurezza nucleare, dovrebbe passare assolutamente in secondo piano.
Aprire una centrale nucleare, o riattivarne una in disuso da anni, non è una cosa semplice: servono miliardi di Euro, senza contare il costo del loro mantenimento (i sistemi di sicurezza e quelli per il raffreddamento hanno un costo elevatissimo). Tutti questi soldi, se sottratti ai cittadini mediante erogazione di fondi pubblici, difficilmente andranno per benessere del Paese, nonostante la propaganda in corso: se i profitti del nucleare degli anni '60 e '70 andavano nelle casse dell'Enel (pubblica), questa volta finiranno sempre e solo nelle casse delle multinazionali dell’energia privatizzata.
Il nucleare, per certi versi, è forse peggio del petrolio e del carbone e non è affatto sostenibile e “non inquinante”: produce scorie radioattive non smaltibili (se non in migliaia di anni) che saranno sepolte nelle profondità dei mari oppure sotto milioni di metri cubi di cemento. I punti cardine sono quindi: finanziamenti ed entità degli investimenti necessari, contrarietà delle popolazioni interessate, stato delle competenze, sicurezza, smaltimento dei rifiuti. Su ciascuno di questi punti in Italia si soffre di decenni di arretratezza e di stasi.
Accusiamo un ritardo nello sviluppo di validi sistemi alternativi, prima di tutto il solare e l'eolico, validi strumenti che potrebbero risolvere diversi problemi, se si investisse in ricerca e sviluppo. Con gli stessi soldi da investire per tre o quattro centrali nucleari sarebbero possibili in dieci anni scoperte sul solare che ora possono apparire impensabili. Invece la strategia è di investire in centrali nucleari, che sono pur sempre delle macchine a vapore, per garantire appena il 25% del fabbisogno energetico italiano. Fra trenta anni, tra l'altro.
Tutto questo senza considerare che non abbiamo affatto risolto, ma neanche affrontato, il problema delle scorie. Quella nucleare è un'intera filiera, dalla produzione del combustibile in poi, e stiamo dando inizio alla costruzione delle centrali senza avere preparato un piano di smaltimento delle scorie di tutti gli impianti. Non solo manca ancora l'individuazione del deposito nazionale, ma anche dei centri temporanei di stoccaggio, che sono necessari. Tutto questo non viene affrontato, perché sarà un problema che diventerà cruciale tra 20 o 30 anni, che è un tempo che non interessa a nessun governo.
Quel che è certo è che in caso di ritorno al nucleare in Italia non si tratterebbe di un nucleare italiano, ma di un insieme di politiche energetiche e tecnologie importate dall'estero. Le stesse centrali verrebbero costruite da multinazionali energetiche estere e, data la natura assolutamente anomala del mercato energetico italiano (totalmente privatizzato), l'Italia diverrebbe terra di conquista da parte dei gestori stranieri proprietari delle centrali.
Che occorra una svolta nel settore energetico italiano è indubbio. Sbaglia certo ambientalismo radicale italiano, che ripete ossessivamente che i problemi d'ordine energetico derivano solo dalla necessità di far girare soldi. Il problema è reale: l'Italia ha un parco centrali basato fortemente su petrolio e metano, due combustibili che vanno reperiti all'estero, non sono rinnovabili e sono fortemente inquinanti.
Non dimentichiamo che l'Italia ha firmato il Protocollo di Kyoto, ben sapendo di non essere in grado di mantenere l'impegno, ma in ogni caso ora dovrebbe in qualche modo cercare di contenere le emissioni in atmosfera, e non saranno certo i blocchi del traffico nelle grandi città a risolvere il problema.
All'indomani del grande black-out nazionale del 28 settembre 2003, causato unicamente da una cattiva gestione dell'emergenza e dalla frammentazione del sistema energetico italiano dovuto alla privatizzazione selvaggia, si è assistito ad un coro di voci (compresa quella del Presidente della Repubblica) che senza alcuna nozione tecnico-scientifica e senza alcuna cognizione di causa hanno indicato la necessità della costruzione di nuove centrali e del ritorno al nucleare.
L'Italia di centrali ne ha abbastanza, ne ha anche troppe. Se avviene un black-out notturno è perché, essendo molte centrali ormai private e quindi in gestione a chi deve far profitto monetario, per diminuire i costi si preferisce tenerle spente di notte e si preferisce acquistare dall'estero la poca quantità di energia che serve.
In definitiva, le cose da fare nel settore energetico sarebbero altre: un ammodernamento della rete elettrica nazionale, che ha il record in Europa sia delle perdite sia degli allacciamenti abusivi, una riorganizzazione del coordinamento tra tutti i gestori dell'Energia, dalle centrali alla distribuzione.
La rete elettrica di una nazione fa parte della geografia stessa della nazione, è intessuta sul territorio, fa parte del territorio e senza di essa si ferma la nazione intera. Per questo motivo, una rete elettrica non andrebbe mai privatizzata. Cosa succederà quando sarà di proprietà privata anche il traliccio in campagna ed il cavo aereo? Non ci sarà centrale nucleare che tenga quando il proprietario privato vorrà tagliare i costi ed aumentare i profitti.
E quando quel proprietario privato, magari estero, interessato solo alla salita del proprio titolo su una borsa valori situata dall’altra parte del globo, sarà in possesso di un reattore nucleare situato sul territorio italiano? Ci saranno tutte le garanzie e gli obblighi affinché quel reattore possa essere ispezionato, per quanto riguarda la sicurezza, da parte dello Stato? E lo Stato da dove prenderà personale qualificato per tali controlli? E se saranno privatizzati anche questi controlli? Siamo sicuri di volerci fidare?
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di Cinzia Frassi
Tra pochi giorni, il 12 e il 13 giugno, si gioca la partita dei referendum con gli ormai famosi quattro quesiti: nucleare, legittimo impedimento e i due sull'acqua pubblica. Sulle quattro schede i quesiti che in questi ultimi mesi hanno impegnato da un lato il governo a sabotarli e dall'altro il grande popolo dei Si. Grande perché oltre ai promotori, la lista degli aderenti e dei sostenitori è chilometrica: dal WWF ai comitati cittadini, dai francescani ai gruppi di acquisto solidale, dai sindacati confederali a Italia nostra e poi Liberazione, Il Manifesto, Circoli, Movimenti studenteschi, Associazioni ambientaliste e culturali, Arci, Acli e moltissimi altri ancora. A tutti questi si aggiunge la voce della rete, capillare, esuberante, tentacolare che tra blog, siti, social network tiene banco, informa e amplifica le attese per il prossimo voto.
A voler vedere, la campagna referendaria, soprattutto negli ultimi mesi, ha visto la presenza di un elemento che mette perfino una punta di sana ironia: tutto il baccano fatto dal governo Berlusconi per vanificare l'appuntamento. Non solo la questione dell'election day o il tentativo di cancellare il referendum sul nucleare, ma quasi tutta la linea di condotta.
Una corsa forsennata allo stratagemma, fosse per cavillare su un quesito referendario o pontificare sull’energia nucleare con dichiarazioni ai limiti proprio della satira. Paradossalmente, se se ne fosse stato zitto, se non avesse messo in atto tentativi teatrali e grotteschi, magari non se ne sarebbe parlato tanto e la gente sarebbe andata davvero al mare forse.
Ora francamente la gita l’hanno praticamente tutti rimandata. Va da se che una spintarella energica viene anche dall’esito del recente appuntamento con le elezioni amministrative che hanno segnato la sconfitta del governo, del suo entourage e del suo modus operandi.
Non è stato zitto e l’attenzione per l’appuntamento referendario è sempre più alta. Quattro i quesiti, che si traducono, di fatto, in altrettanti No alla costruzione di centrali nucleari sul territorio nazionale, No al legittimo impedimento e ancora No alla privatizzazione dell'acqua.
Il primo quesito sull’acqua (scheda rossa) propone l’abrogazione di quanto introdotto dal decreto Ronchi. In particolare il primo quesito, “Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”, nasce da alcune norme introdotte dal decreto firmato Andrea Ronchi, l'allora ministro per le politiche comunitarie, in seguito convertito in legge a suon di fiducia il 18 novembre 2009. Il decreto era nato per ottemperare a una serie di direttive comunitarie e per provvedere ad adeguare alcune norme censurate a livello europeo: si va dall'etichetta made in Italy alle lampadine "verdi", a questioni amministrative relative al trasporto ferroviario.
A quel decreto si deve la necessità di votare domenica e lunedì prossimi perché ha introdotto l’obbligo per i Comuni di conferire la gestione dei servizi pubblici locali a società miste. Chiede in sostanza che si costituiscano società miste pubblico-privato, mentre la gestione in house diventa una deroga per situazioni eccezionali.
A chi commenta dicendo che spesso la gestione pubblica dei servizi non è sempre un fiore all’occhiello, resta da dire che sarebbe proprio quell’inefficienza a dover assorbire le energie, trovando soluzioni concrete, ma senza utilizzarlo come alibi per creare business ai privati su una risorsa pubblica.
Il secondo quesito referendario (scheda gialla) chiede l’abrogazione di parte di una norma introdotta dal governo Prodi e relativa alla determinazione della tariffa del servizio idrico in base ad una “adeguata remunerazione del capitale investito”. Questo il secondo quesito referendario al quale occorre votare Si.
Quest’adeguatezza della remunerazione consente di gonfiare il conto ai cittadini fino al 7% in più, per remunerare il costo del capitale investito dall’azienda privata, in nome del profitto di pochi. Cancellando questa norma s’intende andare verso una tariffa adeguata al concetto stesso di servizio pubblico.
L’acqua è un bene comune, una risorsa naturale, di tutti: questo il concetto di fondo che i promotori hanno visto violato da una serie di norme. Certo, si difende il principio, ma non basta. Ci sarà da lavorare sul fronte della capacità di produrre una gestione pubblica efficiente, intervenire sulla rete idrica e garantire alla risorsa acqua il massimo della purezza. Di certo è la strada migliore, considerando anche che nei settori dove si è privatizzato in Italia, non ci sono stati sempre risultati apprezzabili.
Nel frattempo si contano ben 47 milioni e 300 mila elettori attesi nelle 61.601 sezioni di voto tra domenica e lunedì. Servono quindi 23 milioni e 650 mila voti per raggiungere il quorum per sancire la validità dei referendum. Ancora meglio: servono più di 23 milioni di SI.
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di Mariavittoria Orsolato
La legge è uguale per tutti e se si compiono dei reati tutti sono tenuti a risponderne, indipendentemente dal fatto che siano il Capo del Governo o i ministri, perché il principio della parità di trattamento rispetto alla giustizia è un principio supremo, inderogabile e squisitamente costituzionale. Tra i quattro referendum quello sul legittimo impedimento è sicuramente il più politico: dopo la clamorosa débâcle della maggioranza alle amministrative, la vittoria dei SI sulla scheda di colore verde chiaro potrebbe rappresentare il vero colpo di grazia all’agonizzante Esecutivo Berlusconi.
Il quarto quesito del referendum abrogativo dei prossimi 12 e 13 giugno si pone infatti l’obiettivo di eliminare i privilegi contenuti nella legge ad personam che vorrebbe sottrarre Berlusconi dal giudizio della magistratura per i reati che gli sono contestati e che nulla hanno a che vedere con lo svolgimento delle funzioni di Presidente del Consiglio. Le imputazioni che hanno coinvolto il premier sono state commesse in veste indubbiamente non istituzionale e sono la naturale conseguenza del conflitto d’interessi che da 17 anni caratterizza la sua vita politica.
Nel caso sui costi gonfiati dei diritti Mediatrade e della frode fiscale Mediaset, Silvio Berlusconi è imputato in quanto azionista di maggioranza del gruppo Fininvest. Per quanto riguarda il cosiddetto Rubygate, sono tutti fin troppo a conoscenza dell’abuso di potere che il premier ha esercitato nei confronti della Questura di Milano e dello spavaldo aggiramento delle disposizioni del giudice minorile. Quanto al processo Mills, causa prima per cui il dispositivo del legittimo impedimento è stato escogitato - dopo il fallimento del lodo Alfano - il Presidente del Consiglio ha la certezza matematica di essere condannato, dal momento che il procedimento contro l’avvocato inglese ha già reso la sua sentenza, condannando l’ex consulente finanziario di Berlusconi per falsa testimonianza. Proprio quest’ultimo esempio dovrebbe far riflettere, dal momento che - caso probabilmente unico nel suo genere - abbiamo avuto una sentenza in cui è stato condannato il corrotto ma non il corruttore.
In questi 17 anni di berlusconismo, il cavaliere ha fatto approvare ben 37 leggi ad personam: dal decreto Biondi del 1994, che vieta la custodia cautelare per i reati contro la Pubblica Amministrazione, passando per i vari Lodi (Maccanico, Schifani e Alfano) tutti tesi alla sospensione dei processi contro il premier, per arrivare alle leggi “contra Sky”, confezionate su misura per abbattere la concorrenza televisiva del magnate australiano Rupert Murdoch. Trentasette porcate legislative - come le ha giustamente definite Marco Travaglio - che hanno monopolizzato le attività di Camera e Senato e che agli italiani sono costate ben 2,5 miliardi di euro in termini di ore lavorate dalle Commissioni.
Di per sé il dispositivo del legittimo impedimento è uno strumento giuridico presente in molti paesi e rappresenta una garanzia sacrosanta per gli imputati che, pur volendo essere presenti nelle aule giudiziarie, sono - citando l’articolo 420-ter del codice di procedura penale - nella “assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito o forza maggiore”. Il disegno di legge che è stato approvato il 3 febbraio scorso pur se decisamente ridimensionato dalla Consulta poco dopo, risulta palesemente incostituzionale nella misura in cui l’impedimento in questione è rappresentato unicamente dal ricoprire una carica istituzionale.
In applicazione del principio dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge sancito dall’articolo 3 della Carta, Berlusconi deve essere giudicato per i fatti che gli sono contestati e non può sottrarsi al giudizio della magistratura solo in virtù della sua posizione privilegiata. Legittimo impedimento, nella sua attuale accezione, non può quindi significare altro che illegittima impunità e in un momento politicamente e socialmente delicato come quello che l’Italia sta attraversando, non è più possibile rendere al Paese l’immagine di una politica come casta di intoccabili che spavaldamente se ne fregano delle norme solo grazie alla carica da essi ricoperta.
Se non avesse dovuto salvaguardare le sue aziende dai debiti, il cavaliere non sarebbe mai “sceso in campo” ed ora che la bolla berlusconiana è sul punto di implodere, sono già in molti ad abbandonare la nave della libertà come topi terrorizzati dall’acqua. Il 12 e 13 giugno ci si presenta l’occasione per liberare definitivamente il Paese da questo regimetto che ci ha ammorbato per quasi un ventennio e il raggiungimento del quorum è ormai un imperativo morale per tanti. Certo, descrivere l’appuntamento referendario come se fosse prettamente politico potrebbe risultare in una certa misura controproducente, ma di fatto gli italiani hanno per la prima volta la possibilità di affossare una legislatura attraverso un referendum.
Il re è nudo da tempo e nel caso in cui il quorum venisse raggiunto le implicazioni a livello di alleanze (o puntelli che dir si voglia) porterebbero presto o tardi ad una crisi di Governo. Un esecutivo tenuto in piedi dai soli responsabili è pura fantascienza e, dopo la batosta alle amministrative, la Lega sembra sempre più convinta che Berlusconi sia soltanto una zavorra. Anche gli industriali capitanati da Emma Marcegaglia sembrano sul piede di guerra e dalla banca d’Italia il governatore Draghi mette all’indice una politica economica che ha saputo solo tagliare tanto e male.
Questa sedicesima legislatura ha rappresentato un fallimento su tutti i fronti e in fondo lo sa bene anche il Presidente del Consiglio che, dopo aver indebolito e reso sterile il Parlamento, adesso prova anche a scippare agli italiani la possibilità di esprimersi sul ritorno al nucleare, l’acqua pubblica e il legittimo impedimento. Una democrazia che teme gli elettori non può più dirsi democrazia, per questo è importante recarsi in massa alle urne ed esprimere il proprio parere. Come cantava il buon Giorgio Gaber “libertà è partecipazione” e non, come parodiava Corrado Guzzanti e come ci hanno mostrato in questi 17 anni, “fare un po’ come ce pare”.
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di Fabrizio Casari
Magari sembrerà il problema minore, ma sarebbe bene tenere a mente che ci troviamo a dover votare il 12 e 13 Giugno perché il governo, tramite l’inutile Maroni, stabilì l’impossibilità di celebrare “l’election day”, cioè di accorpare il voto referendario a quello amministrativo del mese scorso. Si sarebbero risparmiati oltre 300 milioni di Euro, certo, ma pur di evitare che la consultazione elettorale amministrativa determinasse di per sé l’affluenza al voto referendario e, con essa, il raggiungimento del quorum, non si è badato a spese e nemmeno a espedienti.
Il terrore vero e proprio che pervade il governo Berlusconi-Bossi-Scilipoti è che gli italiani si pronuncino sui referendum, giacché difficilmente la scheda per loro più importante (quella sul “legittimo impedimento”) verrebbe ignorata nel momento in cui si vota per gli altri tre. Ed è fin troppo evidente che la pretesa di erigersi al di sopra della legge e di decidere egli stesso dei procedimenti giudiziari che lo vedono imputato, vedrebbe una bocciatura sonora nelle urne. Questo era quanto Berlusconi voleva evitare e, a questo fine, si é giocato anche gli ultimi brandelli di decenza politica.
Si deve ricordare che il governo ha tentato ogni mossa possibile per evitare il voto referendario: dapprima cercando di far annullare la consultazione con una furberia da retrobottega, firmando cioè un decreto che sospendeva il precedente, dove si annunciava il rilancio del nucleare. Successivamente, di fronte alla sentenza della Suprema Corte che confermava invece la procedibilità del pronunciamento referendario, ha dato mandato all’Avvocatura di Stato per inoltrare un ultimo, disperato ricorso, presso la Consulta affinché dichiarasse nulla la sentenza della Cassazione.
Sono stati gli ultimi tentativi, in ordine di tempo, per tentare di impedire ad ogni costo la celebrazione del referendum. E non solo perché i temi oggetto della consultazione riguardano direttamente gli affari privati del capo del governo e delle lobby finanziarie che l’hanno da sempre sostenuto, ma anche perché nel corso di questi anni sia da parte della Corte Costituzionale, sia da quella dei cittadini nelle urne referendarie, il governo Berlusconi è uscito a pezzi. Tanto la Consulta, infatti, come i cittadini, hanno respinto in ogni occasione, nei rispettivi ambiti e nelle diverse forme, le forzature anticostituzionali che il cesarismo del cavaliere tentava d’imporre al Paese.
Perché la riduzione della Carta a mero feticcio ideologico è stata, da sempre, l’ossessione del premier. Non per ignoranza giuridica, quanto meno non solo; ma perché l’idea proprietaria che Berlusconi ha delle istituzioni non può trovare concreta applicazione senza che il testo fondamentale sul quale le istituzioni esercitano il loro compito perda efficacia. Questa è stata la madre di tutte le battaglie ingaggiate dal cavaliere in 17 anni di vita politica. Nel perdurare del piagnisteo sulle “mani legate” che il governo avrebbe, intendendo con ciò l’insieme delle norme previste dall’ordinamento costituzionale,
Berlusconi ha tentato con volgare pervicacia forzature istituzionali ad ogni occasione possibile, indifferente ai richiami delle autorità istituzionali che tentano di far comprendere a lui e ai suoi guardasigilli la differenza tra una Repubblica e un sultanato. Avendo una maggioranza parlamentare che risponde ai suoi interessi personali, Berlusconi ha ritenuto che, forte del potere esecutivo e legislativo, potesse sopraffare quello giudiziario.
Il tentativo costante è stato infatti quello di porre il governo al di sopra delle altre istituzioni, cercando d’imporre il volere dell’esecutivo a scapito dei poteri del legislativo e del giudiziario e di porre il ruolo del capo del governo in supremazia nei confronti del capo dello Stato. Insomma, un modo per trasformare la Costituzione in carta riciclabile.
Ha cercato di perseguire l’obiettivo con un modo scorretto nella forma (giacché non predisposto secondo quanto previsto dall’art.138 della Carta) e pessimo nella sostanza (in quanto i provvedimenti erano palesemente viziati dall’interesse privato dei proponenti), di dichiarare l’avvenuto superamento del dettato costituzionale a vantaggio di una “Costituzione di fatto”, che altro non è se non l’affermazione di una volontà proprietaria privata della cosa pubblica da parte del premier e delle sue cricche. Insomma la riproposizione di quello che Antonio Gramsci definiva “il sovversivismo delle classi dirigenti”.
Per fortuna, la democrazia italiana, con tutti i limiti politici conosciuti, ha dimostrato di avere una tenuta forte, garantita sia dalle istituzioni sia dai cittadini. In questo senso é difficile vedere nel voto referendario solo un pronunciamento nel merito dei quesiti e non coglierne il senso politico generale di un’occasione per assestare un altro colpo durissimo al governo Berlusconi.
Di Pietro afferma che il voto referendario non dev’essere un giudizio sul governo: l’intento è quello - comprensibile - di portare al voto anche gli elettori del centrodestra che sono comunque contrari al nucleare, alla privatizzazione della rete idrica e, perché no, anche alle leggi “ad personam”, ma che, probabilmente, non vogliono utilizzare l’occasione referendaria per colpire nuovamente il governo.
C’è però un doppio dato, tutto politico, che non può essere taciuto in funzione tattica: i quesiti referendari sono, per contenuto, una battaglia politica contro la manifestazione esantematica di un morbo turboliberista.
Privatizzare i servizi idrici aumentandone il costo, diminuendone la qualità e limitandone la distribuzione è un esempio chiaro di come il governo (e forse anche qualcuno all’opposizione) intende la cosa pubblica: smantellamento dei servizi pubblici locali come occasione d’affari per le lobbies a scapito degli interessi popolari.
Abolire la norma che obbliga i sindaci alla privatizzazione dei servizi pubblici locali si dice chiaramente cosa si chiede all’amministrazione delle comunità. Ricorrere al nucleare, poi, significa piegare l’economia, l’ambiente e la sicurezza del Paese alle lobby dell’atomo, dopo aver scatenato guerre per conto di quella del petrolio.
Il “legittimo impedimento” è la proposizione di un’idea della giustizia basata su un concetto semplice, che prevede un doppio binario di applicazione, uno per le persone comuni ed uno per i potenti. La riforma della giustizia, necessaria e non procrastinabile, diventerebbe così l’ingiustizia che diventa legge.
Il voto, proprio perché di contenuto e quindi politico, servirà anche per il futuro. Il ceto politico, di centrosinistra o di centrodestra che sia, deve ricevere un messaggio forte e chiaro: il berlusconismo è al crepuscolo perché anche l’ideologia di cui è portatore ormai non ha più senso comune, se mai l’ha avuto.
Welfare, diritti, ambiente, giustizia giusta, lavoro e sviluppo sono i punti da cui si ricomincia dopo aver archiviato la notte oscura della democrazia. Ci si può sedere a terra occupando piazze o impugnando schede e invadendo le urne: sono due modi diversi e ugualmente legittimi di far capire cosa si vuole e, soprattutto, cosa non si vuole più. L’ubriacatura liberista è finita. Chi vuole capire capirà.