di Cinzia Frassi

Tra pochi giorni, il 12 e il 13 giugno, si gioca la partita dei referendum con gli ormai famosi quattro quesiti: nucleare, legittimo impedimento e i due sull'acqua pubblica. Sulle quattro schede i quesiti che in questi ultimi mesi hanno impegnato da un lato il governo a sabotarli e dall'altro il grande popolo dei Si. Grande perché oltre ai promotori, la lista degli aderenti e dei sostenitori è chilometrica: dal WWF ai comitati cittadini, dai francescani ai gruppi di acquisto solidale, dai sindacati confederali a Italia nostra e poi Liberazione, Il Manifesto, Circoli, Movimenti studenteschi, Associazioni ambientaliste e culturali, Arci, Acli e moltissimi altri ancora. A tutti questi si aggiunge la voce della rete, capillare, esuberante, tentacolare che tra blog, siti, social network tiene banco, informa e amplifica le attese per il prossimo voto.

A voler vedere, la campagna referendaria, soprattutto negli ultimi mesi, ha visto la presenza di un elemento che mette perfino una punta di sana ironia: tutto il baccano fatto dal governo Berlusconi per vanificare l'appuntamento. Non solo la questione dell'election day o il tentativo di cancellare il referendum sul nucleare, ma quasi tutta la linea di condotta.

Una corsa forsennata allo stratagemma, fosse per cavillare su un quesito referendario o pontificare sull’energia nucleare con dichiarazioni ai limiti proprio della satira. Paradossalmente, se se ne fosse stato zitto, se non avesse messo in atto tentativi teatrali e grotteschi, magari non se ne sarebbe parlato tanto e la gente sarebbe andata davvero al mare forse.

Ora francamente la gita l’hanno praticamente tutti rimandata. Va da se che una spintarella energica viene anche dall’esito del recente appuntamento con le elezioni amministrative che hanno segnato la sconfitta del governo, del suo entourage e del suo modus operandi.

Non è stato zitto e l’attenzione per l’appuntamento referendario è sempre più alta. Quattro i quesiti, che si traducono, di fatto, in altrettanti No alla costruzione di centrali nucleari sul territorio nazionale, No al legittimo impedimento e ancora No alla privatizzazione dell'acqua.

Il primo quesito sull’acqua (scheda rossa) propone l’abrogazione di quanto introdotto dal decreto Ronchi. In particolare il primo quesito, “Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica”, nasce da alcune norme introdotte dal decreto firmato Andrea Ronchi, l'allora ministro per le politiche comunitarie, in seguito convertito in legge a suon di fiducia il 18 novembre 2009. Il decreto era nato per ottemperare a una serie di direttive comunitarie e per provvedere ad adeguare alcune norme censurate a livello europeo: si va dall'etichetta made in Italy alle lampadine "verdi", a questioni amministrative relative al trasporto ferroviario.

A quel decreto si deve la necessità di votare domenica e lunedì prossimi perché ha introdotto l’obbligo per i Comuni di conferire la gestione dei servizi pubblici locali a società miste. Chiede in sostanza che si costituiscano società miste pubblico-privato, mentre la gestione in house diventa una deroga per situazioni eccezionali.

A chi commenta dicendo che spesso la gestione pubblica dei servizi non è sempre un fiore all’occhiello, resta da dire che sarebbe proprio quell’inefficienza a dover assorbire le energie, trovando soluzioni concrete, ma senza utilizzarlo come alibi per creare business ai privati su una risorsa pubblica.

Il secondo quesito referendario (scheda gialla) chiede l’abrogazione di parte di una norma introdotta dal governo Prodi e relativa alla determinazione della tariffa del servizio idrico in base ad una “adeguata remunerazione del capitale investito”. Questo il secondo quesito referendario al quale occorre votare Si.

Quest’adeguatezza della remunerazione consente di gonfiare il conto ai cittadini fino al 7% in più, per remunerare il costo del capitale investito dall’azienda privata, in nome del profitto di pochi. Cancellando questa norma s’intende andare verso una tariffa adeguata al concetto stesso di servizio pubblico.

L’acqua è un bene comune, una risorsa naturale, di tutti: questo il concetto di fondo che i promotori hanno visto violato da una serie di norme. Certo, si difende il principio, ma non basta. Ci sarà da lavorare sul fronte della capacità di produrre una gestione pubblica efficiente, intervenire sulla rete idrica e garantire alla risorsa acqua il massimo della purezza. Di certo è la strada migliore, considerando anche che nei settori dove si è privatizzato in Italia, non ci sono stati sempre risultati apprezzabili.

Nel frattempo si contano ben 47 milioni e 300 mila elettori attesi nelle 61.601 sezioni di voto tra domenica e lunedì. Servono quindi 23 milioni e 650 mila voti per raggiungere il quorum per sancire la validità dei referendum. Ancora meglio: servono più di 23 milioni di SI.

di Mariavittoria Orsolato

La legge è uguale per tutti e se si compiono dei reati tutti sono tenuti a risponderne, indipendentemente dal fatto che siano il Capo del Governo o i ministri, perché il principio della parità di trattamento rispetto alla giustizia è un principio supremo, inderogabile e squisitamente costituzionale. Tra i quattro referendum quello sul legittimo impedimento è sicuramente il più politico: dopo la clamorosa débâcle della maggioranza alle amministrative, la vittoria dei SI sulla scheda di colore verde chiaro potrebbe rappresentare il vero colpo di grazia all’agonizzante Esecutivo Berlusconi.

Il quarto quesito del referendum abrogativo dei prossimi 12 e 13 giugno si pone infatti l’obiettivo di eliminare i privilegi contenuti nella legge ad personam che vorrebbe sottrarre Berlusconi dal giudizio della magistratura per i reati che gli sono contestati e che nulla hanno a che vedere con lo svolgimento delle funzioni di Presidente del Consiglio. Le imputazioni che hanno coinvolto il premier sono state commesse in veste indubbiamente non istituzionale e sono la naturale conseguenza del conflitto d’interessi che da 17 anni caratterizza la sua vita politica.

Nel caso sui costi gonfiati dei diritti Mediatrade e della frode fiscale Mediaset, Silvio Berlusconi è imputato in quanto azionista di maggioranza del gruppo Fininvest. Per quanto riguarda il cosiddetto Rubygate, sono tutti fin troppo a conoscenza dell’abuso di potere che il premier ha esercitato nei confronti della Questura di Milano e dello spavaldo aggiramento delle disposizioni del giudice minorile. Quanto al processo Mills, causa prima per cui il dispositivo del legittimo impedimento è stato escogitato - dopo il fallimento del lodo Alfano - il Presidente del Consiglio ha la certezza matematica di essere condannato, dal momento che il procedimento contro l’avvocato inglese ha già reso la sua sentenza, condannando l’ex consulente finanziario di Berlusconi per falsa testimonianza. Proprio quest’ultimo esempio dovrebbe far riflettere, dal momento che - caso probabilmente unico nel suo genere - abbiamo avuto una sentenza in cui è stato condannato il corrotto ma non il corruttore.

In questi 17 anni di berlusconismo, il cavaliere ha fatto approvare ben 37 leggi ad personam: dal decreto Biondi del 1994, che vieta la custodia cautelare per i reati contro la Pubblica Amministrazione, passando per i vari Lodi (Maccanico, Schifani e Alfano) tutti tesi alla sospensione dei processi contro il premier, per arrivare alle leggi “contra Sky”, confezionate su misura per abbattere la concorrenza televisiva del magnate australiano Rupert Murdoch. Trentasette porcate legislative - come le ha giustamente definite Marco Travaglio - che hanno monopolizzato le attività di Camera e Senato e che agli italiani sono costate ben 2,5 miliardi di euro in termini di ore lavorate dalle Commissioni.

Di per sé il dispositivo del legittimo impedimento è uno strumento giuridico presente in molti paesi e rappresenta una garanzia sacrosanta per gli imputati che, pur volendo essere presenti nelle aule giudiziarie, sono - citando l’articolo 420-ter del codice di procedura penale - nella “assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito o forza maggiore”. Il disegno di legge che è stato approvato il 3 febbraio scorso pur se decisamente ridimensionato dalla Consulta poco dopo, risulta palesemente incostituzionale nella misura in cui l’impedimento in questione è rappresentato unicamente dal ricoprire una carica istituzionale.

In applicazione del principio dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge sancito dall’articolo 3 della Carta, Berlusconi deve essere giudicato per i fatti che gli sono contestati e non può sottrarsi al giudizio della magistratura solo in virtù della sua posizione privilegiata. Legittimo impedimento, nella sua attuale accezione, non può quindi significare altro che illegittima impunità e in un momento politicamente e socialmente delicato come quello che l’Italia sta attraversando, non è più possibile rendere al Paese l’immagine di una politica come casta di intoccabili che spavaldamente se ne fregano delle norme solo grazie alla carica da essi ricoperta.

Se non avesse dovuto salvaguardare le sue aziende dai debiti, il cavaliere non sarebbe mai “sceso in campo” ed ora che la bolla berlusconiana è sul punto di implodere, sono già in molti ad abbandonare la nave della libertà come topi terrorizzati dall’acqua. Il 12 e 13 giugno ci si presenta l’occasione per liberare definitivamente il Paese da questo regimetto che ci ha ammorbato per quasi un ventennio e il raggiungimento del quorum è ormai un imperativo morale per tanti. Certo, descrivere l’appuntamento referendario come se fosse prettamente politico potrebbe risultare in una certa misura controproducente, ma di fatto gli italiani hanno per la prima volta la possibilità di affossare una legislatura attraverso un referendum.

Il re è nudo da tempo e nel caso in cui il quorum venisse raggiunto le implicazioni a livello di alleanze (o puntelli che dir si voglia) porterebbero presto o tardi ad una crisi di Governo. Un esecutivo tenuto in piedi dai soli responsabili è pura fantascienza e, dopo la batosta alle amministrative, la Lega sembra sempre più convinta che Berlusconi sia soltanto una zavorra. Anche gli industriali capitanati da Emma Marcegaglia sembrano sul piede di guerra e dalla banca d’Italia il governatore Draghi mette all’indice una politica economica che ha saputo solo tagliare tanto e male.

Questa sedicesima legislatura ha rappresentato un fallimento su tutti i fronti e in fondo lo sa bene anche il Presidente del Consiglio che, dopo aver indebolito e reso sterile il Parlamento, adesso prova anche a scippare agli italiani la possibilità di esprimersi sul ritorno al nucleare, l’acqua pubblica e il legittimo impedimento. Una democrazia che teme gli elettori non può più dirsi democrazia, per questo è importante recarsi in massa alle urne ed esprimere il proprio parere. Come cantava il buon Giorgio Gaber “libertà è partecipazione” e non, come parodiava Corrado Guzzanti e come ci hanno mostrato in questi 17 anni, “fare un po’ come ce pare”.

di Fabrizio Casari

Magari sembrerà il problema minore, ma sarebbe bene tenere a mente che ci troviamo a dover votare il 12 e 13 Giugno perché il governo, tramite l’inutile Maroni, stabilì l’impossibilità di celebrare “l’election day”, cioè di accorpare il voto referendario a quello amministrativo del mese scorso. Si sarebbero risparmiati oltre 300 milioni di Euro, certo, ma pur di evitare che la consultazione elettorale amministrativa determinasse di per sé l’affluenza al voto referendario e, con essa, il raggiungimento del quorum, non si è badato a spese e nemmeno a espedienti.

Il terrore vero e proprio che pervade il governo Berlusconi-Bossi-Scilipoti è che gli italiani si pronuncino sui referendum, giacché difficilmente la scheda per loro più importante (quella sul “legittimo impedimento”) verrebbe ignorata nel momento in cui si vota per gli altri tre. Ed è fin troppo evidente che la pretesa di erigersi al di sopra della legge e di decidere egli stesso dei procedimenti giudiziari che lo vedono imputato, vedrebbe una bocciatura sonora nelle urne. Questo era quanto Berlusconi voleva evitare e, a questo fine, si é giocato anche gli ultimi brandelli di decenza politica.

Si deve ricordare che il governo ha tentato ogni mossa possibile per evitare il voto referendario: dapprima cercando di far annullare la consultazione con una furberia da retrobottega, firmando cioè un decreto che sospendeva il precedente, dove si annunciava il rilancio del nucleare. Successivamente, di fronte alla sentenza della Suprema Corte che confermava invece la procedibilità del pronunciamento referendario, ha dato mandato all’Avvocatura di Stato per inoltrare un ultimo, disperato ricorso, presso la Consulta affinché dichiarasse nulla la sentenza della Cassazione.

Sono stati gli ultimi tentativi, in ordine di tempo, per tentare di impedire ad ogni costo la celebrazione del referendum. E non solo perché i temi oggetto della consultazione riguardano direttamente gli affari privati del capo del governo e delle lobby finanziarie che l’hanno da sempre sostenuto, ma anche perché nel corso di questi anni sia da parte della Corte Costituzionale, sia da quella dei cittadini nelle urne referendarie, il governo Berlusconi è uscito a pezzi. Tanto la Consulta, infatti, come i cittadini, hanno respinto in ogni occasione, nei rispettivi ambiti e nelle diverse forme, le forzature anticostituzionali che il cesarismo del cavaliere tentava d’imporre al Paese.

Perché la riduzione della Carta a mero feticcio ideologico è stata, da sempre, l’ossessione del premier. Non per ignoranza giuridica, quanto meno non solo; ma perché l’idea proprietaria che Berlusconi ha delle istituzioni non può trovare concreta applicazione senza che il testo fondamentale sul quale le istituzioni esercitano il loro compito perda efficacia. Questa è stata la madre di tutte le battaglie ingaggiate dal cavaliere in 17 anni di vita politica. Nel perdurare del piagnisteo sulle “mani legate” che il governo avrebbe, intendendo con ciò l’insieme delle norme previste dall’ordinamento costituzionale,

Berlusconi ha tentato con volgare pervicacia forzature istituzionali ad ogni occasione possibile, indifferente ai richiami delle autorità istituzionali che tentano di far comprendere a lui e ai suoi guardasigilli la differenza tra una Repubblica e un sultanato. Avendo una maggioranza parlamentare che risponde ai suoi interessi personali, Berlusconi ha ritenuto che, forte del potere esecutivo e legislativo, potesse sopraffare quello giudiziario.

Il tentativo costante è stato infatti quello di porre il governo al di sopra delle altre istituzioni, cercando d’imporre il volere dell’esecutivo a scapito dei poteri del legislativo e del giudiziario e di porre il ruolo del capo del governo in supremazia nei confronti del capo dello Stato. Insomma, un modo per trasformare la Costituzione in carta riciclabile.

Ha cercato di perseguire l’obiettivo con un modo scorretto nella forma (giacché non predisposto secondo quanto previsto dall’art.138 della Carta) e pessimo nella sostanza (in quanto i provvedimenti erano palesemente viziati dall’interesse privato dei proponenti), di dichiarare l’avvenuto superamento del dettato costituzionale a vantaggio di una “Costituzione di fatto”, che altro non è se non l’affermazione di una volontà proprietaria privata della cosa pubblica da parte del premier e delle sue cricche. Insomma la riproposizione di quello che Antonio Gramsci definiva “il sovversivismo delle classi dirigenti”.

Per fortuna, la democrazia italiana, con tutti i limiti politici conosciuti, ha dimostrato di avere una tenuta forte, garantita sia dalle istituzioni sia dai cittadini. In questo senso é difficile vedere nel voto referendario solo un pronunciamento nel merito dei quesiti e non coglierne il senso politico generale di un’occasione per assestare un altro colpo durissimo al governo Berlusconi.

Di Pietro afferma che il voto referendario non dev’essere un giudizio sul governo: l’intento è quello - comprensibile - di portare al voto anche gli elettori del centrodestra che sono comunque contrari al nucleare, alla privatizzazione della rete idrica e, perché no, anche alle leggi “ad personam”, ma che, probabilmente, non vogliono utilizzare l’occasione referendaria per colpire nuovamente il governo.

C’è però un doppio dato, tutto politico, che non può essere taciuto in funzione tattica: i quesiti referendari sono, per contenuto, una battaglia politica contro la manifestazione esantematica di un morbo turboliberista.

Privatizzare i servizi idrici aumentandone il costo, diminuendone la qualità e limitandone la distribuzione è un esempio chiaro di come il governo (e forse anche qualcuno all’opposizione) intende la cosa pubblica: smantellamento dei servizi pubblici locali come occasione d’affari per le lobbies a scapito degli interessi popolari.

Abolire la norma che obbliga i sindaci alla privatizzazione dei servizi pubblici locali si dice chiaramente cosa si chiede all’amministrazione delle comunità. Ricorrere al nucleare, poi, significa piegare l’economia, l’ambiente e la sicurezza del Paese alle lobby dell’atomo, dopo aver scatenato guerre per conto di quella del petrolio.

Il “legittimo impedimento” è la proposizione di un’idea della giustizia basata su un concetto semplice, che prevede un doppio binario di applicazione, uno per le persone comuni ed uno per i potenti. La riforma della giustizia, necessaria e non procrastinabile, diventerebbe così l’ingiustizia che diventa legge.

Il voto, proprio perché di contenuto e quindi politico, servirà anche per il futuro. Il ceto politico, di centrosinistra o di centrodestra che sia, deve ricevere un messaggio forte e chiaro: il berlusconismo è al crepuscolo perché anche l’ideologia di cui è portatore ormai non ha più senso comune, se mai l’ha avuto.

Welfare, diritti, ambiente, giustizia giusta, lavoro e sviluppo sono i punti da cui si ricomincia dopo aver archiviato la notte oscura della democrazia. Ci si può sedere a terra occupando piazze o impugnando schede e invadendo le urne: sono due modi diversi e ugualmente legittimi di far capire cosa si vuole e, soprattutto, cosa non si vuole più. L’ubriacatura liberista è finita. Chi vuole capire capirà.

di Rosa Ana De Santis

Il caso di Giuseppe Marletta, architetto catanese di 42 anni, ha fatto il giro dei quotidiani. La denuncia disperata di sua moglie davanti alle porte dell’ospedale Garibaldi di Catania ha portato di nuovo all’attenzione dell’opinione pubblica una esperienza esistenziale al limite, che gronda desiderio di giustizia. Un’operazione banale ai denti, poco più di un anno fa, ha lasciato quest’uomo immobilizzato su un letto, tracheotomizzato, raramente cosciente e con momenti di dolore acutissimo ben stampati sul suo viso quando viene sottoposto alla procedura dell’aspirazione o al trattamento della sua piaga da decubito di 10 cm all’altezza dell’osso sacro.

La moglie Irene non risparmia dettagli di questo calvario nella speranza che la conoscenza di questa condizione persuada le persone a comprendere quello che lei chiede per suo marito: liberarlo dalle sofferenze. Ma è soprattutto alle Istituzioni che Irene lancia il suo appello.

Ogni mese 1000 euro vanno per la struttura specializzata in cui Giuseppe è ricoverato. Nessun indennizzo e nessun sostegno arriva dallo Stato, tantomeno si è fatta chiarezza sulle cause che hanno portato un uomo sano a precipitare in questa condizione dopo un intervento banale e di routine. Eppure è in una struttura pubblica che Giuseppe ha nei fatti perso la sua vita e la sua salute e le indagini avviate non hanno ancora portato a niente.

Il Ministero della Salute, attraverso la voce del Sottosegretario Roccella, ha respinto le richieste della signora Marletta, dichiarando di non poter partecipare ai costi. Ma sta facendo qualcosa di più l’agenda politica del Ministero e di tutto il governo. Sta impedendo, legge alla mano, di poter permettere a Giuseppe - che mai avrebbe voluto sopravvivere in certe condizioni - di poter decidere quello che dopo lunghissima battaglia giudiziaria fu permesso ad Eluana.

Ed è a lei e alla pietà, che Beppino Englaro ha invocato vanamente per troppi anni, che Irene s’ispira, indignandosi per uno Stato che l’ha di fatto abbandonata con l’aggravio immorale di non voler risparmiare sofferenze inutili a Giuseppe e di impedire con ogni strumento che ne siano rispettate le volontà.

A dire il vero Irene chiede soprattutto che le Istituzioni si occupino di suo marito, che lo Stato intervenga a sostenere una famiglia, come la sua, con due figli piccoli e uno stipendio da insegnante, che non può farcela ad affrontare costi così pesanti.

La denuncia del caso di Giuseppe è importante, infatti, proprio per capire e svelare fino in fondo tutta l’ipocrisia di un paese che difende strenuamente la vita in ogni sua forma e a prezzo di qualsiasi dolore, fino al punto di calpestare la volontà individuale, ma senza investire nulla di serio e di concreto su quella stessa sacralità della vita tanto osannata. La famiglia Englaro, almeno, ha potuto permettersi per 17 lunghissimi anni che Eluana fosse accudita nel migliore dei modi possibili.

Ma per coloro che non hanno strumenti economici lo Stato, proprio quello che sigla le leggi sulla vita, ha il dovere assoluto di intervenire. Per questo il diniego del Ministero non è accettabile e per questo la difesa della vita si svela per quello che è realmente: una montatura politica e mediatica, una propaganda per il plauso del Vaticano che non ha alcuna credibilità.

Se questo paese ha scelto di non essere liberale, di mantenere sotto traccia una vocazione cattolica, sarebbe meno grave se lo fosse davvero, fino in fondo e se non utilizzasse piuttosto i casi di sofferenza umana per costruire campagne di terrore sull’eutanasia senza aiutare le persone che versano in condizioni disperate. Questa schizofrenia di valori senza il welfare che servirebbe a renderli possibili, costruisce non soltanto una privazione di libertà pesantissima per le persone e un accanimento che manca di pietà, ma rappresenta anche un’odiosa non credibilità istituzionale che arriva ai cittadini come l’annuncio di un abbandono, come lo sconto autoregolamentato di una politica zoppicante.

Bisogna decidere se si vuole costruire lo Stato minimo, quello che lascia l’assoluta libertà, o se si tifa per lo Stato etico, quello che entra nella vita di ogni cittadino. Orribile il primo senza di welfare, orribile il secondo per la vocazione liberticida. La storia dell’Europa moderna ci avrebbe dovuto guidare alla scelta di una soluzione comprensiva e sintetica di entrambe le tradizioni.

Il caso italiano è invece pericolosamente orientato e voler essere tutto l’uno e tutto l’altro. Solo questo può spiegare perché Giuseppe debba rimanere imprigionato in un letto, a qualsiasi costo emotivo e di dolore fisico, e perché tutto quello che serve per accudirlo, medicarlo e non abbandonarlo a se stesso non sia onere delle casse dello Stato.

Questo strano mostro giuridico, quello che partorirà la legge amata dalla Roccella, che chiede potere assoluto sulla vita di ogni singolo cittadino, assumendo quasi un’investitura sacra di giudizio nel merito dei valori, e che si disinteressa di entrare nel merito emotivo ed economico della situazione, diventa solo un’odiosa restrizione.

Quella che ha avuto il suono di un’implacabile condanna sulla scelta di Eluana. Un pubblico ammonimento, un peccato cui rimediare in fretta. Quello che dentro i confini di questa Sacra Romana Repubblica rischia di lasciare Giuseppe alla sua agonia. La politica della pietà e dell’impegno non è in agenda. La parola d’ordine è la vita, purché sia a costo zero e tutta decisa a Montecitorio secondo indicazioni vaticane.

di Sara Seganti

Sarà la volta buona? Il 12 e 13 giugno si raggiungerà il fatidico quorum? Il referendum come strumento di consultazione popolare sembrava, fino a poco tempo fa, avere esaurito la sua funzione storica. Lunghi elenchi di quorum mai raggiunti sono rimasti come cadaveri sul terreno di una flebile partecipazione diretta degli elettori. Ultimo di una lunga serie, il referendum sulla procreazione assistita era stato un autentico fallimento.

Ora, dopo la decisione della Corte di Cassazione che conferma il quesito sul nucleare nonostante l’opportunistico tentativo di marcia indietro del governo, sembra che il referendum possa ridiventare espressione di democrazia diretta e partecipata. Il 12 e 13 giugno si vota su quattro quesiti abrogativi, di cui due sull’acqua, uno sul legittimo impedimento e l’altro sul nucleare.

Complice anche il successo delle opposizioni alle recenti elezioni amministrative e i forti malumori all’interno della coalizione di governo, esiste la concreta possibilità che questi referendum diventino catalizzatori di una richiesta di cambiamento più ampio della scena politica. Insomma, il governo Berlusconi si è infilato in un bel pasticcio, dal quale non sa come uscire.

Ma partiamo con ordine, per ripensare a tutto ciò che è stato fatto dalla maggioranza per impedire a questi referendum di trasformarsi, come sembra stia succedendo, in un giudizio definitivo sull’operato del governo e sul presidente del consiglio. Tutto è iniziato quando, con evidente disprezzo di regole democratiche e denaro pubblico, il governo ha imposto lo scorporo dei referendum dalle amministrative.

A questo è seguito, dopo gli eventi giapponesi e il clamore mondiale suscitato dalla contaminazione radioattiva dei reattori danneggiati di Fukushima, un goffo tentativo di smarcarsi dal nucleare pur, in realtà, non rinnegandolo affatto. Un’autentica truffa varare il decreto legge omnibus, con l’esplicito obiettivo di far saltare il quesito sul nucleare che, sondaggi alla mano, rischiava di portare in massa gli elettori al voto e far raggiungere, così, il quorum anche sull’abrogazione del legittimo impedimento, norma tanto cara al premier.

Ma non è finita qui: la Rai, televisione e radio pubbliche, e tutti gli altri network belusconiani, hanno imposto agli ospiti, per iscritto, il divieto di nominare i referendum nelle trasmissioni con l’assurda scusa della par-condicio elettorale. Ultimo dato, il calcolo del quorum è stato modificato e, da adesso in poi, nel conteggio di quel 50% più uno degli elettori sono stati inclusi gli italiani all’estero, il che rende ancora più impervio il raggiungimento della vetta. Tra l’altro, molti di loro hanno già votato con la vecchia scheda, e a questo punto è difficile capire come verrà conteggiato il loro, visto che il quesito sul nucleare va riformulato.

Insomma, un balletto della peggior specie che esula sempre dal merito dei quesiti che, invece, sono di una certa rilevanza, anche, e soprattutto, ideale. Ecco, perché ci sono effettivamente in ballo tre grandi domande. È giusto discutere di beni pubblici solo in termini di efficienza? La legge può non essere uguale per tutti? Possiamo investire in una forma di energia che non garantisce alle generazioni a venire un futuro sicuro, in nome della promessa dell’autonomia energetica e dell’abbassamento dei costi?

I due quesiti sull’affidamento e la gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica pongono queste questioni: la privatizzazione può essere una “modalità ordinaria” di gestione di un bene pubblico come l’acqua, e questa “modalità ordinaria” può prevedere dei profitti stabiliti come un diritto dalla legge?

Abrogare questa norma, per i promotori del referendum sull’acqua pubblica, significa fermare l’opera di privatizzazioni in atto e la definitiva consegna al mercato dei servizi idrici italiani, che invece, per circa i due terzi, sono ancora a gestione pubblica ed è tutto da dimostrare che siano meno efficienti di quelli a gestione privata.

Il secondo quesito sull’acqua chiede di abrogare parte di una norma che permette al gestore privato di aggiungere sulla bolletta dei cittadini un 7% a remunerazione del capitale investito, senza obblighi di reinvestimento per migliorare, o rendere più efficiente il servizio. In pratica, un regalo ai privati che avrebbero, per legge, diritto a fare profitti sulla gestione dell’acqua pubblica.

Il quesito sul legittimo impedimento, la norma che permette a premier e ministri impegnati in attività di governo di sottrarsi alle udienze in tribunale, dopo il giudizio di parziale incostituzionalità della Consulta, verrà sottoposto al giudizio dei cittadini. E chiaramente questo è il quesito che Berlusconi teme di più, per ovvi motivi.

Il quesito sul nucleare, dopo la decisione della Cassazione, è stato trasferito sul nuovo decreto omnibus e diventerà una domanda sull’«abrogazione delle nuove norme che consentono la produzione nel territorio nazionale di energia elettrica nucleare». Su questo quesito la confusione è ancora grande, ma in sostanza sono i commi 1 e 8 dell’articolo 5, quelli che potrebbero riportare tra un anno in auge le centrali atomiche.

Comunque vada a finire, sentire da ogni parte della società civile espressioni di rispetto per l’istituto referendario e inviti ai cittadini ad esprimersi con il voto, è forse il vero cambiamento che stavamo aspettando da tempo. Chissà se basterà a raggiungere il quorum…

 


 

 

 

 

 


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