di Mariavittoria Orsolato

Un pareggio che è più pesante di una sconfitta. Questo il risultato del voto bicamerale sul federalismo municipale, cavallo di battaglia della Lega ed effettivo ago della bilancia in questo quarto governo Berlusconi, nato con numeri schiaccianti ora sempre più agonizzante sull’aritmetica. Quindici si contro quindici no (compreso quello del futurista Mario Baldassarri) hanno respinto il testo voluto dal Carroccio e modificato dall’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani), ma se inizialmente Bossi tuonava “se non ci sarà una maggioranza politica il rischio delle elezioni è concreto”, ora, dopo appena 24 ore, la cantilena del senatur è cambiata e si fa più cauta sulla prospettiva dl voto anticipato.

Il decreto sul federalismo municipale ha infatti ancora una chance di sopravvivenza nel suo cammino istituzionale e, nonostante la legge dei numeri sembri momentaneamente avversa, sono ancora un paio le vie che l’Esecutivo può percorrere per esaudire i desideri del Carroccio. La prima è quella di portare direttamente il testo al vaglio delle Camere, mentre la seconda suggerirebbe di tornare in Consiglio Dei Ministri per la delibera finale - che però perderebbe le modifiche volute dall’Anci - mentre una terza soluzione, quella che vedrebbe ripartire i lavori da capo, sembra sia già stata scartata per gli ovvi motivi di tempo.

Stando alle indiscrezioni Berlusconi e i suoi hanno già optato per la seconda possibilità, in aperto contrasto con quanto dice il regolamento della Bicamerale all’articolo 7, ovvero che a parità di voti il provvedimento in esame è da considerarsi respinto. Tutto pur di far passare il provvedimento che, nelle balorde intenzioni dei suoi promotori, nacque come antidoto al centralismo romano.

Usare il passato remoto è d’obbligo in quanto, in questi lunghi anni di gestazione “la madre di tutte le riforme” come la definiscono i leghisti, ha subito diverse metamorfosi e, così come si presenta attualmente, non è esattamente quel baluardo di virtù amministrativa che ci è stato presentato. Umberto Bossi e le sue camicie verdi pontificavano sul fatto che la riforma avrebbe rappresentato un risparmio per le tasche degli italiani, con taglio netto alle tasse, mentre gli amministratori locali (sindaci, governatori e quant’altro) sarebbero stati sottoposti ad un più diretto e ravvicinato controllo da parte dei cittadini.

Inutile dire che dai tempi di “Roma ladrona” la musica è cambiata parecchio e che, di conseguenza, anche il piano originario della riforma ha seguito gli eventi: se infatti l’obiettivo primario erano allora le amministrazioni rosse e democristiane, ree di scialacquare immeritatamente le risorse pubbliche, ora moltissimi comuni (anche al di sotto del Po) sventolano il vessillo del sole delle Alpi e la necessità di batter cassa dopo la cura Tremonti diventa una priorità dinanzi al perdurare della crisi economica.

Se infatti la parola d’ordine era inizialmente “tagliare gli sprechi”, ora, dinanzi alla prospettiva di dover togliere ai cittadini anche i servizi più essenziali, le continue promesse su un’improbabile bengodi fiscale si sono trasformate in versioni rivedute e corrette delle solite imposte locali. Affitti, Irpef, tassa sui rifiuti: tutti balzelli che subiranno un aumento in favore delle entrate municipali, mentre verrà istituita la possibilità di applicare una “imposta di scopo” al fine di provvedere ai bisogni specifici del comune. Abolita poi platealmente l’Ici, questa verrà sostituita dall’Imu, Imposta Municipale Unica, che avrà un'aliquota del 0,76%, ma i comuni potranno ritoccarla in eccesso dello 0,3%, dello 0,2% se l'immobile è stato dato in affitto.

Si rassegnino quindi gli irriducibili della secessione: federalismo significa solo più tasse per tutti. Non pensino però di sfangarla quelli amano barare sulla denuncia dei redditi. Se domani il disegno dovesse passare il vaglio della Bicamerale, è previsto un inasprimento dei controlli fiscali incentivato dal fatto che i comuni che promuoveranno iniziative di contrasto all’evasione saranno premiati con il 50% delle somme recuperate, anche se queste non fossero state riscosse a titolo definitivo. A questi soldi si andrebbe poi ad aggiungere il 75% delle sanzioni sugli immobili fantasma non regolarizzati entro il 31 marzo.

Un gigantesco prelievo quindi, che andrà a toccare anche i non residenti: con l’istituzione della tassa di soggiorno voluta dall’evanescente ministro del Turismo Brambilla - 5 euro per ogni notte trascorsa in albergo - le casse comunali potranno finanziare opere pubbliche e preservare beni artistici e gli amministratori potranno incassare liquidità senza incidere sul consenso elettorale. Un provvedimento che si pone in aperta antitesi con lo spirito contenuto nella riforma del Titolo V e con l’iniziale intenzione di rendere il rapporto elettore-amministratore più coercitivo, che mira a ingrassare le casse comunali facendo leva in buona misura su coloro i quali, pur costretti a pagare, non potranno manifestate il loro consenso, o più facilmente dissenso, nel voto amministrativo.

Questo il capolavoro legislativo della Lega: per alcuni solo una nuova ondata di tasse, per altri la tanto attesa emancipazione del centralismo fiscale romano. Un porcellum tributario che, anche se venisse tradotto in decreto legge, rischierebbe il marchio di incostituzionalità cui tutti poi potrebbero appellarsi per non pagare le tasse imposte. Fucili leghisti permettendo, of course.

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