di Fabrizio Casari

Sostiene Bersani che il PD è pronto ad allearsi con l’UDC per governare. Della dichiarazione, la parte che stupisce è dove si dice che il PD é “pronto” a fare qualcosa. Intendiamoci: nel contenuto non è certo una notizia positiva, dal momento che unire le forze con l’UDC per mandare a casa il governo è un conto, costruirci un progetto di governo è un altro. Ma ci sarà modo più avanti di verificare se questo sarà l’unico epilogo possibile per un partito nato in laboratorio; per ora è più utile tentare di dare una lettura alla cosiddetta “fase di transizione” del berlusconismo e ai pericoli che porta con sé, vagamente evocati da Bersani stesso.

Che cacciare Berlusconi sia un’urgenza democratica e persino una necessità per il sistema paese, non vi sono dubbi. Il fallimento clamoroso del quindicennio del regno di Arcore è sotto gli occhi di tutti. Ed é giusto - come fa Bersani - porsi il problema di una crisi di regime che, nella sua fase finale, può produrre una coda velenosa dall’impatto estremamente pericoloso per una democrazia già oggi ridotta ai minimi termini.

Oltretutto, la sentenza della Consulta, che il prossimo 14 Dicembre definirà la legittimità del legittimo impedimento, rischia di produrre un effetto devastante e definitivo nella stessa compagine governativa. D’altro canto, le crescenti difficoltà del Presidente del Consiglio sia nel suo schieramento che, più in generale, nel consenso del paese, sono il retroterra ideale per una resistenza sulle barricate di un uomo che teme che perdere questo scontro politico, per il livello al quale lui stesso lo ha portato, significherebbe molto di più che una crisi parlamentare e una successiva campagna elettorale.

“E’ un osso duro Berlusconi”, ha detto Bersani. Ha ragione: spesso è accaduto che lo si dava per battuto, ma la sua indubbia capacità propagandistica, le risorse a disposizione e l’insipienza assoluta dell’opposizione lo hanno risollevato. Oggi, però, il Premier sembra avvilupparsi in una crisi dagli esiti incerti; una volta tanto non pare che abbia la capacità di vincere contro tutti e tutto. Cosa dobbiamo aspettarci, dunque, in un contesto così complesso, in quella cioè che si può definire una vera e propria crisi di regime?

Berlusconi ha già dato innumerevoli prove di come intenda la battaglia politica: a tutto campo e senza esclusione di colpi, con ogni mezzo a disposizione (lecito o illecito che sia) indifferente alle regole e pronto al “tanto peggio tanto meglio”. E’ con questa concezione che si è fatto strada nel mondo degli affari e nell’agone politico. Berlusconi non persegue il potere come legittima ambizione per veicolare un progetto politico e di sistema, cosciente che però il suo utilizzo non può e non deve elevarsi al di sopra di quanto la Carta e il sistema di regole istituzionali, scritte e no, consentono. Non ha nessun interesse per la vita del Paese se non per i vantaggi che possono derivarne per lui e per le sue aziende. Per questo è “sceso in campo” e per questo non mollerà facilmente il campo.

Berlusconi ritiene che il suo disegno sia già, di per sé, più importante del Paese stesso al quale dovrebbe essere indirizzato. Difendere il suo disegno diventa quindi prioritario. E in una distorta concezione machiavellica, non solo i fini giustificano i mezzi, ma spesso i mezzi indicano con chiarezza i fini. La sua potenza di fuoco - derivatagli da un potere immenso e sproporzionato per qualunque democrazia occidentale - abbraccia la finanza, la comunicazione e il sistema radiotelevisivo pubblico e privato, il sistema bancario e il commercio con l’estero ed è ben rappresentato nelle strutture palesi e occulte che governano l’Italia.

Nella concezione berlusconiana del potere, del resto, le norme e le leggi su cui si edificano le comunità, sono solo lacci che impediscono a chi comanda nella sostanza di comandare anche nella forma. Per questo vanno rimossi, invocandone ora una presunta inutilità, ora una sospetta inapplicabilità, fino a mettere sullo stesso piano una Costituzione vera e vigente con una “di fatto” inventata dai suoi legulei.

In questo senso, sarebbe quindi perfettamente inutile auspicare una fine di regime politicamente guidata, una transizione dal berlusconismo dalle grandi mascelle verso un riassesto degli equilibri politici ed economici del Paese. In questi ultimi anni abbiamo avuto prove in abbondanza: i dossieraggi mediatici, l’uso dei Servizi segreti e del potere economico sfrenato, senza pudori, nella battaglia politica, hanno inquinato a fondo un paese già piegato su se stesso e in deficit di democrazia. In questo senso, dunque, la difesa degli ultimi spazi di agibilità democratica e di dialettica politica ha una sua funzione determinante, non lo si può negare.

Si può discettare a lungo di transizione incompiuta dalla prima alla seconda Repubblica, ma seppure, storicamente, la sovranità limitata del Paese é sempre stata la ragione fondativa della sua mancata crescita democratica, da quindici anni in qua il buco nero di questa democrazia sospesa si chiama Berlusconi. Il suo dominio politico si poggia (anche) sul conflitto d’interessi che permette ai suoi tentacoli di strangolare la dialettica politica. Inutile qui ripetere ancora una volta quali e quante siano le responsabilità del centrosinistra italiano nel non volerlo affrontare in maniera decisa.

Per alcuni c’era la convinzione che sarebbe apparso un provvedimento illiberale, per altri, autonominatisi volpi della politica, c’era l’idea che non risolverlo una volta per tutte avrebbe tenuto Berlusconi sotto scacco. Fatto sta che non è stato né risolto né affrontato e si è lasciato che questo cancro corrodesse dall’interno il già fragile equilibrio tra i poteri. Sistema che non solo andrebbe salvaguardato per rispetto all’ordinamento Costituzionale, ma che deve essere assicurato se si vuole che la dialettica democratica sopravviva alle ansie di dominio di una persona o di una cricca.

Sul conflitto d’interessi non c’era bisogno di promulgare una legge liberticida, giacché tanto esteso era (e ora lo è diventato molto di più) che sarebbe stata sufficiente una legge semplicemente copiata ed incollata da quelle statunitensi o da qualunque altra esistente nel quadro giuridico europeo. Si poteva legiferare quindi senza timori per la campagna mediatica che il cavaliere nero avrebbe intrapreso. L’ha fatto comunque, per sedici anni, contro tutto e tutti, aggredendo in tutti i modi gli ostacoli che si sovrapponevano tra la sua ansia narcisistica di dominio assoluto e il mandato - limitato, seppur ampio - che le urne gli hanno concesso.

Mandare a casa il governo, senza però sapere come andare a votare successivamente, non sarebbe sufficiente. Una nuova legge elettorale, quindi, se si vuole porre fine alla stortura evidente di un sistema che assegna il 60% dei seggi a chi abbia almeno il 30% dei consensi, ha una sua urgenza intrinseca e non discutibile. L’organizzazione dei collegi e delle circoscrizioni, così come disegnata, e con le norme del porcellum, darà in partenza la vittoria al cavaliere in almeno una delle due Camere, purché egli mantenga saldo il rapporto con la Lega di Bossi. Ma serve un profondo riesame anche delle norme che disciplinano l’utilizzo dei mezzi di comunicazione in campagna elettorale, ad evitare che la già ultra evidente sproporzione di mezzi finanziari e di bocche da cannone mediatiche in campo, non renda semplicemente ridicola una competizione già decisa prima ancora di cominciare.

Una legge elettorale, di norma, dovrebbe garantire due esigenze: rappresentatività e governabilità. E dovrebbe anche essere concepita sulla scorta della tradizione culturale e politica del Paese dove si vota. Proprio in ragione di queste considerazioni, una legge elettorale su base proporzionale, con una soglia di sbarramento al 4 o al 5%, risulterebbe la più idonea a tenere insieme gli elementi di cui sopra.

Impedirebbe ammucchiate, ridurrebbe immediatamente il numero di partiti e partitini - favorendo quindi la governabilità - e semplificherebbe le procedure di voto; ridarebbe la parola agli elettori nella scelta dei candidati e garantirebbe il rispetto delle diverse identità politiche del Paese (favorendo quindi la rappresentatività).

A maggior ragione una legge elettorale equa si rende necessaria per contrastare il profondo squilibrio mediatico garantito dai funzionari del padrone, che occupano ignobilmente le poltrone di direttori dei Tg e dei Gr Rai. Il servizio pubblico non dovrebbe vedere rappresentato nei suoi vertici apicali la quinta colonna dell’azienda concorrente.

Un’azienda - Mediaset - che con buona pace di D’Alema, molto prima che essere una risorsa del Paese è un’arma politico-elettorale del Presidente del Consiglio e del suo partito, così come lo sono i giornali famigli e i magazine che pompano fuffa agiografica per la famiglia, progressivamente trasformati in house organ del padrone.

Questo è il quadro dell’informazione in Italia, questo lo scenario su cui si organizza il mercato della circolazione delle idee e si prefigura il consenso. Questo quindi il punto nevralgico dove l’iniziativa parlamentare deve divenire un imperativo categorico. Se non si vuole veder finire una stagione drammatica con una campagna elettorale farsesca che offra un risultato scontato. Chi ritiene di dover fare politica, è da qui che deve muovere. Se ci si crogiola aspettando di proporre uno scacco al re, si finisce per subire uno scacco matto.

 

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