di Carlo Musilli

Quattro italiani muoiono in Afganistan. Il ministro della Difesa Ignazio La Russa è a Milano. Dopo le dichiarazioni di cordoglio, gli insulti: chiedere il ritiro delle truppe sarebbe “sciacallaggio”. Ma una giornata del genere non si può lasciar passare così. La Russa convoca una conferenza stampa e sale su un aereo per Roma. Si fa riprendere in ministero, circondato da generali. “Non bisogna lasciar nulla d’intentato per proteggere i nostri ragazzi”. Cioè servono nuove armi. Parla di mezzi corazzati come i “fenice” e i “lince”, disturbatori elettronici, rinforzi aerei. Poi la butta lì: “Chiederò alle commissioni parlamentari di valutare la possibilità di armare i nostri caccia di bombe”.

In realtà potrebbe decidere in autonomia, ma è meglio che la responsabilità se la prenda tutto il Parlamento.  La Russa continua a parlare di ‘missione di pace’ perfino mentre propone di adottare la misura più pericolosa per la popolazione, il bombardamento aereo. Può darsi che il massacro quotidiano di civili in Afghanistan (in aumento rispetto agli anni passati, secondo dati Onu) non faccia più notizia. Forse è semplicemente trascurabile. In ogni caso, è tempo di armare i caccia. Perché? Per “proteggere i nostri ragazzi”?

No. Il pericolo più grave per i soldati è quello delle imboscate e le bombe sparate dal cielo non proteggono da questo genere d’attacco. Sempre che il ministro non immagini di bombardare a tappeto ogni singola strada prima di farla attraversare dai beneamati “lince”. A ben vedere, i nostri caccia Amx sono gli unici privi di bombe di tutta la missione Isaf  e questo ci crea un po’ d’imbarazzo davanti alla Nato. Tant’è vero che il segretario generale Anders Fogh Rasmussen si è affrettato a farci presente che “armare i caccia con le bombe non è in contraddizione con la missione Isaf”. Sarebbe a dire, datevi una mossa.

Rimane oscuro come tutto questo si concili con il ritiro delle truppe entro il 2011. Un termine che lo stesso La Russa continua a ripetere, salvo poi specificare che “la guerra vera in Afghanistan è cominciata da poco” e che “nelle ultime fasi del confitto i talebani si sono rafforzati”. Per così dire. In realtà, i talebani non sono mai stati così forti e il meccanismo che li ha rianimati è in moto da qualche anno. In molti, oggi, parlano di neo-talebani.

Quasi scomparsi dopo la caduta del regime nel novembre del 2001, gli studenti coranici si riorganizzano in Pakistan, nelle aree tribali pashtun. Le fila s’ingrossano: non solo si affiancano uomini di Al Qaeda, ma anche islamisti di vario tipo provenienti dall’Asia centrale. Gli stati Uniti fanno pressioni sul Pakistan perché contrasti i gruppi talebani nelle cosiddette Fata (Federal administrated tribal areas), ma ottengono l’effetto opposto a quello sperato. Le popolazioni pakistane della zona finiscono con l’avvicinarsi ai talebani, visti come difensori dell’identità pashtun contro il demone americano. Intanto Islamabad non si lascia piegare e tiene la situazione in bilico, senza opporsi in maniera davvero decisa né ai talebani, né alle incursioni militari Usa.

Se esiste un’uscita d’emergenza per risolvere lo stallo, forse l’ha intuita Hamid Karzai. In un’intervista alla Cnn, il presidente afgano ha confermato quello che il Washington Post aveva anticipato qualche giorno prima. Da diversi mesi sono in corso negoziati segreti fra il governo di Kabul e i delegati autorizzati della Quetta Shura, il gruppo di talebani afgani nascosti in Pakistan e guidati dall’evanescente mullah Omar.“Non si tratta di comunicazioni regolari - ha spiegato Karzai - ma di contatti personali, non ufficiali”. Grazie all’alto consiglio per la pace, il neonato organo di governo destinato ad aprire le trattative con i ribelli, il presidente auspica “che questi negoziati continuino in modo ufficiale e rigoroso”.

Ora, i talebani di Omar hanno sempre detto che avrebbero rifiutato ogni dialogo finché le truppe infedeli avessero occupato il suolo afgano. Perché alla fine hanno deciso di trattare? Secondo fonti del Washington Post, gli uomini di Omar sono alla ricerca di un accordo per evitare di essere scavalcati alla guida del movimento talebano dal clan più radicale degli Haqqani, un gruppo vicino ai servizi segreti pakistani, escluso da ogni negoziato.

La Quetta Shura pretende il ritiro completo delle truppe straniere, dopo di che si accontenterebbe di qualche poltrona per i suoi leader in un successivo governo d’unità nazionale.  Probabilmente Karzai sarebbe disponibile a concessioni di questo tipo. Ma sembra impensabile che la Nato e soprattutto gli Stati Uniti possano accettare una soluzione del genere. Non dopo nove anni di guerra.

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