di Giuliano Luongo

"Senza l’Italia faremmo meglio”. Dopo una marea di convenevoli alquanto inutili, il caro Sergio Marchionne ha espresso la citata dichiarazione durante un’intervista di Fabio Fazio alla trasmissione “Che Tempo che Fa” della passata domenica. Senza cambiare espressione, senza battere ciglio, ha candidamente ammesso che la casa automobilistica che anni or sono ha messo le ruote all’Italia...non ha bisogno dell’Italia.

O meglio, ha bisogno di non avere l’Italia. Marchionne si riferiva alla quota di produzione fatta nel nostro Paese, costosa e generalmente antieconomica rispetto a quelle prodotte all’estero: inoltre parlava della scarsa attrattività dell’Italia per gli investimenti stranieri, vista la costante situazione di instabilità economica e politica mista ad un clima sindacale troppo teso.

Dunque pare che il bisogno fondamentale dell’Ad Fiat non sia solo una terapia d’urto dal dentista, ma soprattutto una cura di fosforo: il fatto che il decesso della sua compagnia sia stato evitato dal governo italiano con i soldi dei contribuenti italiani innumerevoli volte sembra totalmente evaporato dalla sua memoria, senza parlare dell’importante ruolo degli incentivi statali sulla quota di vendite. Il suo intervento televisivo è proseguito con una serie di pretesti che a sua detta avrebbero dovuto spiegare la momentanea cattiva situazione della Fiat, del tutto imputabile a decisioni delle gestioni precedenti, ai sindacati, alla diretta concorrenza.

Le reazioni del mondo politico a questa esternazione atipica, degna del peggior Cossiga beccato durante una sbornia euforica, sono state alquanto eterogenee. Riportiamo la reazione dell’ormai suo funzionario sindacale Bonanni: senza smentire le sue posizioni recenti, ha appoggiato con vigore le posizioni dell’Ad, viste come realtà inconfutabili. L’uomo “contro” del momento, Gianfranco Fini, si è posto invece contro Marchionne, evidenziando le citate gravi amnesie di quest’ultimo sul recente passato del bilancio della sua società.

In disaccordo ma più neutrale invece Angeletti. Dal PD toccano problemi più strettamente industriali: il responsabile economico Fassina ricorda come Marchionne dovrebbe prima pensare a ristrutturare le carenze della sua azienda in termini di progettazione, politiche di investimenti ed organizzazione del lavoro, prima di sparare a zero su tutto e tutti.

Al di là della polemica strettamente politica, la cosa migliore è dirigere lo sguardo verso i problemi legati all’industria stessa, dalla qualità dei prodotti lanciati sul mercato sino ai piani più complessi della struttura organizzativa. La bagarre politica, come al solito, distoglie l’attenzione dalle carenze prettamente di gestione.

Il problema centrale è evidente: per Marchionne il solo modo per far risollevare l’azienda passa per l’abbassamento dei costi di produzione tagliando dal lato dei salari, peggiorando direttamente le condizioni dei lavoratori sul nostro suolo oppure spostando gli stabilimenti nel più vicino e conveniente paese slavo o latino americano. Non dimentichiamo che la Serbia è solo l’ultimo in termini cronologici: la produzione Fiat è presente in Polonia - non dimentichiamo il malcontento degli operai a Tychy, che hanno dovuto sudare parecchio per un mensile di 500 euro - Brasile, India e Russia.

L’importante è trovare un paese con manodopera disorganizzata a basso costo, magari al di fuori delle mura comunitarie dove non arrivano gli standard sulle condizioni di lavoro, e dove magari vi sono facili incentivi per le imprese straniere. Nonostante nel nostro paese ormai due terzi delle principali sigle sindacali siano molto più che malleabili, ciò non è ancora sufficiente per il manager: per l’attuale gestione l’idea di relazioni industriali serene si concretizza nell’imposizione di condizioni inique per il lavoratore che ha diritto solo a stare in silenzio. Il pensiero di Marchionne è evidente: la colpa della situazione attuale è esclusivamente dei lavoratori “recalcitranti”, che da egoisti non accettano condizioni più dure per il bene dell’azienda, inasprendo il clima e rendendo l’impresa poco appetibile per gli investitori esteri.

Sarebbe poi utile concentrarsi sulla mera qualità delle auto prodotte. Marchionne incolpa gli incentivi statali anche per auto straniere (su 10 auto comprate, solo 3 sono italiane): ma si è chiesto perché le preferenze si spostano sui prodotti esteri? Il primo problema è che la qualità Fiat è oggettivamente bassa, con avarie frequenti e componenti fragili, a fronte di un prezzo elevato per la fascia di riferimento.

In secondo luogo, si veda il problema dell’innovazione. Si rilanciano sul mercato modelli obsoleti, resi “nuovi” grazie al totale snaturamento degli stessi, con conseguente cambio di target commerciale. Si pensi alla Panda, da utilitaria a pseudo 4WD per signore, o alla 500, veicolo nato storicamente per motorizzare i meno abbienti e divenuto mini super car per fighetti dalle facoltà mentali ridotte ma dai capienti portafogli.

E in entrambi in casi, un prezzo di partenza per lo più elevato, taglia fuori la fascia bassa di utenza, quella sulla quale la Fiat ha fatto la propria gloria nei “bei” tempi andati. Si noti che questi due modelli sono stati anche particolarmente “ingannevoli” per le sorti dell’azienda: dopo un iniziale successo - dovuto peraltro ad un battage pubblicitario assordante - sono finiti nel dimenticatoio (e nei reparti “usato” dei concessionari) molto presto, per la serie di motivi appena elencati.

Il problema dell’innovazione non si lega esclusivamente ai modelli: ricerca e sviluppo di nuove tecnologie rimangono spesso a livello embrionale. L’Opel già installava motori Euro 4 nel 2003, oggi in Francia si corre verso l’auto elettrica, ma dalle nostre parti si rimane al palo: non che la cosa ci stupisca, visto che qui si ritiene ancora che il nucleare sia una fonte energetica moderna e pulita. Già, la concorrenza francese in particolare. Marchionne ha sostenuto che la Fiat ha fatto l’errore di specializzarsi nella produzione di auto piccole a basso valore aggiunto, che concedono profitti minori, a differenza ad esempio della Germania, che produce principalmente auto di lusso.

Ma proprio nel settore utilitarie low cost i francofoni ci stracciano. E come mai? Perché noi produciamo low cost costose: abbiamo perso la nostra fascia ideale e per di più la qualità dei componenti si attesta su livelli nettamente inferiori. Concentrare risorse nella progettazione invece che nelle follie di marketing, tra campagne pubblicitarie milionarie e linee d’abbigliamento indesiderate sarebbe un passo importante da fare.

Detto questo, non rimane che fare alcune considerazioni. Il problema è strettamente produttivo, ma si cerca di buttarla sul piano politico, a metà tra le responsabilità del “governo ladro” e soprattutto dei lavoratori, i veri bersagli dell’attuale gestione, vittime del nuovo maccartismo italiano: la coscienza di classe e la fame di diritti viene bollata come mentalità sovversiva e va appianata per il raggiungimento del profitto. Non vengono viste strade alternative. Come nota Landini, Marchionne riesce solo a parlare di “sfascio”, senza spendere una parola su investimenti, rinnovo del piano industriale o qualsivoglia strategia. Perché non c’è nulla di tutto questo. C’è solo la ferma intenzione a comandare un’impresa col pugno di ferro verso l’obiettivo del profitto familiare, senza curarsi di chi costituisce davvero l’ossatura dell’azienda. Come quando la rivoluzione industriale era appena iniziata.

 

 

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