di Rosa Ana De Santis

La conoscenza della grammatica italiana, grazie al decreto Maroni, diventerà uno dei punti principali nella famosa patente d’integrazione, balzello burocratico necessario per rimanere in Italia. Agli stranieri che vogliono stare nel nostro Paese per più di cinque anni, secondo quanto stabilito dal decreto del Ministero dell’Interno del 4 giugno 2010, verrà richiesto di sottoporsi ad un test d’italiano.

L’opportunità di rendere la lingua come criterio dirimente per essere integrati o esclusi è folle già nella sostanza, ma ancora più imbarazzante - e fuori dai canoni europei - è il metodo attraverso cui il decreto Maroni dovrebbe attuarsi. Mentre nel resto d’Europa, infatti, sono previsti corsi di lingua messi a disposizione dallo Stato, in Italia quest’opportunità è del tutto assente.

Diventa difficile capire come un lavoratore straniero, magari con famiglia, potrebbe permettersi di pagare un corso privato per sostenere un esame che è invece lo Stato a rendere obbligatorio. Un’incoerenza e una lacuna istituzionale davvero ingiustificabile o, forse, soltanto una trappola ben congegnata. E’ il mondo del volontariato, Caritas in testa, che finora ha cercato di sanare questa mancanza e da molto tempo prima che lo Stato italiano partorisse questo decreto. Insegnare l’italiano agli stranieri significava, infatti, aiutarli ad inserirsi meglio, a potersi difendere, ad esprimere bisogni e diritti e ad avere maggiori opportunità nell’occupazione professionale. Un modo di insegnare la nostra lingua che non sembra essere lo stesso che lo Stato impone attraverso la legge.

Delle 340 mila persone candidate al test di lingua obbligatorio, solo una minima parte riceverà offerta formativa gratuita. E tutti gli altri? I sicuri non idonei, quelli che avranno il bollino rosso all’integrazione, non saranno piuttosto il segno di un’impreparazione istituzionale a gestire questa necessità di integrazione? In Francia, ad esempio, lo Stato si fa carico di corsi da 600 o 800 ore per l’insegnamento della lingua. Ma la cronaca italiana, più probabilmente, tenderà a raccontare di stranieri incapaci di inserirsi e rispettare la nostra cultura. Sembra già di leggere i titoli padani.

A questa mancanza istituzionale si associa poi una seconda questione, che attiene al metodo prescelto per la somministrazione dei test. Il livello richiesto ai candidati, secondo i parametri stabiliti dal Ministero dell’Istruzione, è quello A2. Ovvero, si richiede la capacità di comunicare e scrivere in modo corretto dialoghi frequenti e di senso immediato che attengano alla propria identità, famiglia, occupazione.

Molti stranieri però, che parlano e comprendono bene l’italiano, spesso anche in costruzioni sintattiche elaborate, non sanno scriverlo. Per di più molti sono gli immigrati analfabeti. Un po’ come i nonni italiani che partirono per le Americhe e costruirono un americano contaminato di accenti ed espressioni dialettali. Il livello richiesto sembra essere quindi sovradimensionato per il reale bisogno della vita relazionale degli stranieri e la loro integrazione. Sembra difficile, in ultimo, non considerare il livello di stress imposto all’immigrato candidato al test, dal momento che l’esame si svolgerà nelle questure. Una scena quasi grottesca.

Se è vero che la lingua è un canale importante di integrazione, la formula italiana è la più carente e la peggiore versione con cui questo processo potesse essere incoraggiato dallo Stato. La questione della lingua non è mai soltanto un tema di ordine culturale e letterario. Proprio la storia d’Italia ce l’insegna in modo paradigmatico. Nel caso del nostro Paese infatti, l’operazione che ha condotto al battesimo di una lingua comune, superiore ai volgari regionali, avvenne attraverso la famosa sciacquatura dei panni in Arno con cui il Manzoni volle modellare l’italiano su quello parlato dai fiorentini. Fu un’operazione autenticamente politica, iniziata ancora prima con Dante Alighieri e la riabilitazione del volgare rispetto al latino. In un mosaico di principati e di dialetti lontanissimi, costruire l’italiano significò costruire un paese.

Ora la questione della lingua ritorna ancora una volta come questione etica e politica. A svelare come questo paese racconta e presenta la propria identità nazionale agli stranieri che vivono dentro i nostri confini; a come sa (o, meglio ancora, non sa) collocarsi in un panorama nazionale caratterizzato dal multiculturalismo.

Mutuando la celebre frase del liberale D’Azeglio, potremmo dire che ora che l’italiano è fatto, è proprio il caso di fare gli italiani. E capire se la lingua nata per renderci uguali non stia diventando un orrendo strumento di discriminazione, snaturando se stessa e le sue nobili origini.

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