di Fabrizio Casari

La manovra annunciata dal governo è stata variamente commentata, ma di giudizi lusinghieri non se ne sono ascoltati, se non da parte di Tremonti stesso, cui piace auto elogiarsi in ogni occasione. Le critiche, invece, arrivano da più fronti, alcuni decisamente lontani dagli altri. Non va bene infatti per il PD, i sindacati e le opposizioni tutte e, da tutt’altro pulpito, non va bene nemmeno per le agenzie di rating come Standard & Poor’s, che hanno tra l’altro commentato negativamente le misure a Borsa aperta, incidendo così sul differenziale tra i titoli di Stato italiani e tedeschi. La Consob ha ritenuto - giustamente - di dover convocare gli istituti che si erano espressi a contrattazioni ancora aperte, ma il giudizio negativo anche se ritardato di qualche ora, non cambierà quello successivo dei mercati.

Ora, se il giudizio negativo di opposizione e sindacati potrebbe risultare scontato, visto che proviene da chi ritiene che ben altra dovrebbe essere stata la manovra, per tempi, importi e contenuti, quello delle agenzie di rating appare decisamente più pesante. Non solo perché più direttamente in grado d’ìnfluenzare i mercati, ma proprio perché la manovra è stata decisa (dopo che per mesi il governo aveva negato ce ne fosse la necessità) in vista del giudizio di declassamento del debito che si sapeva sarebbe giunto come una condanna all’inizio dell’autunno. Cercare di evitare il giudizio anticipando la manovra è divenuto un rimedio che ha esacerbato il male. Doppio fallimento, quindi, per Tremonti e i suoi (sempre meno, va detto) laudatores.

La manovra contiene, nel suo complesso, un disegno politico ed economico che è da rifiutare in toto. In primo luogo spalma su tre anni i suoi interventi, con la scusa che il pareggio viene richiesto dalla Ue per il 2014. Il giochino è quindi quello di allocare la parte a minor impatto sociale sull’esercizio corrente 2011, per scatenare invece la quota maggiore delle misure antipopolari sui prossimi due anni, quando cioè Berlusconi e il suo governo saranno solo un triste ricordo.

In secondo luogo segue le orme delle manovre fin qui seguite nei diciassette anni di berlusconismo, che hanno portato la situazione economica e sociale dell’Italia al bordo dell’abisso. In questo senso, la manovra annunciata ha solo il pregio della coerenza con i disastri precedenti, visto che è in linea con le politiche economiche fin qui seguite dal governo Berlusconi.

Coerente quindi con una logica di tagli orizzontali, indiscriminati; nessun discernimento su dove e come tagliare, su quali settori considerare strategici e quali invece secondari e, soprattutto, sul dove sarebbe necessario tagliare e dove, invece, si dovrebbe mantenere o addirittura incrementare la spesa.

Le forbici così, in luogo d’essere impugnate come un bisturi, hanno assunto la forma di un machete. Tagliare per fare cassa, questo l’obiettivo; ma la cassa è subito, mentre le ripercussioni sociali dei tagli si scaricheranno sui prossimi governi. Tagli (peraltro già criticati anche dall’ex-governatore Draghi) che hanno già schiantato l’Italia e, soprattutto, le tasche degli italiani.

Se l’obiettivo dichiarato del governo era la riduzione della pressione fiscale, questa non è arrivata, anzi; e se la mannaia sui conti pubblici doveva servire alla riduzione del debito, è bene ricordare che la macelleria sociale di Tremonti non ha certo centrato l’obiettivo; anzi ha raggiunto l’infausto risultato di portare il debito al 120 per cento del Pil.

Nella manovra non c’è nessuna misura di sostegno allo sviluppo, nessuna risorsa per la crescita: solo tagli al welfare e ai diritti sociali acquisiti (come la rivalutazione delle pensioni). Riduzione del personale nell’istruzione e nella sanità, ma nessuna patrimoniale. E nessuna abolizione dei capitoli di spesa riguardanti le cosiddette “grandi opere” che, dal Ponte sullo Stretto a la Tav in Val di Susa, rappresentano una follia concettuale, un disastro imprenditoriale ed un massacro ambientale i cui costi continueranno a ricadere sui contribuenti tutti a vantaggio di qualche impresa o di qualche cricca.

Nella manovra di contenimento della spesa pubblica non c’è nessuna riduzione delle spese militari quali quelle determinate dalla presenza in Iraq e Afghanistan e dall’aggressione alla Libia, per non parlare dei fondi faraonici previsti per il nuovo cacciabombardiere; non c’è nessuna abolizione dei finanziamenti pubblici alla scuola privata, ma ulteriore taglio per gli insegnanti di sostegno e ulteriore dequalificazione per la scuola pubblica.

Nessuna misura per incentivare all’assunzione di personale le aziende né, tantomeno, nessun passo verso il superamento della famigerata Legge 30, che sta finendo di distruggere l’idea stessa del lavoro nel nostro paese. L’aumento ulteriore dei disoccupati (che pure viene conteggiato decisamente per difetto) denuncia quello che tutti vedono: la cosiddettà flessibilità è solo in uscita e la precarietà assoluta è la nuova cifra del lavoro, la prospettiva più concreta per le nuove generazioni.

Gli Enti Locali, già penalizzati dalla contrazione violenta dei versamenti dallo Stato centrale, hanno dovuto prima sopportare la mazzata dell’abolizione dell’Ici - voluta dal cavaliere di Arcore per vincere le elezioni - ed ora, con il finto federalismo fiscale, si trovano ancor più con l’acqua alla gola e con la necessità d’inventare nuove forme di prelievo per tenere in vita le casse comunali. Il risultato di ciò è che l’Italia ha oggi servizi peggiori e più cari, imposte e debito locale più alto e disuguaglianze cresciute.

E’ insomma il darwinismo sociale la cifra ideologica della manovra, che è inutile, socialmente costosa e non in grado di produrre nemmeno una parte dei risultati attesi. E che si accanisce in particolare sui ceti medi, considerati il terreno buono per la spremitura delle ultime risorse. Lavoratori dipendenti e pensionati hanno infatti sopportato il maggior peso dei tagli del governo (circa 80 miliardi di euro negli ultimi anni).

Il blocco sociale berlusconiano vede la sega elettrica che taglia la zolla dove é poggiato e le conseguenze elettorali non tarderanno a evidenziare l’abbandono definitivo delle sirene della cosiddetta “rivoluzione liberale”. Ma il costo sociale, ripetiamo, è destinato a ricadere, per la quota maggiore, sui governi che verranno.

Da Bruxelles s’invoca rigore sui conti e rientro progressivo dell’esposizione debitoria, ma alcuni dei paesi più importanti della Ue hanno già varato misure per la ripresa economica, che hanno prodotto risultati più che positivi. In Italia, invece, la ripresa economica non pare essere tema all’ordine del giorno.

Per ora Tremonti si accontenta di prendere le forbici e trasformarle in politica finanziaria. Il suo problema è salvare il governo e la sua personale immagine, non il Paese. Si conferma così il rifiuto del governo di rilanciare politiche industriali a sostegno dell’occupazione che riaprano la strada alla contribuzione previdenziale da un lato e ai consumi dall’altro, fondamentali per una spirale virtuosa di ripresa economica.

Senza crescita e senza lavoro, peraltro, oltre a quelle delle famiglie si deprimono ulteriormente anche le casse dello Stato. E’ invece solo la crescita economica che, insieme alla buona amministrazione, può ridurre nel medio-lungo periodo il deficit pubblico, come la storia insegna.

Ma il dogma resta uno: tagliare, tagliare e ancora tagliare. Il rigore dei conti (apparente, perché la spesa corrente è cresciuta) prevale su qualunque ipotesi di crescita e sostegno alla ripresa economica. Ma anche un ragioniere di terza classe sa che il riequilibrio dei conti, la riduzione (per quanto progressiva) del debito e il risanamento più generale dei conti pubblici italiani ha dimensioni tali per le quali non è nemmeno ipotizzabile un riequilibrio solo riducendo le uscite.

Sono le entrate che non funzionano, a cominciare da quelle che dovrebbero essere ovvie, evasione ed elusione fiscale in primo luogo. Il recupero di dieci miliardi di evasione fiscale nel corrente anno è stato sbeffeggiato dall’aumento di trenta miliardi complessivi dell’evasione stessa. Non lo dice l’ultimo keynesiano, ma la Banca d’Italia e la Guardia di Finanza.

Ma chi ha riempito di gioia gli evasori, regalando condoni e finte scadenze di emersione, come può essere lo stesso che oggi li inchioda cominciando dalla patrimoniale e con una tassazione adeguata sulle rendite finanziarie di stampo europeo? Riportare i conti in ordine é possibile solo con il rilancio del sistema Italia: rilanciare l’occupazione ed investire sulla modernizzazione della produzione e della rete di servizi, insieme ad una nuova politica industriale e al rigore fiscale sono i passaggi inevitabili.

La premessa politica fondamentale di un progetto di risanamento è riportare l’economia al suo ruolo originario di amministrazione e di riporla nella sua collocazione naturale, cioè al servizio della crescita sociale e civile di una comunità. Serve quindi un altro progetto sociale e politico anche per costruire un altro modello economico.

Queste dovrebbero essere le ragioni per le primarie del centrosinistra: non uno scontro tra persone in cerca di leadership ma un confronto tra progetti che seppellisca definitivamente i becchini del monetarismo e, con essi, il lungo sonno della ragione che ha colto una sinistra ormai capace solo di ricordare ad ognuno ciò che non è più, ma incapace ancora di dire a tutti noi ciò che vuol’essere.

Il cammino verso questo nuovo corso, verso un vero e proprio Rinascimento delle idee e, con esse, della sinistra, è la scommessa obbligata: la spinta dovrà partire dal basso, dalla rete dei senza parola, dalle miriadi di articolazioni territoriali con le quali i senza diritti si riprendono la politica.

Questo dovrà essere l’ultimatum da inviare al ceto politico della sinistra. L’urgenza di riportare la politica in Italia è enorme. Ma o le regole del gioco prevedono come obiettivo finale un nuovo modello sociale e politico, una rinascita della democrazia, o il gioco, semplicemente, non interessa.

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