di Fabrizio Casari

Declassamento del debito, disoccupazione alle stelle, welfare in crisi nera, prospettive future più in linea con la Grecia che con la Germania, governo scollato dal Paese, istituzioni ferite. Ma che volete che sia per Bossi? La ricetta per la ripresa del Paese che arriva dagli adoratori dell’ampolla del Po è semplicissima: riforma fiscale, riduzione dei fondi al sud e quattro ministeri al nord, magari a Monza e Cusano Milanino e il governo navigherà sereno.

Che la rotta porti l’Italia verso il naufragio appare un dettaglio. Le diverse culture politiche italiane direbbero che servirebbero Quintino Sella o Cavour, De Gasperi e Togliatti, ma la Lega pensa invece ad Alberto da Giussano. In un pratone senza storia, tra panini e ammennicoli di vario cattivo gusto é andato in onda, con padana puntualità, ma con depressione diffusa, lo show di Pontida. Il protagonista principale della kermesse, il senatur, ha posto le sue condizioni al coprotagonista, Berlusconi, che ha ricevuto l’avviso di sfratto in contumacia.

Perché di sfratto si tratta. Quando, in spregio ad ogni logica e comune buon senso si propongono percorsi impraticabili ed inutili, lo si fa esclusivamente per farsi dire di no ed addossare all’interlocutore la responsabilità della fine dell’alleanza. Perché la Lega è lacerata in due: da un lato si è innamorata dei Ministeri e della rete di potere economico che il Carroccio ha costruito nel tessuto del paese, dall’altro ha capito benissimo che i suoi stessi elettori non sono disposti a fornire ulteriore consenso a quello che ritengono - a torto o a ragione - uno snaturamento del Carroccio stesso.

Ma Pontida è una kermesse per i gonzi, con elmi cornuti e campanelle sul petto, spade medievali e ampolle di fiume inquinato. Nessuno, nel vertice di Via Bellerio, pensa davvero che sarà possibile percorrere una strada enormemente costosa, assolutamente inutile e, tutto sommato, da nessun leghista richiesta. Al popolo del Po non interessa affatto avere ministeri al nord, interessa invece il perseguimento di due strade: quella della xenofobia sociale ed economica e l’abbattimento delle aliquote. Entrambe avventure non proponibili sia per l’economia del paese e per la tenuta del suo collante nazionale, sia per l’impraticabilità delle misure nello scenario europeo di cui, comunque, l’Italia fa parte.

D’altra parte, lo stesso tentativo di isolare economicamente il sud del Paese, già martoriato da Tremonti, per Berlusconi rappresenterebbe solo la scelta di decidere come uscire di scena: i voti al sud pesano moltissimo e inclinare ulteriormente il Pdl verso le attese leghiste trasformerebbe il partito del predellino verso una mega-formazione locale, senza nessuna possibilità di divenire maggioranza politica in tutta Italia.

E allora? Che senso ha fare proposte irricevibili se non quello di sentirsi opporre un rifiuto e, da qui, considerare esaurita l’alleanza politica? La questione vera dei ministeri risiede solo nel riconoscimento della centralità del ruolo della Lega nel governo, in alternativa al peso politico che gli ex-Dc e gli Scilipoti di turno hanno assunto in un Parlamento che, per ragioni di numeri, ha eletto a ruolo decisivo i peones, gli avanzi di ogni schieramento variamente allocati.

Le urla sguaiate e i deliri offerti sono stati vari. Quello di Maroni Presidente del Consiglio è stato uno dei più gettonati e lui, per non farsi trovare impreparato all’appuntamento con la sobrietà istituzionale, dimentico d’essere ancora ministro dell’Interno, si è lanciato in un attacco contro la magistratura. Tremonti pare essere passato di moda, poco si attanaglia al profilo del liberatore del nord.

Ma questo è folklore, pedaggio obbligato per ridurre lo iato tra promesse e fatti e non è certo da Pontida che sono venute le indicazioni; al contrario, si è scelto un raduno per comunicare al partito il bisogno di serrare i ranghi, per far capire che la disaffezione della base leghista (manifestatasi ampiamente in tutti i media del Carroccio) è condivisa anche dal vertice.

Il raduno, rito di celodurismo in favore di telecamere, ha un duplice obiettivo: dimostrare al cavaliere che la Lega non può fare a meno di ascoltare i suoi elettori e avvisare il popolo padano che l’avventura con il Pdl volge al termine. Al popolo delle valli si ripropone Braveheart e il fazzoletto verde, facendo mostra di essere pronti a rinunciare al governo: dunque, serrare le fila e prepararsi alla fine del regime cercando di limitare al minimo i danni e cominciare a riciclarsi per le prossime elezioni.

Una scelta, quella della Lega, comunque non semplice ma in qualche modo inevitabile; perché il legame personale tra Bossi e Berlusconi, sebbene ancora solido, è il paradigma fondamentale della crisi di consensi. Se infatti il Pdl ha consentito la sedimentazione del Carroccio nel reticolo dei poteri nazionali, proprio quel legame politico appare ormai troppo legato solo al rapporto personale tra i due leader. E Bossi, che è animale politico di razza, ha ben chiaro come, per la prima volta, rischi di precipitare insieme al cavaliere.

Non certo perché il Senatur tema rivolte interne: troppo forte è il legame tra il capo e le folle leghiste, ma la novità di queste ultime settimane è che questo non è più sufficiente. Seppure infatti la base leghista non si sogna (ancora) di mettere in discussione la leadership di Bossi, la ben più ampia platea degli elettori hanno già deciso di sfiduciarlo. Prova ne sia il voto amministrativo e, soprattutto, l’affluenza dell’elettorato leghista al voto referendario, in aperta sconfessione delle indicazioni all’astensione che Bossi, come Berlusconi, avevano lanciato.

Si propone, dunque, una variante nello schema della crisi del ’94. Che avverrà attraverso la disponibilità alla riforma elettorale o attraverso un voto di sfiducia, dipenderà dai tempi che a Via Bellerio si sceglieranno. La Lega, nel timore di essere berlusconizzata, chiede al Pdl di assegnare alla Lega la centralità politica dell’alleanza. Chiede, insomma, la cessione del timone. Ma la barca fa acqua da tutte le parti. Lo stesso Alemanno s’incarica di aprire la guerra interna al Pdl ricordando alla Lega d’essere minoranza della minoranza.

E la falla s’allarga anche a poppa, visto che i residui democristiani, da Giovanardi e Rotondi, nel corso di convegni non certo affollati, hanno lanciato a loro volta ultimatum al cavaliere, a questo punto circondato. A Berlusconi, insomma, chiedono tutti una cosa sola: farsi da parte ma lasciando in campo le sue armate mediatiche e finanziarie, senza le quali il Pdl diventerebbe poca e inutile cosa. Ma si può de-berlusconizzare il Pdl? Si può pensare ad un berlusconismo senza Berlusconi? Flaiano può esserci d’aiuto: la situazione è grave, ma non è seria.

 

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