di Sara Seganti 

La partecipazione riparte dal basso. Dopo la vittoria di Pisapia a sindaco di Milano e l’importante passaggio dei referendum di giugno, anche Zingaretti, l’attuale presidente della Provincia di Roma, ha intensificato i rapporti con la società civile in vista della sua prossima candidatura a sindaco della Capitale. Zingaretti ha, infatti, preso parte all’incontro “Per il bene di Roma” organizzato nel cuore di Testaccio dalla rete "La città di tutti" che riunisce 130 associazioni di cittadini romani interessati a partecipare attivamente alla politica della capitale e che ha, in pratica, conferito a Zingaretti l’investitura “dal basso” per le prossime elezioni, in stile Pisapia.

Il fenomeno, che vede la società civile riassumere su di sé quella delega che ha smesso di concedere in bianco alla politica e ai partiti, presentandosi come interlocutore attivo e competente, in grado di orientare l’azione per il bene pubblico nelle direzioni giuste, è in totale antitesi con il clima d’intrigo che regna incontrastato nei palazzi del potere.

In questi giorni, infatti, per la prima volta in 27 anni il parlamento italiano ha consentito un’autorizzazione a procedere per un deputato, minando così il principio di totale immunità che de facto era sempre stato garantito dall’occupare uno scranno alla Camera. Ciò che è avvenuto al deputato Pdl, Alfonso Papa, indagato per concussione e al centro dell’inchiesta sulla P4 avrebbe potuto rappresentare un momento di buon costume parlamentare: una risposta fattiva all’ondata di anti-politica che serpeggia nel paese.

Purtroppo così non è stato: la nostra classe politica non riesce più ad uscire dalla bagarre e dalla contrapposizione formale, incurante di cosa pensano coloro che stanno fuori dal palazzo. Complice anche una legge elettorale figlia del suo tempo, definita porcellum dal suo stesso creatore, che non permette più di esprimere preferenze dirette e finisce per mandare in parlamento solo gli unti dal leader. Cosa ne è di una democrazia parlamentare se la delega tra gli eletti e gli elettori non funziona più?

Il coinvolgimento attivo della società civile - secondo l’idea che unicamente coloro che conoscono direttamente il territorio e i suoi problemi possano mediare tre le diverse esigenze e, contemporaneamente, essere più indipendenti rispetto a chi è sempre concentrato sulla raccolta di voti - è una risposta sufficiente alla crisi della rappresentanza, rappresenta un futuro per le democrazie?

Senza voler citare, ancora una volta, l’anomalia italiana del berlusconismo che, pure, costituisce buona parte del problema, e cercando di capire le profonde motivazioni della crisi della rappresentanza occorre guardare, oltre la nostra storia nazionale, anche ai recenti cambiamenti globali. Perché il mondo ampliato e interconnesso, la nuova società tecnologica e la crescente interdipendenza delle economie nazionali sono fenomeni che hanno modificato radicalmente l’universo all’interno del quale agisce la politica.

L’idea sostenuta da molti è che, in uno scenario globalizzato, la politica non abbia più le competenze necessarie per regolamentare settori complessi e interconnessi all’interno di un quadro di legge coerente. In questo contesto, l’entusiasmo per il ruolo svolto dalle associazioni, dalle fondazioni e dai comitati, è legato (e non solo in Italia) all’idea di governance, termine mutuato dalla gestione del privato, che sembra aver conquistato i pensatori politici al punto da decretare la fine della politica, così come l’abbiamo conosciuta, per far posto agli esperti, alla società civile e ai tavoli di negoziazione divisi per settori.

L’Unione Europea regola già molti settori usando questa nuova modalità di coinvolgimento dei diversi interlocutori, riattualizzando in parte il funzionamento dei tavoli sindacali. Le nuove parole chiave sono partecipazione dal basso, mediazione, trasparenza, e internet.

Non può passare inosservata, tra gli esempi recenti di una nuova via alla cittadinanza, la recente esperienza dell’Islanda che oggi sta riscrivendo la sua costituzione, con un sistema di consultazione dal basso, via internet. L’Islanda è un piccolo paese con 300.000 abitanti che non permette paragoni con la nostra realtà, ma la sua recente parabola può essere uno spunto di riflessione.

L’Islanda entra in crisi nel 2008, prima del fallimento di Lehman Brothers, passando in pochi mesi da uno dei tenori di vita più alti del mondo all’insolvibilità, conseguenza di una deregulation finanziaria sfrenata. La cosa interessante è che gli islandesi sono riusciti a far cadere il governo e a rifiutarsi di ripagare il debito contratto principalmente con Inghilterra e Olanda, vincendo pochi mesi fa un referendum con il 90% dei voti.

Nel momento in cui hanno dichiarato fallimento, gli islandesi hanno iniziato un processo di democrazia dal basso per riscrivere, o meglio per migliorare, la carta costituzionale e rifondare un patto sociale, ripensando il rapporto tra politica e mercato. Questo esperimento è condotto in crowdsourcing, partendo dalla rappresentanza diretta e dalle piattaforme di discussione delle proposte sul web.

L’Islanda sta facendo un esperimento nuovo, in un contesto molto particolare: oggi il paese ha ricominciato a crescere, ma è ancora isolato economicamente dall’esterno e ha dimensioni talmente piccole da poter essere paragonato a un comune. Ciò nonostante, l’idea che sia possibile riprendersi la delega e usarla per riscrivere collettivamente le regole della vita pubblica è un’idea forte di cui la politica oggi ha più che mai bisogno.

Queste nuove e varie forme di partecipazione attiva della cittadinanza sono sicuramente una risposta positiva alla ridefinizione degli equilibri, interni e globali, che siamo costretti ad affrontare. Occorre scongiurare il rischio, però, che questa partecipazione diretta si identifichi con l’ideale di una governance incolore, correndo il rischio di decretare, insieme alla fine della politica, anche la fine delle idee.

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