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di Mariavittoria Orsolato
Centomila, forse di più. Gli studenti italiani sono tornati a manifestare in quello che si preannuncia essere un autunno caldo. Ieri la protesta ha attraversato più di 90 città italiane e, come da tre anni a questa parte, i bersagli sono i tagli indiscriminati al comparto dell’istruzione e una politica economica che definire penalizzante è riduttivo.
Era il 2008 quando l’Onda - il movimento di studenti e precari under 30 - cominciò a indire cortei per gridare a pieni polmoni che “noi la crisi non la paghiamo”. Oggi, a tre anni di distanza e sempre più pericolosamente vicini al default finanziario, i giovani italiani sono meglio organizzati e agguerriti, e rivendicano il sacrosanto diritto di imporsi nella gestione della cosa pubblica.
Sono tornati in piazza perché i loro titoli di studio sono carta straccia, perché gli stage gratuiti che le loro scuole o università rimediano li mortificano, perché sono stanchi di farsi sbattere la porta in faccia con la scusa che “sai in questo momento c’è una brutta crisi…”. Non c’è lavoro, non ci sono soldi, non c’è futuro: questo è quanto l’Italia può offrire ai suoi figli, naturale che questi gli si rivoltino contro.
L’ultima volta è stato il 14 dicembre scorso, con una Roma a ferro e fuoco, disarmata dall’ennesimo colpo di coda dell’esecutivo Berlusconi e dalla rabbia dei ragazzi. Ieri non è successo niente di tutto ciò, a parte qualche manganellata nella capitale e una tentata irruzione nella sede milanese dell’agenzia di rating Moody’s, le manifestazioni degli studenti si sono svolte senza incidenti. Prendendo spunto dai movimenti globali di protesta che hanno attraversato il Nord Africa e le Americhe, l’Inghilterra, la Spagna e la Grecia, le pratiche dei manifestanti si sono affinate, a partire dal Book Block, libroni in polistirolo che rimandano ai grandi romanzi di formazione e sbeffeggiano chi pretende di indicare il movimento come violento.
Gli studenti sfilano in corteo e per rifiutare la mobilità e la flessibilità che l’economia gli impone, si fermano nelle arterie principali bloccando il traffico, sperando nella comprensione di chi, come loro, si sente intrappolato senza una via di fuga plausibile. Danno la sveglia a Montecitorio o si accampano con tende e chitarre nella piazza principale, come succede a Bologna, seguono i loro coetanei nel mondo e disobbediscono in modo civile.
Rispetto a tre anni fa, sanno maneggiare meglio i social network e con questi comunicano in modo virale le loro iniziative - ieri gli hashtag #studenti e #7ott erano i primi due nella toplist di Twitter -, si coordinano, discutono, consapevoli che la rete è uno dei pochissimi spazi di manovra loro rimasti.
Dire che a questi ragazzi “farebbe bene un giorno di scuola in più e uno sciopero in meno”, significa non avere assolutamente il polso della nazione. Le rivendicazioni di quelli che oggi sono studenti e domani saranno precari vanno ben oltre il diritto allo studio e abbracciano le istanze della protesta globale contro la politica e la finanza, battezzata “degli indignados” grazie al successo delle occupazioni spagnole. Indebitata dalla nascita e destinata ad un futuro privo di appigli o qualsivoglia certezze, la generazione zero (euro) è conscia che questa crisi significa erosione dei diritti sociali e costituisce un attacco frontale alle aspirazioni di vita.
Sulla scia della rivoluzione popolare islandese reclamano il diritto all’insolvenza e rifiutano la socializzazione delle perdite imposta dalle finanziarie dei governi, a loro volta ispirati dalle direttive di BCE, FMI e dalla schizofrenia dei mercati. Privi dei vessilli di partito che avevano caratterizzato le lotte dei loro padri o nonni, provano a confrontarsi con la vita adulta nel modo che è più congeniale alla loro età. S’infiammano, credono veramente di poter fare qualcosa di concreto per il loro futuro, adesso, nell’immediato: sono di certo la meglio gioventù e agli adulti che affrontano l’evidente depauperamento con frustrazione o cinismo, questo impeto dovrebbe servire da esempio.
Oggi a Roma sfileranno i lavoratori del pubblico impiego e della conoscenza, gli studenti cammineranno al loro fianco, così come il 12 ottobre emuleranno i coetanei americani nel tentativo di occupare la Banca d’Italia. In attesa del 15 ottobre, data designata per la “global revolution”, una giornata di mobilitazione internazionale per imporre una democrazia reale e tentare la via della decisionalità orizzontale; per scuotere, in definitiva, le coscienze sull’urgenza di far fronte con strumenti diversi al baratro su cui oscilliamo.
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di Carlo Musilli
"Mi fanno ridere. Arriva un altro, ma poi cosa fa? Ma va'...". Dopo giorni di silenzio, Silvio Berlusconi torna a parlare, ostentando sicurezza di fronte alla sola idea di un governo diverso dal suo. Eppure, arrivati a questo punto, non passa giorno senza che qualcuno evochi la fine del Cavaliere. E non dalle file dell'opposizione, che pure ripete ossessivamente il mantra delle "dimisisoni" o del "passo indietro", ma dagli stessi banchi della maggioranza.
Dopo l'allusione di Giulio Tremonti, che ha sottolineato i positivi effetti economici portati alla Spagna dalla convocazione di elezioni anticipate (suscitando la furia del premier, stando al pittoresco resoconto di Giuliano Ferrara), oggi a parlar chiaro ci ha pensato Umberto Bossi. Se qualche giorno fa il Senatùr aveva detto di "vedere lontana" la scadenza naturale della legislatura, che arriverebbe solo nel 2013, stavolta ha scelto di essere ancora più esplicito. "Mi sembra obiettivamente complicato" arrivare in fondo, ha ammesso il leader del Carroccio, specificando poi di aver "sempre detto che è meglio votare prima", perché "è difficile spennare la gente e poi farsi votare, meglio andare al voto prima".
Mentre era impegnato a schivare colpi di questo genere da parte del fuoco amico (ripetendo, come sempre, che l'Esecutivo reggerà "fino al 2013"), oggi Berlusconi è riuscito anche a prodursi in una delle sue esternazioni più tipiche. Su due binari: da una parte il messaggio politico, dall'altra il diversivo mediatico. Ovviamente si è parlato di più del secondo, l'immancabile battutaccia da bar con cui il Cavaliere ha suggerito la possibilità di ribattezzare il suo partito "Forza Gnocca". La solita robetta pruriginosa che non meriterebbe alcun commento. Eppure l'hanno commentata tutti. Ci sono cascati tutti. L'opposizione ha tirato su una bagarre di commenti, dichiarazioni e comunicati stampa per deplorare con censorio sdegno cotanta irrispettosa volgarità.
Intanto il premier aveva detto una cosa molto più interessante. E cioè che invierà al Consiglio superiore di Bankitalia l'indicazione decisiva sul nome del nuovo governatore entro il primo novembre. Non una grande sorpresa, visto che quello è l'ultimo giorno utile prima che l'attuale numero uno di via Nazionale, Mario Draghi, si trasferisca a Francoforte per guidare la Bce. Eppure ha un significato. Berlusconi ha preso tempo, come a dire che in questo momento le priorità sono altre. In sostanza, sembra che il Cavaliere voglia tornare sull'argomento soltanto dopo aver chiuso la partita del decreto sviluppo, che arriverà in Aula fra 13 e 14 ottobre.
E' quello il provvedimento più atteso dall'Europa, dai mercati e soprattutto dal mondo imprenditoriale italiano. Se il premier riuscisse, grazie alle nuove misure, a riscuotere apprezzamenti internazionali, ma soprattutto a siglare una tregua con Confindustria, placando le ire di un'Emma Marcegaglia mai così agguerrita, allora si potrebbe presentare con tutt'altro spirito alla sfida finale sul nome del nuovo governatore. E con tutt'altre carte da giocare. A quel punto potrebbe forse nominare un uomo diverso da Vittorio Grilli, il candidato tremontiano, evitando anche le dimissioni del ministro dell'Economia. Certo, anche lui dovrebbe rinunciare all'investitura che vorrebbe, quella di Fabrizio Saccomanni, per virare definitivamente su un terzo nome (nelle ultime ore il più verosimile sembra essere quello di Domenico Siniscalco). Un prezzo che vale la pena di pagare pur di evitare lo strappo e mantenere in piedi la leadership. Almeno per ora.
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di Carlo Musilli
Non chiamatela gaffe, è stata una frecciata. Tutto si può dire di Giulio Tremonti, meno che sia un uomo del tutto sprovveduto, almeno politicamente. Al termine dell'Ecofin, il summit che riunisce i ministri economici dei paesi Ue, il numero uno di via XX Settembre ha dovuto rispondere a una domanda precisa: per quale ragione, secondo lei, i titoli di Stato spagnoli sono considerati dai mercati meno rischiosi di quelli italiani? Risposta: "Dipende anche dall'annuncio di nuove elezioni, che di per sé rappresenta una prospettiva di cambiamento per la Spagna e quindi un'apertura al futuro". Putiferio in sala stampa. Finalmente un temerario chiede lumi: "Non sarà quindi il caso di seguire la stessa strada anche in Italia?". Tremonti sorride: "Ho detto così, per dire".
Di lì a poco anche il portavoce del ministro si affanna a chiarire, con l'immancabile citazione dotta: "Cuius regio eius religio! Quando parla con la stampa all'estero il ministro Tremonti evita temi italiani. Il riferimento agli spread spagnoli era ed è di conseguenza esclusivamente relativo alla Spagna, non all'Italia". Peccato che, nel resto della conferenza, il superministro di "temi italiani" abbia parlato eccome: dai conti pubblici rabberciati alla crescita che non c'è, dalle pensioni all'occupazione.
Insomma, ascoltando quell'ultima frase il collegamento era scontato. Tremonti sapeva benissimo quale reazione avrebbe provocato. In sala stampa, ma soprattutto a Palazzo Chigi, dove il messaggio è arrivato chiaro e tondo. Nessuno pensa che il superministro avrà il coraggio di arrivare autonomamente allo strappo. Sta cercando una scusa, un pretesto minimamente valido per abbandonare la casa in fiamme. L'uscita di ieri, probabilmente, serviva solo a far sentire la propria voce minacciosa, a tenere alta la temperatura. Il vero campo di battaglia, comunque, resta la nomina del governatore di Bankitalia.
Anche perché la frase incriminata di ieri, a pensarci bene, è un'ovvietà assoluta. Non ci sono dubbi: la Spagna ha beneficiato del passo indietro di Zapatero, che da tempo ha convocato elezioni anticipate senza ripresentare la propria candidatura. Una vera banalità, ma il punto è che non doveva uscire dalla bocca di un rappresentante del Governo Berlusconi. Da settimane il Cavaliere continua a ripetere il ritornello-barzelletta sulla maggioranza forte e solida che ha salvato il Paese da una fine ingloriosa stile Grecia.
Purtroppo, all'infuori di Arcore, nessuno sembra d'accordo col premier su questo punto. Nelle motivazioni del downgrade con cui due settimane fa ha colpito il nostro Paese, l'agenzia di rating Standard & Poor's parlava della "fragilità del governo, che limita la capacità di rispondere alla sfide economiche interne ed internazionali''. Ma forse, anche loro dicevano così, tanto per dire.
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di Rosa Ana De Santis
Il taglio degli ultimi tre anni alla cooperazione in Italia è stato, numeri della Farnesina alla mano, del 78%. Un’enormità cui dovrà seguire una contrazione di altri 100 milioni di euro nel prossimo triennio. I tagli, che il governo sostiene siano motivati dalla crisi, si sarebbero potuti evitare risparmiando su altre voci di spesa. Tanto per portare qualche esempio: la rinuncia a costruire 1 solo dei 131 caccia bombardieri F-135, la metà delle spese del voto referendario e amministrativo non accorpato e soli sei mesi di operazioni militari in Libia.
La continua sottrazione di ossigeno all’impegno civile e politico per la cooperazione internazionale risponde ad un preciso orientamento politico del governo che, come nella politica interna, ha polverizzato il welfare e ha colpito le classi più basse, all’esterno non risponde certo a principi di globalizzazione equa e solidale, tutt’altro, preferendo, a differenza di altri paesi europei, non risparmiare sulle spese militari, ma sugli aiuti umanitari. E’ la politica a spiegare questi numeri: le strategie della Difesa, in coda il Ministero degli Esteri, e l’allineamento agli Stati Uniti.
La denuncia di Actionaid è durissima e traccia soprattutto la pesante differenza di numeri e di investimenti nel settore che l’Europa per prima ci rimprovera. L’Unione Europea, nel 2010, ha infatti mancato dello 0,56% l’obiettivo degli investimenti da destinare agli aiuti per i paesi in via di sviluppo e il peso specifico dell’Italia, in questo fallimento, è molto forte. Per questa ragione il Commissario europeo allo sviluppo ha fissato un obiettivo minimo per l'Italia, una “soglia di credibilità'' che dovrà essere pari allo 0,28% del Pil, ovvero 2 miliardi in più l’anno entro il 2015.
L’Italia non ha solo una situazione attuale di inadempienze e uno scenario difficile per il futuro, ma ha anche una serie di morosità passate. Scadenze non onorate per pagamenti di aiuti umanitari (Convenzione di Londra per aiuti alimentari), il Fondo per la lotta all’Aids, la tubercolosi e la malaria. E’ tutto questo che, oltre a mettere sul paese un’ipoteca morale, lo isola nel contesto europeo favorendo un pericoloso scetticismo e soprattutto un’ abitudine a pensare la nostra politica estera in un ruolo marginale, progressivamente sottratto da altri.
La difesa e la strategia militare, le aziende e il business di tanti colossi. E’ proprio la crisi del Nord Africa un teatro interessante da studiare a questo proposito. L’Italia è presente nelle azioni guidate dall’egida statunitense o attraverso la presenza operativa dell’Eni o dell’Unicredit.
Non c’è traccia di una politica estera che non sia quella delle armi o del petrolio. Proprio la Germania, invece, dimostra come supportando aiuti bilaterali si possano riscuotere anche vantaggi sul piano commerciale, rafforzando le relazioni con numerosi paesi partner.
I sondaggi dell’inchiesta Actionaid dicono che soltanto il 3% degli italiani propone la riduzione degli aiuti allo sviluppo: e forse non a caso, visto che il peso dell’aiuto pubblico allo Sviluppo (Aps) (oggi ulteriormente tagliato) ha un’incidenza bassissima sul Pil. Ma ci ha sempre visti, anche in questo, fanalino di coda dell’Europa.
Se con una mano si tolgono aiuti ai paesi in via di sviluppo e con l’altra si respingono gli esodi della fame e della morte, è evidente che l’Italia non possiede un disegno, né una strategia politica nell’approccio al problema del Sud del Mondo. C’è poco altro se non i vertici di carta nei palazzi della solidarietà, presenziati dal Ministro delle cerimonie, il lavoro nero per chi sopravvive ai rimpatri in mare e ai centri di detenzione, e l’elemosina concessa a qualche ong e a tanta energia di solo e puro volontariato.
Ma la politica degli aiuti è il motore della politica estera, delle relazioni, della diplomazia. Tutta quell’arte che lavora all’impedimento della guerra. Che appare invece l’unica modalità con cui l’Italia sembra saper guardare fuori dal recinto di casa.
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di Rosa Ana De Santis
E’ stato il cardinale Bagnasco ad intervenire (non avrebbe potuto non farlo), in occasione della celebrazione del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia organizzato all’ambasciata italiana presso la Santa Sede, sulla licenziosità dei comportamenti del governo. Nell’imbarazzo dei presenti e con il sottosegretario Letta, inviato appositamente per accorciare le distanze tra Chiesa e Stato, la CEI ha sferrato il suo colpo più duro alla corruzione morale del governo.
Non è solo il premier il protagonista di questo anatema, ma la licenziosità complessiva delle Istituzioni che mai, come in questo tempo storico, ha raggiunto un livello di guardia così alto, sotto gli occhi di un paese attonito e di tutta l’Europa. Il cardinale ha invitato anche a non dimenticare il mondo del volontariato cattolico che sta soccombendo sotto i colpi della manovra.
La Lega per prima ha replicato, nella consueta eleganza che la contraddistingue, ricordando alla Chiesa i propri peccati e gli ultimi terribili scandali sulla pedofilia, per troppo tempo occultati. Ed è in questa sorta di gara a chi può vantare maggiore immoralità che forse si può misurare tutta la decadenza morale e culturale che vive il Paese e la cronaca politica degli ultimi tempi. Pare piuttosto evidente al comune buon senso che il reato e il peccato dell’uno non rappresenta certo lo sconto a quello dell’altro.
Proprio la dottrina cristiana con il principio sacrosanto della coscienza individuale e dell’arbitrio di ognuno lo ha spiegato bene. Così com’è inutile insistere sull’orrore delle vittime dei sacerdoti, ormai così noto che il Papa in persona vi è stato coinvolto. Ma alla Lega sfugge che la Chiesa e lo Stato del Vaticano rappresentano uno stato teocratico. La responsabilità dei colpevoli degli abusi sarà espiata soprattutto davanti al re che è nei cieli che è il loro vero sovrano. Alla terra e alle vittime rimarrà poco altro, purtroppo, che una sentenza di qualche tribunale religioso e una preghiera. Questo perché un pedofilo in abito religioso sembra non essere un pedofilo come un altro e fanno il possibile perché sia così.
Negli stati democratici funziona diversamente. Si risponde al popolo, proprio a ogni cittadino. I diritti sono tutti terreni e i reati si scontano tutti qui. Non importa l’anima, ma l’azione e le sue conseguenze. Se l’immoralità della Chiesa sembra ancor più odiosa perché commessa da chi diffonde il messaggio di Gesù, tutto amore e fratellanza è, nei fatti, qualcosa che appartiene ai fedeli, prima che ai cittadini, ovvero a coloro che accettano le condizioni gerarchiche e assolutistiche della Chiesa nel momento in cui si dicono cattolici di fede romana. La Chiesa risponde ai suoi fedeli, lo Stato ai cittadini. Per questo se è certamente vero che la condanna della Chiesa ha perso la credibilità che avrebbe potuto avere, questo è vero non di più che in passato, quando non sono comunque mai mancati corruzione e abusi nello Stato di Dio.
E’ di questo piuttosto che la Chiesa deve ricordarsi quando entra nella vita delle persone, quando calpesta le ultime volontà di chi soffre, quando impedisce a un fedele divorziato di avvicinarsi all’Eucaristia o quando a due conviventi non riconosce l’identità di una famiglia. Il torto più vero la Chiesa lo fa a queste persone. Non se dice a un uomo che è un puttaniere visto che lo è. Non se dice alla Lega che il razzismo e la xenofobia sono tracce di antiumanità. Perché razzisti e xenofobi lo sono.
In tutto ciò è semmai il PD l’unico interlocutore che dovrebbe tacere. Applaudire a Bagnasco pur di avere un voto in più, (e che voto!) contro il Governo, è davvero troppo. O forse troppo poco per pensare che vincere così sarà davvero vincere.