di Fabrizio Casari

Volendo ricapitolare le notti dei lunghi coltelli in casa Pdl si potrebbero prendere in esame le mosse di Formigoni e Scajola da un lato, sostenuti da Pisanu e (pur con un ruolo diverso, Fini) e Alfano e Cicchitto dall’altro: i primi a chiedere "un passo indietro" al premier, i secondi a riaffermare che il premier non si tocca. Terzo incomodo Verdini, che recita il ruolo di chi prende il tavolo per le gambe in attesa di decidere se stabilizzarlo o farlo volare, a seconda di quali saranno le portate apparecchiate. Vanno in onda così le prove generali del regicidio. Ovviamente, tutti smentiscono e nessuno conferma, ma pare che una possibile mediazione sarebbe quella di riconoscere a Scajola e Pisanu un ruolo importante nel Pdl, cosicché Alfano dovrà trattare e cedere quote di sovranità che però non sono nelle sue mani. Ma é fuffa o quasi.

Apparentemente lo scontro é sulla gestione del partito, con Verdini e Scajola che, non a caso, incrociano le lame. Partito leggero o pesante? Sono due definizioni che avrebbero avuto senso diverso tempo fa. Ora, infatti, a dare per morto il partito è stato il suo fondatore e proprietario, mentre a dare per scaduto il suo stesso tempo sembrano essere i suoi "infedeli". O almeno tali sarebbero, a dar retta agli adulatori del boss, giornali di famiglia in testa, che li definisce sobriamente un drappello d’ingrati che tramano alle spalle del re cui tutto o quasi devono.

Diverso scenario, invece, a leggere quanto filtra delle interviste dei "frondisti" alla stampa avversaria: sarebbe in corso un tentativo di rilancio del centrodestra che certo, in assenza di garanzie sulla non ripresentazione del caudillo, lo vedrebbe divenire l’oggetto principale della contesa. Piuttosto chiare le dichiarazioni di Saro, vicino a Pisanu: "Si prepara una raccolta di firme su un documento che dovrà essere preso nella giusta considerazione. Se, invece, prevarranno coloro che minimizzano e rassicurano, si andrà avanti al buio e l'incidente sarà dietro l'angolo". Tradotto: abbiamo all'incirca 35 parlamentari e il governo si regge su otto o nove.. I gattoni sono diventati gattopardi.

La fronda é un segnale d'insofferenza? Più che altro sembra un'adunata. Berlusconi, infatti, resisteva ogni oltre decenza fino a quando alternava dichiarazioni di stampo opposto circa la sua ricandidatura, ma la sua dichiarata intenzione di cambiare nome al partito e quindi di ripresentarsi ha inevitabilmente accellerato le dinamiche interne. Perché è proprio su Berlusconi e la sua eredità politica che le nuove correnti del retrobottega democristiano si riorganizzano. E dunque via alle cene, agli incontri segreti annunciati sui giornali, alle conte più o meno affidabili e ai messaggi trasversali, criptati o in chiaro dipende solo dal grado di democristianicità del messaggero di turno. La fine del tocco magico di un premier divenuto ormai un re Mida alla rovescia è insieme il fondo e lo sfondo della contesa.

La trasformazione della soluzione di ieri nel problema di oggi, nasce non solo dalla crisi politica che investe il governo, quanto dalla necessità urgente di evitare il crollo del fronte conservatore: che i filistei debbano per forza seguire Sansone, insomma, é tutto da stabilire. Porre un argine alla caduta di credibilità dei conservatori par essere la recita che anima il proscenio. In questo senso, la chiamata alle armi di Bagnasco ha rappresentato lo start-up vero e proprio della ripresa d’iniziativa politica dei centristi cattolici ovunque e comunque collocati.

Non è la paura della crisi economica e sociale, della perdita d’identità e d’immagine internazionale dell’Italia che muove i congiurati, né lo sono il debito pubblico alle stelle e la disoccupazione oltre ogni record storico; e non è nemmeno il tentativo di riportare il nostro sgangherato paese nell’alveo dei paesi europei, pur con le sue ataviche, pessime particolarità. A muovere le truppe c’è la consapevolezza della crisi mortale di un sistema di potere durato un ventennio e la pericolosa incertezza circa il prossimo futuro politico del paese, che non potrà non essere disegnato nelle urne.

Non è quindi questione di mera eredità della leadership, se toccherà insomma a Formigoni o a Scajola, a Pisanu o a Fini; generali, colonnelli o sergenti che siano delle truppe ribelli, ritengono essenziale che il patrimonio elettorale della destra non vada perduto, bensì recuperato attraverso il ritorno ad un modello politico imperniato sul partito e sulla parrocchia, che rimetta in pista una classe dirigente reazionaria e cattolica in grado d’impedire che la nausea generalizzata per l’operato del governo Berlusconi-Bossi-Scilipoti diventi l’elemento decisivo per la prossima vittoria del centro-sinistra.

Insomma, magari a scorrere i giornali sembrerebbe di essere tornati ai fasti e ai riti della prima Repubblica, ma così non é; non c'é la grandezza, non c'é lo spessore, non c'é nemmeno la politica a poterli assimilare. La DC per cambiare governi almeno si degnava di convocare un congresso dove le correnti si posizionavano, se le davano di santa ragione e, chi vinceva, entrava a Palazzo Chigi, mentre chi perdeva si accontentava di limitare i danni con sottosegretariati ed enti. La sostanziale differenza con quanto accade oggi è che nella Prima Repubblica i democristiani si combattevano in nome e per conto d’interessi che, di volta in volta, riguardavano le priorità dell’agenda politica. Si cambiavano i governi, ma non c’era la fine di un regime alle porte.

Qui invece siamo al complotto di Palazzo, alla libera uscita (pur se dalla porta di servizio) da una crisi che è di regime, non di governo. Sono in gioco la fine di Berlusconi e l’eredità del berlusconismo. E non è un caso che il terremoto nel partito-azienda coinvolga anche il cosiddetto “Terzo polo”, il quale non ha come destinazione d’uso la sua unica rendita di posizione, come alcuni sono propensi a credere. Il ruolo di Casini e Fini, il loro possibile arruolamento nella nuova armata bianca (su cui gli schieramenti interni al PDL si contano e si scontrano) è molto più che un tatticismo e ben altro che la ricerca di sangue fresco da pompare nelle vene esauste del governicchio in carica. E' progetto politico a tutto tondo.

L’allargamento della destra al centro destra o l’arroccamento dell’asse PDL-Lega comporta due letture diverse tra loro sulle prospettive politiche della destra italiana. L'obiettivo dei gattopardi democristiani é quello di azzerare il duo Berlusconi-Bossi per poter rimescolare le carte, simmetricamente all'affossamento del mai nato bipolarismo e della resurrezione del ruolo dei partiti come portatori di progetti politici e sociali. D'altra parte anche la Lega non scoppia di salute e Bossi, che nel gestire la Lega dimostra d'ispirarsi a Kim-il-sung, dovrà affrontare le critiche crescenti da ogni dove del "popolo padano". Maroni é seduto sogghignante sulla sponda del Po, mentre per il senatur si profila all'orizzonte l'autunno del patriarca.

L’obiettivo finale dei dissidenti democristiani è la conservazione di un regime e lo sbarramento delle porte al ricambio dello stesso: in questo, le assonanze con la vecchia Dc ci sono. Ma la partita è tutta da giocare e gli esiti sono imprevedibili. Non sono più i tempi del mare aperto dove regnava sovrana la balena bianca. Ci si trova semmai in uno stagno, dove un caimano balla un ultimo disperato valzer in compagnia di una trota adulta.

di Carlo Musilli

Come Edimburgo sta alla Scozia, come Cardiff sta al Galles, così Varese sta alla Padania. Proprio qui, nel cuore pulsante del regno leghista, si è consumata la deposizione del sovrano in camicia verde. Non è stato un bardo celtico a raccontare questa storia, ma qualche centinaio di delegati locali. La morale è che tutto passa: anche il carisma, anche la leadership. Umberto Bossi non è più la guida del Carroccio.

La defenestrazione avviene nell'Ata Hotel varesino, dove c'è da eleggere il nuovo segretario provinciale della Lega. Sembra facile, soprattutto perché è rimasto in lizza un solo candidato: Maurilio Canton, uomo vicino alla famiglia Bossi e sponsorizzato dal capogruppo alla Camera, Marco Reguzzoni. Gli altri due candidati si sono lasciati convincere a dare forfait appena due giorni prima. Il ragionamento è semplice: a Varese non vogliamo problemi, la strada deve essere spianata. Ma avevano fatto male i conti.

Problema: Canton non è stato eletto, bensì nominato dall'alto. Investito direttamente da sua maestà Bossi, che per l'occasione è presente in sala. Il colpo di mano, però, fa andare su tutte le furie i dirigenti locali del partito, che danno vita a uno spettacolo inusitato in oltre 20 anni di storia leghista: la contestazione diretta del capo. E nell'Ata Hotel è il delirio. Qualcuno rumoreggia fischietto alla bocca, qualcun altro tira spintoni, i più strillano frasi come "vogliamo votare", "questo è un soviet", fino al grido di William Wallace: "Libertà!". Il giorno dopo compare perfino uno striscione beffa fuori dalla sede di via Magenta: "Canton segretario di chi? Di nessuno!!!".

Ora, le divisioni all'interno della Lega non sono certo una novità, eppure stavolta qualcosa è cambiato. Per spiegare i fatti di Varese non basta il vecchio schema che vede contrapposti il cerchio magico dei bossiani agli eretici maroniani, tanto più che il ministro degli Interni aveva esplicitamente chiesto ai suoi di non scaldarsi per una bega di provincia. La novità è che la contestazione al grande capo per la prima volta si è spostata dal Palazzo alla base territoriale, da sempre spina dorsale e ragion d'essere del Carroccio, suo principio ed energia vitale. Di verde vestiti, tessera alla mano, i delegati ormai urlano in faccia al Senatùr la loro insofferenza. A placarli non bastano più i velleitari richiami all'isteria collettiva della secessione.

Gli sciacquettii delle ampolle nel Po non commuovono più nessuno e crociate inutili come quella per i ministeri al nord non sono sufficienti a ricompattare le fila. Il fondatore della Lega fa quasi tenerezza quando, alla fine di una giornata da incubo, sostiene di aver visto fra le prime di contestatori dei fascisti, gente dell'Msi che ha "organizzato tutto". Tanto valeva prendersela con gli ectoplasmatici bolscevichi che - stando al Presidente del Consiglio - tramano nell'ombra contro il Paese.

La realtà è che i leghisti veri, quelli sparsi nella pianura nebbiosa, non riconoscono più l'autorità del loro antico condottiero. Ormai è troppo vecchio, scarsamente capace di verbalizzare e soprattutto eccessivamente appiattito sulle posizioni berlusconiane. Nella pur fondata convinzione che senza il Cavaliere le camicie verdi non vedrebbero più nemmeno col binocolo i banchi della maggioranza, Bossi si è scordato di lavorare per quei privilegi che tanto stanno a cuore alla sua gente. O forse semplicemente non ha potuto, impegnato ora a salvare dal carcere deputati e ministri del Pdl, ora a votare manovre economiche che stroncano sul nascere ogni possibile velleità di federalismo, opera eternamente incompiuta dell'epopea leghista.

Nemmeno l'impuntatura di quest'estate sulle pensioni d'anzianità ha convinto nessuno. E' vero, quelle non sono state toccate, ma tutto il resto sì. E ormai sembra troppo tardi per tornare indietro. Da qualche settimana il Senatùr sta cercando di prendere le distanze dal premier, almeno formalmente. In questa direzione vanno l'altrimenti inspiegabile sostegno al candidato tremontiano per la guida di Bankitalia, Vittorio Grilli, e la più recente opposizione all'ennesimo condono. Berlusconi per adesso lascia fare, occupato da problemi interni ben più preoccupanti. Sa che, al momento del bisogno, i voti padani non mancheranno. 

 

di Mariavittoria Orsolato

Centomila, forse di più. Gli studenti italiani sono tornati a manifestare in quello che si preannuncia essere un autunno caldo. Ieri la protesta ha attraversato più di 90 città italiane e, come da tre anni a questa parte, i bersagli sono i tagli indiscriminati al comparto dell’istruzione e una politica economica che definire penalizzante è riduttivo.

Era il 2008 quando l’Onda - il movimento di studenti e precari under 30 - cominciò a indire cortei per gridare a pieni polmoni che “noi la crisi non la paghiamo”. Oggi, a tre anni di distanza e sempre più pericolosamente vicini al default finanziario, i giovani italiani sono meglio organizzati e agguerriti, e rivendicano il sacrosanto diritto di imporsi nella gestione della cosa pubblica.

Sono tornati in piazza perché i loro titoli di studio sono carta straccia, perché gli stage gratuiti che le loro scuole o università rimediano li mortificano, perché sono stanchi di farsi sbattere la porta in faccia con la scusa che “sai in questo momento c’è una brutta crisi…”. Non c’è lavoro, non ci sono soldi, non c’è futuro: questo è quanto l’Italia può offrire ai suoi figli, naturale che questi gli si rivoltino contro.

L’ultima volta è stato il 14 dicembre scorso, con una Roma a ferro e fuoco, disarmata dall’ennesimo colpo di coda dell’esecutivo Berlusconi e dalla rabbia dei ragazzi. Ieri non è successo niente di tutto ciò, a parte qualche manganellata nella capitale e una tentata irruzione nella sede milanese dell’agenzia di rating Moody’s, le manifestazioni degli studenti si sono svolte senza incidenti. Prendendo spunto dai movimenti globali di protesta che hanno attraversato il Nord Africa e le Americhe, l’Inghilterra, la Spagna e la Grecia, le pratiche dei manifestanti si sono affinate, a partire dal Book Block, libroni in polistirolo che rimandano ai grandi romanzi di formazione e sbeffeggiano chi pretende di indicare il movimento come violento.

Gli studenti sfilano in corteo e per rifiutare la mobilità e la flessibilità che l’economia gli impone, si fermano nelle arterie principali bloccando il traffico, sperando nella comprensione di chi, come loro, si sente intrappolato senza una via di fuga plausibile. Danno la sveglia a Montecitorio o si accampano con tende e chitarre nella piazza principale, come succede a Bologna, seguono i loro coetanei nel mondo e disobbediscono in modo civile.

Rispetto a tre anni fa, sanno maneggiare meglio i social network e con questi comunicano in modo virale le loro iniziative - ieri gli hashtag #studenti e #7ott erano i primi due nella toplist di Twitter -, si coordinano, discutono, consapevoli che la rete è uno dei pochissimi spazi di manovra loro rimasti.

Dire che a questi ragazzi “farebbe bene un giorno di scuola in più e uno sciopero in meno”, significa non avere assolutamente il polso della nazione. Le rivendicazioni di quelli che oggi sono studenti e domani saranno precari vanno ben oltre il diritto allo studio e abbracciano le istanze della protesta globale contro la politica e la finanza, battezzata “degli indignados” grazie al successo delle occupazioni spagnole. Indebitata dalla nascita e destinata ad un futuro privo di appigli o qualsivoglia certezze, la generazione zero (euro) è conscia che questa crisi significa erosione dei diritti sociali e costituisce un attacco frontale alle aspirazioni di vita.

Sulla scia della rivoluzione popolare islandese reclamano il diritto all’insolvenza e rifiutano la socializzazione delle perdite imposta dalle finanziarie dei governi, a loro volta ispirati dalle direttive di BCE, FMI e dalla schizofrenia dei mercati. Privi dei vessilli di partito che avevano caratterizzato le lotte dei loro padri o nonni, provano a confrontarsi con la vita adulta nel modo che è più congeniale alla loro età. S’infiammano, credono veramente di poter fare qualcosa di concreto per il loro futuro, adesso, nell’immediato: sono di certo la meglio gioventù e agli adulti che affrontano l’evidente depauperamento con frustrazione o cinismo, questo impeto dovrebbe servire da esempio.

Oggi a Roma sfileranno i lavoratori del pubblico impiego e della conoscenza, gli studenti cammineranno al loro fianco, così come il 12 ottobre emuleranno i coetanei americani nel tentativo di occupare la Banca d’Italia. In attesa del 15 ottobre, data designata per la “global revolution”, una giornata di mobilitazione internazionale per imporre una democrazia reale e tentare la via della decisionalità orizzontale; per scuotere, in definitiva, le coscienze sull’urgenza di far fronte con strumenti diversi al baratro su cui oscilliamo.

di Carlo Musilli

"Mi fanno ridere. Arriva un altro, ma poi cosa fa? Ma va'...". Dopo giorni di silenzio, Silvio Berlusconi torna a parlare, ostentando sicurezza di fronte alla sola idea di un governo diverso dal suo. Eppure, arrivati a questo punto, non passa giorno senza che qualcuno evochi la fine del Cavaliere. E non dalle file dell'opposizione, che pure ripete ossessivamente il mantra delle "dimisisoni" o del "passo indietro", ma dagli stessi banchi della maggioranza.

Dopo l'allusione di Giulio Tremonti, che ha sottolineato i positivi effetti economici portati alla Spagna dalla convocazione di elezioni anticipate (suscitando la furia del premier, stando al pittoresco resoconto di Giuliano Ferrara), oggi a parlar chiaro ci ha pensato Umberto Bossi. Se qualche giorno fa il Senatùr aveva detto di "vedere lontana" la scadenza naturale della legislatura, che arriverebbe solo nel 2013, stavolta ha scelto di essere ancora più esplicito. "Mi sembra obiettivamente complicato" arrivare in fondo, ha ammesso il leader del Carroccio, specificando poi di aver "sempre detto che è meglio votare prima", perché "è difficile spennare la gente e poi farsi votare, meglio andare al voto prima".

Mentre era impegnato a schivare colpi di questo genere da parte del fuoco amico (ripetendo, come sempre, che l'Esecutivo reggerà "fino al 2013"), oggi Berlusconi è riuscito anche a prodursi in una delle sue esternazioni più tipiche. Su due binari: da una parte il messaggio politico, dall'altra il diversivo mediatico. Ovviamente si è parlato di più del secondo, l'immancabile battutaccia da bar con cui il Cavaliere ha suggerito la possibilità di ribattezzare il suo partito "Forza Gnocca". La solita robetta pruriginosa che non meriterebbe alcun commento. Eppure l'hanno commentata tutti. Ci sono cascati tutti. L'opposizione ha tirato su una bagarre di commenti, dichiarazioni e comunicati stampa per deplorare con censorio sdegno cotanta irrispettosa volgarità.

Intanto il premier aveva detto una cosa molto più interessante. E cioè che invierà al Consiglio superiore di Bankitalia l'indicazione decisiva sul nome del nuovo governatore entro il primo novembre. Non una grande sorpresa, visto che quello è l'ultimo giorno utile prima che l'attuale numero uno di via Nazionale, Mario Draghi, si trasferisca a Francoforte per guidare la Bce. Eppure ha un significato. Berlusconi ha preso tempo, come a dire che in questo momento le priorità sono altre. In sostanza, sembra che il Cavaliere voglia tornare sull'argomento soltanto dopo aver chiuso la partita del decreto sviluppo, che arriverà in Aula fra 13 e 14 ottobre.

E' quello il provvedimento più atteso dall'Europa, dai mercati e soprattutto dal mondo imprenditoriale italiano. Se il premier riuscisse, grazie alle nuove misure, a riscuotere apprezzamenti internazionali, ma soprattutto a siglare una tregua con Confindustria, placando le ire di un'Emma Marcegaglia mai così agguerrita, allora si potrebbe presentare con tutt'altro spirito alla sfida finale sul nome del nuovo governatore. E con tutt'altre carte da giocare. A quel punto potrebbe forse nominare un uomo diverso da Vittorio Grilli, il candidato tremontiano, evitando anche le dimissioni del ministro dell'Economia. Certo, anche lui dovrebbe rinunciare all'investitura che vorrebbe, quella di Fabrizio Saccomanni, per virare definitivamente su un terzo nome (nelle ultime ore il più verosimile sembra essere quello di Domenico Siniscalco). Un prezzo che vale la pena di pagare pur di evitare lo strappo e mantenere in piedi la leadership. Almeno per ora.

di Carlo Musilli

Non chiamatela gaffe, è stata una frecciata. Tutto si può dire di Giulio Tremonti, meno che sia un uomo del tutto sprovveduto, almeno politicamente. Al termine dell'Ecofin, il summit che riunisce i ministri economici dei paesi Ue, il numero uno di via XX Settembre ha dovuto rispondere a una domanda precisa: per quale ragione, secondo lei, i titoli di Stato spagnoli sono considerati dai mercati meno rischiosi di quelli italiani? Risposta: "Dipende anche dall'annuncio di nuove elezioni, che di per sé rappresenta una prospettiva di cambiamento per la Spagna e quindi un'apertura al futuro". Putiferio in sala stampa. Finalmente un temerario chiede lumi: "Non sarà quindi il caso di seguire la stessa strada anche in Italia?". Tremonti sorride: "Ho detto così, per dire".

Di lì a poco anche il portavoce del ministro si affanna a chiarire, con l'immancabile citazione dotta: "Cuius regio eius religio! Quando parla con la stampa all'estero il ministro Tremonti evita temi italiani. Il riferimento agli spread spagnoli era ed è di conseguenza esclusivamente relativo alla Spagna, non all'Italia". Peccato che, nel resto della conferenza, il superministro di "temi italiani" abbia parlato eccome: dai conti pubblici rabberciati alla crescita che non c'è, dalle pensioni all'occupazione.

Insomma, ascoltando quell'ultima frase il collegamento era scontato. Tremonti sapeva benissimo quale reazione avrebbe provocato. In sala stampa, ma soprattutto a Palazzo Chigi, dove il messaggio è arrivato chiaro e tondo. Nessuno pensa che il superministro avrà il coraggio di arrivare autonomamente allo strappo. Sta cercando una scusa, un pretesto minimamente valido per abbandonare la casa in fiamme. L'uscita di ieri, probabilmente, serviva solo a far sentire la propria voce minacciosa, a tenere alta la temperatura. Il vero campo di battaglia, comunque, resta la nomina del governatore di Bankitalia.

Anche perché la frase incriminata di ieri, a pensarci bene, è un'ovvietà assoluta. Non ci sono dubbi: la Spagna ha beneficiato del passo indietro di Zapatero, che da tempo ha convocato elezioni anticipate senza ripresentare la propria candidatura. Una vera banalità, ma il punto è che non doveva uscire dalla bocca di un rappresentante del Governo Berlusconi. Da settimane il Cavaliere continua a ripetere il ritornello-barzelletta sulla maggioranza forte e solida che ha salvato il Paese da una fine ingloriosa stile Grecia.

Purtroppo, all'infuori di Arcore, nessuno sembra d'accordo col premier su questo punto. Nelle motivazioni del downgrade con cui due settimane fa ha colpito il nostro Paese, l'agenzia di rating Standard & Poor's parlava della "fragilità del governo, che limita la capacità di rispondere alla sfide economiche interne ed internazionali''. Ma forse, anche loro dicevano così, tanto per dire.


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