di Carlo Musilli

Come Edimburgo sta alla Scozia, come Cardiff sta al Galles, così Varese sta alla Padania. Proprio qui, nel cuore pulsante del regno leghista, si è consumata la deposizione del sovrano in camicia verde. Non è stato un bardo celtico a raccontare questa storia, ma qualche centinaio di delegati locali. La morale è che tutto passa: anche il carisma, anche la leadership. Umberto Bossi non è più la guida del Carroccio.

La defenestrazione avviene nell'Ata Hotel varesino, dove c'è da eleggere il nuovo segretario provinciale della Lega. Sembra facile, soprattutto perché è rimasto in lizza un solo candidato: Maurilio Canton, uomo vicino alla famiglia Bossi e sponsorizzato dal capogruppo alla Camera, Marco Reguzzoni. Gli altri due candidati si sono lasciati convincere a dare forfait appena due giorni prima. Il ragionamento è semplice: a Varese non vogliamo problemi, la strada deve essere spianata. Ma avevano fatto male i conti.

Problema: Canton non è stato eletto, bensì nominato dall'alto. Investito direttamente da sua maestà Bossi, che per l'occasione è presente in sala. Il colpo di mano, però, fa andare su tutte le furie i dirigenti locali del partito, che danno vita a uno spettacolo inusitato in oltre 20 anni di storia leghista: la contestazione diretta del capo. E nell'Ata Hotel è il delirio. Qualcuno rumoreggia fischietto alla bocca, qualcun altro tira spintoni, i più strillano frasi come "vogliamo votare", "questo è un soviet", fino al grido di William Wallace: "Libertà!". Il giorno dopo compare perfino uno striscione beffa fuori dalla sede di via Magenta: "Canton segretario di chi? Di nessuno!!!".

Ora, le divisioni all'interno della Lega non sono certo una novità, eppure stavolta qualcosa è cambiato. Per spiegare i fatti di Varese non basta il vecchio schema che vede contrapposti il cerchio magico dei bossiani agli eretici maroniani, tanto più che il ministro degli Interni aveva esplicitamente chiesto ai suoi di non scaldarsi per una bega di provincia. La novità è che la contestazione al grande capo per la prima volta si è spostata dal Palazzo alla base territoriale, da sempre spina dorsale e ragion d'essere del Carroccio, suo principio ed energia vitale. Di verde vestiti, tessera alla mano, i delegati ormai urlano in faccia al Senatùr la loro insofferenza. A placarli non bastano più i velleitari richiami all'isteria collettiva della secessione.

Gli sciacquettii delle ampolle nel Po non commuovono più nessuno e crociate inutili come quella per i ministeri al nord non sono sufficienti a ricompattare le fila. Il fondatore della Lega fa quasi tenerezza quando, alla fine di una giornata da incubo, sostiene di aver visto fra le prime di contestatori dei fascisti, gente dell'Msi che ha "organizzato tutto". Tanto valeva prendersela con gli ectoplasmatici bolscevichi che - stando al Presidente del Consiglio - tramano nell'ombra contro il Paese.

La realtà è che i leghisti veri, quelli sparsi nella pianura nebbiosa, non riconoscono più l'autorità del loro antico condottiero. Ormai è troppo vecchio, scarsamente capace di verbalizzare e soprattutto eccessivamente appiattito sulle posizioni berlusconiane. Nella pur fondata convinzione che senza il Cavaliere le camicie verdi non vedrebbero più nemmeno col binocolo i banchi della maggioranza, Bossi si è scordato di lavorare per quei privilegi che tanto stanno a cuore alla sua gente. O forse semplicemente non ha potuto, impegnato ora a salvare dal carcere deputati e ministri del Pdl, ora a votare manovre economiche che stroncano sul nascere ogni possibile velleità di federalismo, opera eternamente incompiuta dell'epopea leghista.

Nemmeno l'impuntatura di quest'estate sulle pensioni d'anzianità ha convinto nessuno. E' vero, quelle non sono state toccate, ma tutto il resto sì. E ormai sembra troppo tardi per tornare indietro. Da qualche settimana il Senatùr sta cercando di prendere le distanze dal premier, almeno formalmente. In questa direzione vanno l'altrimenti inspiegabile sostegno al candidato tremontiano per la guida di Bankitalia, Vittorio Grilli, e la più recente opposizione all'ennesimo condono. Berlusconi per adesso lascia fare, occupato da problemi interni ben più preoccupanti. Sa che, al momento del bisogno, i voti padani non mancheranno. 

 

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