di Mariavittoria Orsolato

Una giornata densa. Come il fumo acre dei lacrimogeni, come il fumo nero delle autovetture in fiamme. Roma brucia di nuovo in questo 15 ottobre, data di mobilitazione globale contro le politiche economiche messe in atto da governi e finanza; e assieme alla capitale se ne vanno in fumo anche le buone intenzioni con cui questa scadenza era stata programmata. Le immagini violente proposte dalla tv, gentilmente offerte da forze dell’ordine e da una comunque piccola parte dei 200.000 accorsi da tutta Italia, sono sicuramente eloquenti e denudano il fianco di quello che - il condizionale a questo punto è d’obbligo - avrebbe dovuto essere il debutto del primo movimento italiano interamente anticapitalista.

Mettere a ferro e fuoco il centro di Roma significa inevitabilmente attirarsi le ire dei benpensanti e le critiche di quanti, pur sfilando al tuo fianco, non condividono il nichilismo di certe azioni. Ma c’è anche da dire che la gestione della piazza da parte delle autorità preposte è stata totalmente inadeguata e spesso spropositata nelle reazioni: se la violenza è di per se condannabile allora anche la polizia non deve essere esente da critiche per quanto riguarda la giornata di ieri.

Ma andiamo per ordine. Il corteo parte da piazza Esedra puntuale alle 14, al suo interno tutte le realtà militanti della compagine sociale: ci sono i no-tav, i precari, gli autonomi, i cobas, i collettivi studenteschi. Tutti lì per criticare e respingere la degenerazione di questo capitalismo agonizzante, tutti lì per rispondere con la protesta alla spada di Damocle della precarietà, sia lavorativa che esistenziale, che investe larghissimi comparti della società odierna. Dopo nemmeno 500 metri, il primo degli atti di quelli che per comodo vengono chiamati da alcuni “black bloc”, da altri infiltrati, da altri ancora anarchici ma che alla vista sono solo persone vestite di nero che evidentemente non hanno nulla da perdere: l’Elite Market, un alimentari in via Nazionale, viene preso d’assalto. Alle vetrine sfondate si aggiunge poco dopo una macchina incendiata, svariate banche vandalizzate, cassonetti divelti, un dipartimento del Ministero della Difesa dato alle fiamme e quant’altro purtroppo ricordi la Genova del 2001.

Ad agire sono in pochi e buona parte del lunghissimo serpentone li censura apertamente. Oltrepassato il Colosseo, all’incrocio tra via Merulana e via Labicana il corteo viene spezzato dall’arrivo delle forze dell’ordine: sono quasi le quattro del pomeriggio e, tolti gli elicotteri che ronzano dal mattino,  questa è la loro prima apparizione. Le cariche sono violente, i lacrimogeni volano ad altezza d’uomo e i caroselli delle autoblindo fanno scappare i manifestanti come formiche impazzite. Scene già viste che però non producono effetti diversi. Poco dopo in piazza San Giovanni è guerriglia: volano sanpietrini, un ragazzo viene investito da un blindato dei carabinieri in retromarcia, l’aria è resa irrespirabile da lacrimogeni e fumogeni. Alle 19, dopo gli idranti contro i Cobas e un mezzo dei CC dato alle fiamme, i manifestanti vengono dispersi del tutto ma gli scontri proseguono a macchia lungo il percorso a ritroso.

La giornata di ieri, questo 15 ottobre che per un motivo o per l’altro rimarrà nella storia, è stata portata avanti in altre 962 città del mondo ma solo in Italia la manifestazione è stata così tanto partecipata e così tanto aggressiva. Ed è questo, aldilà delle facili condanne, il punto su cui vale la pena riflettere. Quanti credevano che la manifestazione sarebbe andata diversamente peccano d’ingenuità o hanno la memoria corta: dopo quello che è accaduto lo scorso 14 dicembre, sempre a Roma, l’esito della giornata di oggi era praticamente scontato.

Come ha affermato uno dei membri di Wu Ming, analizzando lucidamente gli scontri di ieri, “non ci sarà mai più una manifestazione nazionale di movimento che non includa quel che abbiamo visto oggi”: nel momento in cui convogliano nello stesso luogo migliaia di giovani e precari delusi, sfiduciati e furibondi è inevitabile che la distruttività prenda il sopravvento. Sono (siamo) quasi due generazioni alle quali un futuro viene esplicitamente negato, prive di qualsivoglia rappresentanza politica o sindacale, schifati dalle istituzioni; in questo contesto la manifestazione collerica, il lancio esasperato di oggetti e l’uso di armi improprie non sono altro che espressioni evidenti di un malessere e di una rabbia sociale ormai impossibili da sedare. In moltissimi sono disposti allo scontro e negarlo non ha senso né è onesto.

Se questo allora è il polso della protesta italiana, invocare grandi scadenze a livello nazionale non può che essere controproducente; ed è proprio questo a determinare l’inevitabile fallimento di una scadenza importante come quella di ieri. Nel resto del mondo le proteste erano più o meno localizzate, le pratiche sono state diversificate e l’unico principio accomunante è stato quello dell’Occupy Everything, essere ovunque e ovunque portare scompiglio a proprio modo. Una protesta composita ma non per questo meno efficace o invasiva che ha il pregio di evitare concentramenti di polizia - a Roma erano in 2500 - e barricate, donando in più una visibilità “politacally correct”, facilmente condivisibile da larghi comparti dell’opinione pubblica con cui, piaccia o meno, è necessario confrontarsi.

Ieri tutto il mondo è andato in quella direzione nel mettere in pratica la prima manifestazione anticapitalistica globale: in Italia, purtroppo, questo afflato di resistenza è stato già assunto e archiviato sotto la voce “guerriglia urbana a Roma”.

 

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