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di Carlo Musilli
La stagione berlusconiana sta per finire. Sono partiti i titoli di coda, ma la pellicola non ha ancora smesso di girare. Ci tocca rimanere seduti al buio per un'altra ventina di giorni. Nel frattempo, non dobbiamo commettere l'errore di supporre che i problemi dell'Italia siano finiti, né tantomeno che stiano per finire. Ma la storia è storia. Il verdetto della Camera sul Rendiconto - passato solo grazie all'astensione delle opposizioni - ha dimostrato che la maggioranza non esiste più: appena 308 voti favorevoli, 8 in meno rispetto all'ultimo voto di fiducia.
Al termine di un lungo colloquio al Quirinale, il Presidente del Consiglio ha annunciato che le sue dimissioni arriveranno subito dopo l'approvazione del Ddl stabilità, che dovrebbe contenere i provvedimenti urgenti chiesti dall'Europa.
Il vero nodo della questione sono i tempi. La nuova legge deve ancora fare due passaggi parlamentari: se non ci sarà l'accelerazione chiesta dalle opposizioni, il Senato dovrebbe dare l'ok il 18 novembre, la Camera a fine mese. Solo dopo il Cavaliere si farà da parte e il Capo dello Stato darà il via alle consultazioni ufficiali (quelle ufficiose sono già partite) per verificare se in Parlamento esista una maggioranza alternativa. Questo significa che - prima ancora di interrogarci su chi verrà dopo Silvio - faremmo bene prendere atto delle tre settimane che ci attendono, potenzialmente atroci, in primo luogo sul fronte finanziario.
I mercati comprano sulle voci e vendono sulle notizie, quindi non è affatto ovvio che le dimissioni differite dal Premier portino serenità e benevolenza nei confronti del nostro Paese. Anzi, è addirittura probabile che proprio nel momento di suprema instabilità politica si concentri la speculazione finanziaria più famelica. Siamo come una carcassa che puzza di sangue sotto un cielo fitto di avvoltoi.
Prova ne sia il fatto che, negli stessi momenti in cui il Cavaliere recitava gli ultimi atti della sua tragicommedia, lo spread italiano è schizzato alle stelle, oltre quota 500, facendo segnare l'ennesimo record storico. Quanto ai rendimenti sui nostri titoli di Stato, hanno toccato il 6,8%, a un passo da quel 7% che la stragrande maggioranza degli analisti considera la soglia di non ritorno (quella, per intenderci, oltre la quale Irlanda, Portogallo e Grecia hanno dovuto richiedere aiuti comunitari).
Sul versante politico, in questi giorni di governo posticcio Berlusconi ha in mano una sorta di delega per varare il Ddl stabilità nel più breve tempo possibile. Il rischio è che faccia un ultimo scherzetto agli italiani tentando ancora una volta di infilarci norme che nulla hanno a che vedere con la crescita del Paese. In questo periodo, inoltre, potrebbe cercare di convincere il Colle dell'impossibilità di formare un nuovo governo, magari giocando all'ennesimo mercatino sottobanco di onorevoli.
A questo punto, infatti, le speranze di atterraggio morbido su nuovo esecutivo retto da Angelino Alfano o da Gianni Letta - e quindi sempre a maggioranza Pdl - sono ridotte a un lumicino: il Pd ha già annunciato il suo rifiuto. Ben più probabile è che il Capo dello Stato opti per un governo di larghe intese - per cui sembra esserci spazio fra Terzo Polo e Pd - sotto la guida di "tecnici" come Mario Monti o Giuliano Amato. Rispetto a una prospettiva del genere, dal punto di vista di Arcore, anche le elezioni più difficili della storia italiana sarebbero preferibili. Poco importa che una campagna elettorale in questo momento rischi di dissanguare il Paese.
Ci sono infine da considerare degli aspetti para-antropologici. Quello che è accaduto nelle ultime 48 ore ci ha fornito un campionario concentrato dei vizi pubblici che hanno guidato l'azione del nostro Premier dal 1994 ad oggi: la capacità di mentire e la tendenza a considerarsi investito di una qualche virtù superumana. Partiamo dal drammatico voto a Montecitorio.
"Noi siamo ancora la maggioranza in Parlamento. Abbiamo verificato in queste ore, i numeri sono certi", diceva il Cavaliere appena domenica scorsa. Era in evidente malafede, ma si riteneva in grado di rimediare alla situazione con la solita compravendita di parlamentari. Per nemesi storica, a sbugiardarlo stavolta è arrivato dopo poche ore il tradimento che non ti aspetti, quello della deputata-soubrette Gabriella Carlucci, passata all'Udc. Un'allegoria in silicone e mascara del duplice potere berlusconiano, mediatico e politico.
Eppure, nemmeno dopo un affronto del genere il Premier ha capito che era arrivato il momento di mollare. Come il generale cocciuto che sacrifica la sua armata pur di non ritirarsi, Berlusconi ha consegnato il suo governo all'umiliazione dell'Aula. Ieri mattina, in extremis, ci ha provato perfino Umberto Bossi a suggerirgli di cedere il posto al delfino-Angelino. Un voltafaccia clamoroso, dopo che per settimane il Carroccio al gran completo aveva ripetuto il mantra "Berlusconi o elezioni". Ormai però era troppo tardi e viene da pensare che il senatùr abbia semplicemente cercato di smarcarsi per lasciare Berlusconi solo con la sua vergogna. Ammesso che stavolta ne abbia provata.
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di Carlo Musilli
Una delle regole auree del poker è fingere di avere in mano le carte migliori, anche se non si ha nemmeno una coppia. E' esattamente quello che in queste ore sta facendo Silvio Berlusconi. La settimana che si apre potrebbe segnare definitivamente la fine del suo impero, ma il Cavaliere non esce dal piatto. Anzi, rilancia: "Nonostante le defezioni, che io continuo a ritenere possano rientrare - ha detto ieri il premier - noi siamo ancora la maggioranza in Parlamento. Abbiamo verificato in queste ore, i numeri sono certi".
Sorvoliamo sul fatto che riuscire a sfangarla nella conta parlamentare non equivale a essere in grado di governare un Paese. Se Berlusconi crede davvero alla favola della maggioranza granitica, è rimasto l'unico. I suoi uomini più fidati, Gianni Letta e Denis Verdini, lo hanno avvertito: al voto di martedì sul rendiconto dello Stato (già bocciato dalla Camera), il governo rischia di andare sotto ancora una volta. Sembra che i voti davvero "certi" siano 306, nella peggiore delle ipotesi 300 (la soglia per la maggioranza assoluta è a 316). A quel punto sarebbe inevitabile una mozione di sfiducia dalle opposizioni e i pidiellini doc si consegnerebbero al massacro.
I consiglieri del Premier hanno quindi suggerito di anticipare la debacle scegliendo la strada delle dimissioni, che consentirebbero al Cavaliere di continuare a detenere il potere, anche se per via indiretta. Ad un nuovo esecutivo a maggioranza Pdl, ma guidato da Letta o dal "tecnico" Mario Monti, ritengono, l'Udc non potrebbe rifiutare il proprio appoggio. Una soluzione che darebbe il tempo di riorganizzare le fila del partito e preparare la nuova candidatura di Angelino Alfano alle prossime elezioni. Se poi si arrivasse davvero al governo di "salvezza nazionale", i berluscones avrebbero un vantaggio non trascurabile: potrebbero scaricare sulle spalle di Monti la responsabilità delle misure draconiane che l'Europa ci impone.
L'ostacolo maggiore su questa strada è rappresentato dalla Lega. E' qui che si misura la distanza più profonda fra Pdl e Carroccio. Nonostante le dichiarazioni propagandistiche di questi giorni, il partito di governo tutto vuole meno che andare alle urne proprio ora. Sarebbe una disfatta annunciata. Il discorso opposto vale per le camicie verdi: più si aspetta, meno possibilità ci sono di riagguantare per i capelli una base mai così stanca e lontana.
Fin qui abbiamo delineato freddi ragionamenti politici che nulla hanno a che vedere con il vitalismo berlusconiano. Anche se forse gli converrebbe, il Cavaliere non ci pensa per niente a cedere il passo: "Non credo a esecutivi tecnici con un premier fantoccio - ha ribadito ieri - e nemmeno alle larghe intese. Siamo convinti che la volontà popolare non possa essere commissariata: spetta a chi ha la legittimità del voto l'onere di governare". Poi un chiarimento: "L'unica alternativa a questo governo sarebbero le elezioni anticipate", ma "noi non le vogliamo. E' nostra intenzione governare l'Italia assumendoci fino in fondo le nostre responsabilità. Non c'è nessuno in questo Parlamento in grado di mettere insieme una credibile maggioranza alternativa".
Peccato che non spetti al Presidente del Consiglio il compito di verificare l'esistenza di una "maggioranza alternativa" in Parlamento. Né tantomeno il capo del governo ha il potere di indire nuove elezioni. In caso di caduta dell'esecutivo (avere la legittimazione del voto popolare non significa affatto garantirsi la poltrona per tutta la legislatura), la nostra Costituzione attribuisce entrambe queste prerogative al Presidente della Repubblica.
Dato l'acuirsi della crisi economica e l'immagine miserevole dell'Italia all'estero, sembra davvero molto difficile che il Capo dello Stato possa scegliere la strada del voto anticipato. Farebbe di tutto per cercare una nuova maggioranza "d'emergenza" nelle due Camere e, con ogni probabilità, alla fine troverebbe una soluzione. A questo fanno pensare le recenti aperture di Casini al Pd, per non parlare dei pidiellini che hanno già abiurato e dei malpancisti in sordina che ancora serpeggiano nelle fila della maggioranza. Non è quindi affatto scontato che al governo Berlusconi debba seguire necessariamente un esecutivo di "tecnici" come unica alternativa alle urne.
Sabato, nel corso della manifestazione romana del Pd a piazza San Giovanni, il segretario Pier Luigi Bersani ha lanciato un appello per l'alleanza di progressisti e moderati: "Un patto di governo per una legislatura di ricostruzione, per sostenere la riscossa del paese, per sconfiggere il rischio che viene dalla peggiore destra d'Europa". Il leader dei democratici ha poi chiarito che intende "dare l'occasione in Parlamento di dire, a chi lo pensa, che così non si può continuare. Non so se accadrà martedì ". Quanto alla possibilità di una mozione di sfiducia, "tutta l'opposizione ci sta ragionando: se si risolve prima non ce ne sarà bisogno".
Le parole di Bersani sono state raccolte da Pier Ferdinando Casini: "Senza il Pd non si ricostruisce l'Italia - ha avvertito ieri il leader dell'Udc intervenendo alla convention del Terzo Polo -. La sinistra ha detto di essere disponibile. E allora pensare a un governo che emargini una parte del mondo politico più direttamente rappresentativo del mondo operaio e sindacale significherebbe essere irresponsabili".
La presenza più significativa sul palco della convention è stata però quella del senatore Pdl Beppe Pisanu. Pur senza ufficializzare il suo abbandono del partito di governo, Pisanu ha chiesto "a Berlusconi di contribuire con il suo peso politico a contribuire a un governo di unità e salvezza nazionale. Continuo a confidare nella sua intelligenza e nella coerenza politica di quei tanti colleghi del Pdl che non si rassegnano al peggio e mettono avanti a tutto l'interesse dell'Italia. Noi non siamo traditori, semmai traditi".
Contro la prospettiva di un Esecutivo così allargato si sono già alzate in coro le voci sdegnate degli attuali governanti, che ad ogni occasione ritirano fuori la retorica del "golpe". Ne sono un chiaro esempio le parole pronunciate ieri dal segretario Alfano: "In questi giorni ci dicono che occorre un governo tecnico, un governo di responsabilità, un governo di chicchessia a condizione non sia Berlusconi. Sono tutti sinonimi di ribaltone, ma si vergognano a dirlo. Il concetto di fondo è mandare all'opposizione chi ha vinto le elezioni e mandare al governo chi ha perso. Questo significa capovolgere la democrazia".
Stare al governo per interesse personale, massacrando senza alcun pudore il proprio Paese, significa capovolgere la democrazia. Che una legislatura possa chiudersi con una maggioranza diversa da quella uscita dalle urne, invece, è previsto dalla Costituzione italiana. Ma questo lo sanno tutti. O quasi.
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di Carlo Musilli
E alla fine arriva l'Europa. Al termine di un G20 vago e inconcludente come solo i vertici internazionali sanno essere, la notizia più interessante che portiamo a casa è il commissariamento del nostro Paese da parte del Fondo monetario internazionale e della Commissione europea. Ma anche per arrivare a questa meta la strada non è stata priva di ostacoli. Anzi. Ieri mattina a Cannes è andato in scena un vero e proprio giallo sulla sorte che sarebbe toccata all'Italia.
Fin dalle prime ore iniziano a circolare indiscrezioni stampa e bisbigli a mezza bocca da parte di vari e oscuri funzionari europei. La cosa davvero strana - alla luce di com’è andata a finire - è che fino al primo pomeriggio diverse fonti italiane si ostinano a negare la possibilità che il governo di Roma possa essere messo sotto controllo da Bruxelles e Washington.
Gettano la spugna solo quando, dal palco ufficiale, prende la parola Josè Manuel Barroso: "La prossima settimana - spiega il presidente della Commissione europea - sarò a Roma con i rappresentanti del Fondo Monetario per una missione che ha lo scopo di monitorare l'andamento delle misure in Italia". Ma non è finita. La vera bomba arriva quando il portoghese specifica che "'l'Italia ha deciso di sua iniziativa di chiedere a Ue e Fmi di monitorare i suoi impegni di riforme fiscali ed economiche". Ah sì? Lo abbiamo deciso noi? E allora perché ce lo sta annunciando un portoghese?
Tanto per farci capire che aria tira, subito dopo Barroso prende la parola Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo: "Non si tratta di un diktat - ribadisce con forza - non abbiamo messo l'Italia all'angolo. La situazione è totalmente diversa dalla Grecia". E ancora sottolinea che l'invito è arrivato direttamente dal nostro Esecutivo, in modo del tutto volontario. Poi, finalmente, un'illuminazione: "Tutto questo è estremamente importante per la credibilità delle misure annunciate". Già, perché è questo il nostro vero problema. Se fossimo lasciati a noi stessi, nessuno - mercati in primis - si fiderebbe di noi.
La vera bastonata arriva però a fine pomeriggio, quando Christine Lagarde (non una parlamentare del Pd o dell'Udc, ma nientedimeno che il presidente dell'Fmi) decide di parlar chiaro: "Il problema sul tavolo, chiaramente identificato tanto dalle autorità italiane che dai loro partner - sentenzia candidamente l'economista francese - è la mancanza di credibilità delle misure che sono state annunciate".
Se questo concetto non risultasse ancora abbastanza chiaro, è sufficiente dare un'occhiata alle dichiarazioni dispensate nel frattempo da Silvio Berlusconi. Una conferenza stampa praticamente sotto dettatura, ma come al solito il Cavaliere non rinuncia a metterci un pizzico del suo spirito. Iniziamo dalle frasi di rito: "In questi giorni sono stato lungamente al telefono con il Presidente della Repubblica - rivela il premier - e abbiamo concordato con il Quirinale la nostra richiesta di certificazione al Fmi". Addirittura l'istituzione di Washington ci avrebbe "offerto dei fondi", ma noi, eroicamente, "abbiamo rifiutato". In serata, poi, verrà seccamente smentito anche su questo.
Dopo di che inizia lo show. Di fronte alla crisi finanziaria che stritola come una tenaglia i conti italiani, il Presidente del consiglio liquida "l'avventarsi" degli investitori "sui titoli del nostro debito" come "una moda passeggera". Rispolvera perfino un vecchio classico, quello del "cambio Lira-Euro che è stato fatto dal governo di allora a un livello che da sempre abbiamo ritenuto incongruo e penalizzante". Si tratta di un vero cavallo di battaglia degli anni passati, che però, ormai da qualche tempo, non ricorreva più nella dialettica berlusconiana. Qualcuno doveva avergli spiegato che un cambio più forte di quello stabilito (1936,27 lire per un euro) avrebbe massacrato le nostre esportazioni. Ma ecco che questa chicca riemerge proprio oggi, a Cannes, nel 2011. Quasi che per un attimo Berlusconi abbia cercato di sentirsi di nuovo quello del 2001.
Purtroppo però non è finita. A sentire il premier, la stessa crisi in sé sarebbe una mezza invenzione: "L'Italia non la sente nel modo spasmodico che appare nella rappresentazione che ne fanno i giornali". Poi, confondendo vita privata e Paese reale: "La vita in Italia è la vita di un Paese benestante. I consumi non sono diminuiti, i ristoranti sono pieni, per gli aerei si riesce a fatica a prenotare un posto". Frasi che riecheggerebbero soavi nei patii di Arcore, ma che in un summit internazionale hanno tutto un altro effetto. Frasi che spiegano meglio di un trattato le ragioni del commissariamento.
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di Mariavittoria Orsolato
Dopo quanto successo lo scorso 15 ottobre, il sindaco di Roma Alemanno ha impedito i cortei e le manifestazioni per le strade della capitale. Una decisione che purtroppo in pochi hanno indicato come incostituzionale e che solo gli studenti medi hanno finora avuto il coraggio di sfidare. Tra ieri e oggi, infatti, la rete studentesca ha programmato una serie di iniziative per portare avanti la protesta contro i tagli alla scuola pubblica, le misure di austerity e tutti quei motivi che genericamente potrebbero essere sottesi al cosiddetto movimento degli indignados, rifiuto della rappresentanza istituzionale in primis.
Utilizzando in modo assolutamente strumentale il clamore mediatico creatosi a seguito della rivolta in piazza San Giovanni, dal Campidoglio Alemanno ha voluto blindare la capitale, creando la sua personalissima zona rossa, adducendo pretesti per limitare e reprimere gli spazi di manovra delle piazze. Lo si è potuto vedere già dalla mattina quando, secondo quanto denunciato dagli studenti, si è verificata una vera e propria schedatura fuori dagli istituti considerati “caldi”: i ragazzi che non entravano sono stati identificati anche grazie a prèsidi compiacenti che hanno messo a disposizione i registri di classe.
Anche per questo gli studenti hanno deciso di continuare la protesta e scendere ugualmente in corteo verso piazzale Tiburtino, dove era previsto il concentramento. A centinaia si sono ritrovati davanti la stazione, orgogliosi di emulare i coetanei che in tutto il mondo si tanno mobilitando contro gli effetti della crisi economica e perciò consci di rappresentare quel 99% di popolazione schiacciato dall’1% che da Cannes e dagli istituti finanziari sovranazionali impone autorità, divieti, silenzio e un’effimera pace sociale.
Alla stazione Tiburtina la determinazione degli studenti medi di procedere in corteo si è scontrata con la fermezza delle forze dell’ordine, preposte a bloccare ogni tentativo di infrazione ai dettami di Alemanno. I ragazzi romani hanno provato a mediare con la celere per muoversi pacificamente in corteo verso la Sapienza, ma sono stati respinti dalla prima scarica di manganellate. Impossibilitati a procedere i manifestanti hanno deciso di occupare il cantiere della nuova stazione e li, sotto il ponte della tangenziale, sono stati bloccati da una decina di blindati e di fatto sequestrati per oltre due ore dalle forze dell’ordine.
Non fosse bastata questa momentanea sospensione dei diritti civili – tenere letteralmente in ostaggio dei manifestanti, la maggior parte dei quali oltretutto minorenni, è a tutti gli effetti un reato – la polizia ha acconsentito a liberare gli studenti e le studentesse solo a patto che passassero in fila indiana, a favore di telecamera e di identificazione, attraverso un cordone di agenti in tenuta antisommossa.
Scene che inevitabilmente rimandano al Cile di Pinochet e dovrebbero far riflettere sui modelli di gestione della piazza che si stanno attuando in questo particolare momento storico. Manifestare è infatti un diritto sancito dalla nostra Costituzione e i ragazzi romani oggi ci hanno ricordato che se per espletarlo devi chiedere il permesso allora questo si impoverisce, perde di significato, diventa una gentile concessione, un diritto octroyée.
Quanto successo ieri alla stazione Tiburtina da la misura di come, in questo frangente di mobilitazione di massa e di consapevolezza politica, la risposta dell’apparato statale sia sistematicamente repressiva e intimidatoria. Non tanto gli universitari - già più cinici, disillusi e anagraficamente svantaggiati - quanto questi adolescenti rappresentano la prima generazione in grado di recepire e interiorizzare i nuovi fermenti democratici e di decisionalità orizzontale. Questi giovani possono seriamente rappresentare lo start-up per la rivoluzione culturale che tutti avocano disperatamente come panacea per i mali del mondo capitalista, possono dare il via a un movimento che metta in discussione e ribalti l’ordinamento e le consuetudini sociali.
Ieri, a mani alzate e a volto scoperto - con buona pace dei giornalisti in astinenza da black bloc - giocando a ruba bandiera, stetti in un cordone di polizia e portando a mo’ di scudo i classici della letteratura, gli studenti medi romani hanno dato una bella lezione di democrazia. Oggi i loro colleghi di tutta Italia scenderanno nuovamente in piazza per ribadire le stesse ragioni e proporre provocatoriamente di tagliare le spese militari in favore di quelle per l’istruzione.
Il movimento studentesco (e popolare di conseguenza) non è certo un problema di ordine pubblico come Alemanno e le istituzioni vogliono farci credere, provare a delegittimarlo attraverso l’utilizzo di un apparato repressivo e securitario non può voler dire altro se non mandare definitivamente al macello questo Paese.
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di Carlo Musilli
Sbattuti come il mostro in prima pagina. "L'Italia rovina l'atmosfera dopo l'accordo Ue": sabato scorso il più importante quotidiano finanziario del mondo sceglieva questo come titolo d'apertura. Non parliamo della Pravda sovietica, covo di redattori votati al collettivismo, né del tanto vituperato Economist, che da sempre ha il mirino puntato contro le storture dell'Italia. L'ultima bacchettata sulle manine del nostro Paese arriva nientedimeno che dal Financial Times, la Bibbia di trader e banchieri.
Stavolta non si tratta del solito giudizio politico (più o meno) soggettivo che ogni giorno compare sulle colonne dei maggiori quotidiani europei. Quella del giornale britannico è la secca constatazione di una realtà che ormai solo il nostro governo finge di non vedere. Aldilà delle valutazioni possibili sulla lettera che Silvio Berlusconi ha inviato mercoledì a Bruxelles (definita a seconda delle campane "testo credibile" o "libro dei sogni"), alla fine quello che conta per l'Italia, almeno dal punto di vista comunitario, è il giudizio dei mercati.
La verità è questa: dopo aver letto gli impegni assunti da Roma per il risanamento dei conti e il rilancio della crescita, gli investitori hanno fatto schizzare i tassi d'interesse sui Btp decennali oltre il 6%, il massimo mai registrato dall'introduzione dell'euro. Eppure la Banca centrale europea non smette di acquistare a piene mani i bond italiani, nel tentativo ormai vano di mettere un freno ai rendimenti. Questo significa che il nostro pantagruelico debito pubblico (oltre 1.900 miliardi di euro) continua a diventare ogni giorno meno sostenibile. Altro che rilancio.
"I costi del finanziamento dell'Italia sono cresciuti a livelli record nell'era dell'euro - si legge sul quotidiano di Londra - appena all'indomani dell'accordo tra i leader europei sul piano per arrestare l'avanzata della crisi debitoria". L'ultima asta dei nostri titoli di Stato è quindi "un segno preoccupante del fallimento nel tentativo di riguadagnare la fiducia dei mercati". Cosa ancora più grave se consideriamo che l'anno prossimo dovremo rinnovare titoli in scadenza per quasi 300 miliardi di euro.
Intanto però, di fronte all'inerzia italiana, sembra che le maggiori autorità internazionali stiano mettendo a punto un piano B. Stando a quanto riferito dall'agenzia Ansa, che cita una non meglio precisata "fonte internazionale", fra Fmi, Unione europea e banche centrali "sono in corso contatti informali per approntare un piano di contingenza", nel caso Italia e Spagna vengano definitivamente contagiate dalla crisi greca. Si parla così di una "rete di sicurezza" per i due Paesi.
Ciò non toglie che "su Berlusconi continui la forte pressione di Ue e Bce - chiosa Ft - affinché il governo dia rapida attuazione alle misure per risollevare l'economia in fase di stagnazione ed eviti di seguire Grecia, Portogallo e Irlanda". In caso di fallimento, sarebbe necessario "un salvataggio su ampia scala che andrebbe ben oltre le capacità di fuoco dell'Eurozona". Peccato che, in risposta a queste pressioni, il Cavaliere non abbia trovato di meglio che scaricare il barile sull'euro, "una moneta che non ha convinto nessuno, attaccabile dai mercati internazionali, perché non è di un solo Paese ma di tanti, che però non hanno un governo unitario né una banca di riferimento e delle garanzie".
Un tentativo in extremis di rimescolare le carte, confondendo i piani e riportando tutto al generico caos internazionale che nulla avrebbe a che vedere con l'operato dell'Esecutivo italiano. E' senz'altro vero che negli ultimi mesi la speculazione internazionale ha avuto come obiettivo la moneta unica, considerando le forti perdite subite da listini ben più potenti di Piazza Affari, primo su tutti il Dax di Francoforte. D'altra parte è innegabile che, pur nella loro frenesia speculativa, se gli investitori internazionali hanno scelto i nostri titoli di Stato come vittima privilegiata un motivo c'è.
E non ha a che vedere solamente con il debito che il premier ha "ereditato dal passato" (non in queste proporzioni). Ne sanno qualcosa i nostri cugini spagnoli, che hanno proposto misure di rilancio concrete e indetto elezioni anticipate, prendendo atto del fallimento del governo Zapatero. Pur partendo da basi più deboli delle nostre, il Paese iberico è riuscito a diventare molto più credibile di noi, al punto che ormai da diverse settimane lo spread di Madrid si mantiene ben al di sotto di quello italiano, invertendo una gerarchia acquisita da anni.
La partita si gioca quindi sul piano della credibilità, la virtù di cui maggiormente sentiamo la mancanza. Lo testimonia la scelta dell'Europa di includere i punti della lettera italiana nelle conclusioni dell'ultimo vertice Ue, in modo da vincolare il nostro Paese al rispetto degli impegni presi. Come se non bastasse, Bruxelles ha anche incaricato la Commissione europea di monitorare l'attuazione delle riforme italiane. Un'attenzione particolare finora concessa solo ai Paesi che hanno ricevuto aiuti comunitari (Grecia, Portogallo e Irlanda). Insomma, pur ammettendo che l'euro non abbia "convinto nessuno", il governo italiano non ha davvero fatto di meglio.