di Carlo Musilli

Il mirino del governo ha cambiato obiettivo: dopo le pensioni, il nuovo bersaglio sembra essere l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, quello che vieta i licenziamenti senza giusta causa. Ora che la manovra economica è passata alla Camera - con annessa rivoluzione della previdenza - l'approvazione definitiva al Senato entro Natale è una pura formalità. Per questo l'esecutivo può concentrarsi su quella che è stata definita come "fase due", al centro della quale dovrebbe essere appunto la riforma del lavoro.

L'allarme è scattato dopo l'intervista a Elsa Fornero pubblicata ieri dal Corriere della Sera. In riferimento all'articolo 18, il ministro del Welfare sottolinea che non si tratta di un "totem", quindi invita "i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste e aperte". E sarebbe davvero la prima volta per questo governo, vista la totale mancanza di contrattazione che ha preceduto la manovra, scritta e approvata in tempi record.

Ma il passaggio più significativo dell'intervista è questo: "Penso che un ciclo di vita che funzioni - dice Fornero - sia quello che permette ai giovani di entrare nel mercato del lavoro con un contratto vero, non precario. Ma un contratto che riconosca che sei all'inizio della vita lavorativa e quindi hai bisogno di formazione, e dove parti con una retribuzione bassa che poi salirà in relazione alla produttività. Insomma, io vedrei bene un contratto unico, che includa le persone oggi escluse e che però forse non tuteli più al 100% il solito segmento iperprotetto". Il tutto con un corollario fondamentale: "Certo che la contrattazione è materia delle parti. Noi vogliamo però spingerle non a ridurre i salari, ma a riflettere sulla possibilità di avvicinarli il più possibile alla produttività".

In sostanza, questo potrebbe voler dire l'estensione della precarietà anche ai lavoratori a fine carriera. Per disinnescare il trucchetto del prepensionamento, usato dalle aziende per liberarsi dei dipendenti anziani - più costosi e meno produttivi dei giovani - si pensa di mettere a punto anche per chi è ormai in là con gli anni dei contratti "flessibili" e a stipendio ridotto rispetto agli anni di gloria della carriera. La modifica non interesserebbe i contratti già in essere, ma quelli a venire. Almeno in questo campo i diritti acquisiti dovrebbero così essere rispettati.

Spostando lo sguardo sui più giovani e facendo due più due, sembra proprio che il fantasma di Pietro Ichino stia rientrando dalla finestra. D'altra parte, non è mai stato un mistero che questo governo puntasse a seguire i binari tracciati dal giuslavorista e senatore (eterodosso) del Pd.  In sostanza, il modello Ichino prevede che le assunzioni a tempo indeterminato arrivino dopo un periodo di prova di sei mesi, durante il quale non varrebbero le tutele dell'articolo 18. E anche dopo aver firmato il contratto più solido, l'impresa potrebbe comunque allontanare i dipendenti per motivi di crisi economica. Basterebbe pagare loro un'indennità proporzionale alla durata del rapporto di lavoro.

Ora, il vero nodo della questione è quello degli ammortizzatori sociali. E' necessario rafforzarli per tutelare chi il lavoro l'ha già perso, sta per perderlo o non l’ha mai trovato. Il Pd chiede che si parta da questa riforma prima di ipotizzare modifiche al'articolo 18.

Ma il welfare è un costo e con questi chiari di luna trovare altri soldi pubblici da spendere sembra una chimera. Difficile anche che il governo scelga di seguire fino in fondo la ricetta Ichino, che prevede per i lavoratori licenziati la tutela di un'assicurazione a carico delle imprese. Alzare adesso il cuneo fiscale vorrebbe dire con ogni probabilità dare il colpo di grazia alle aziende italiane, se è vero che l'anno prossimo il Pil del nostro Paese farà registrare un terrificante -1,6%, come ha annunciato la settimana scorsa il Centro studi di Confindustria.

Il rischio è quindi che la riforma del lavoro porti con sé maggiore precarietà senza alcuna nuova garanzia per i lavoratori. Una prospettiva che fa rabbrividire i dirigenti del Pd, già messi in guardia dalla reazione battagliera dei sindacati. Si spiega così l'atteggiamento prudente di Stefano Fassina: "È da apprezzare l'atteggiamento riflessivo del ministro Fornero - ha detto il responsabile economico dei democratici - dopo un adeguato approfondimento, la Professoressa concluderà come noi che l'articolo 18 non c'entra nulla con la precarietà dei giovani e con la crescita dell'economia".

Se invece non dovesse capirlo, il Pd potrebbe implodere proprio sulla questione che tanti mal di pancia ha causato all'interno del partito. Con il Pdl che si smarca ogni giorno di più dalle iniziative del governo Monti, per i democratici è arrivato il momento di prendere una posizione netta. Dopo aver perso una buona fetta di credibilità agli occhi del proprio elettorato con la pigra accettazione della manovra, devono fare in modo di non ricevere altre brutte sorprese.

 

di Mariavittoria Orsolato

Si vociferava già da tempo che fosse una ghiotta moneta di scambio e ora per il governo Monti i nodi sono giunti al pettine: stiamo parlando dell'assegnazione delle ultime frequenze televisive digitali, uno degli ultimi colpi di coda del governo Berlusconi. Una procedura tutta sbilanciata a favore del duopolio Rai-Set che, invece di adottare le normali gare d'asta, aveva preferito l'escamotage del beauty contest.

Che é un processo di assegnazione assolutamente gratuita che prevede una graduatoria tra i concorrenti in base a tutta una serie di requisiti tecnici e commerciali, come il numero di dipendenti o il possesso di infrastrutture e impianti di trasmissione. Un regalo da quasi due miliardi di euro che l'arbitro Berlusconi ha deciso di elargire a se stesso poco prima dell'allontanamento coatto dal palazzo, e in barba al disperato bisogno di liquidità delle casse statali.

Ora che con la supermanovra si è deciso il prelievo forzato su quelle che a tutti gli effetti sono le categorie più deboli - pensionati sempre più old, affittuari vittime dell'IMU, lavoratori dipendenti ipertassati - la Femi (Federazione dei media digitali indipendenti) ed Altroconsumo hanno ricordato al nuovo esecutivo che forse anche dalla cessione delle frequenze c'è mezzo di beccar su qualcosina.

E l’hanno fatto mandando una diffida formale al Ministro per lo Sviluppo Corrado Passera in cui chiedono che di disporre l’annullamento in autotutela, o la revoca del bando e del disciplinare di gara, provvedendo alla sua riscrittura secondo criteri che assicurino un’effettiva apertura concorrenziale dei mercati e, soprattutto, il buon andamento della pubblica amministrazione nell'interesse dei cittadini. Sono infatti questi ultimi i veri proprietari dei cinque multiplex - ovvero le ambite megafrequenze digitali che possono trasportare fino a sei diversi canali - dal momento che le frequenze su cui trasmettere sono e rimangono un bene dell'intera comunità.

La diffida - predisposta dagli avvocati Guido Scorza, Carmelo Giurdanella, Elio Guarnaccia, Dario Reccia e Francesca Bilardo - è stata notificata anche alla Commissione Europea, all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, all’Autorità Garante della concorrenza e del Mercato ed all’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici, invitandole ad esercitare i poteri di controllo e di vigilanza di propria competenza. Già dall'insediamento del nuovo governo, negli ambienti politici, s’indicava la questione frequenze come un possibile cavallo di Troia spendibile da Berlusconi per vendere al meglio la sua maggioranza in caso di fiducia, ma per una volta pare che il miracolo (forse) ci sia stato.

Nella seduta alla Camera di ieri Monti ha infatti dato parere favorevole agli ordini del giorno alla manovra presentati da Partito Democratico, Italia dei Valori e Lega Nord che chiedono di annullare il beauty contest indetto dal precedente esecutivo (e avallato dall'Agcom) per indire una gara d'asta realmente competitiva e soprattutto remunerativa. Probabilmente conscio del fatto che all'asta gemella per gli operatori delle telecomunicazioni Telecom Italia, Vodafone, Wind e H3G hanno messo sul piatto 4 miliardi di euro, il Ministro per i rapporti con il Parlamento Piero Giarda ha acconsentito e chiesto che gli ordini del giorno siano discussi insieme.

Pare quindi che le frequenze liberate dal passaggio al digitale verranno effettivamente pagate ma già da subito, probabilmente per stizza, Berlusconi si è detto "indifferente" rispetto ad un'eventuale asta, affermando con sicumera che "con il numero incredibile di frequenze oggi disponibili ci sarà pochissima gara per occuparle”. A smentirlo a stretto giro ci ha però pensato la nemesi Santoro che giovedì, nel corso di Servizio Pubblico, ha affermato di poter tranquillamente raccogliere un milione di euro, tramite sottoscrizioni of course, per presentare una sua offerta.

La provocazione del giornalista salernitano è stata subito accolta e rilanciata ieri da Sandro Parenzo, proprietario di Telelombardia - l’emittente capocordata delle televisioni locali che trasmettono sul digitale terrestre il talk di Santoro - che ha indicato alcune corporations americane e inglesi come interessate a partecipare alla gara in caso d'asta.

Che dopo il crollo di consenso dovuto alle misure contenute nella manovra, Monti dovesse elargire il contentino alle sedicenti opposizioni era cosa scontata: che poi lo facesse sul tallone d'Achille di Berlusconi è la conferma dell'inevitabile segno politico dei suoi provvedimenti. Applausi? Ma anche no.

 

di Vincenzo Maddaloni

I presupposti ci sarebbero tutti per ricavare un  profilo aggiornato dei 150 anni del Paese, da questo inedito rapporto tra  Mario Monti e il suo governo da una parte e l’ampia maggioranza del mondo cattolico - gerarchie comprese - dall’altra. Era dai tempi della prima Repubblica che non accadeva, sebbene il contesto sia oggi diverso, molto diverso, quasi inedito. Un tempo, quando il mondo - ricordate - era diviso in due blocchi, in Italia c’era un governo della Dc quale baluardo dei credenti contro gli “atei” comunisti. Nell’èra della globalizzazione invece, c’è il governo dei banchieri, imposto dal Fondo Monetario internazionale e dalla Banca centrale Europea. Con a capo Mario Monti, che è l'esponente della Commissione Trilaterale e del Bildelberg club http://it.wikipedia.org/wiki/Gruppo_Bilderberg, nonché consulente della banca americana di Goldmann-Sachs e di Coca Cola company.

E' insomma un uomo del grande capitale al quale non dispiacerebbe - per sua stessa ammissione - contribuire alla costituzione di un Nuovo ordine mondiale. Naturalmente, egli è uno dei fautori della globalizzazione la quale, costringendo i paesi a dipendere gli uni dagli altri, favorisce in modo determinante  l'affermazione delle imprese multinazionali con tutta una serie di conseguenze. La prima è un pesante aggravamento delle ineguaglianze economiche. Già Hegel diceva che le società ricche non sono abbastanza ricche da riassorbire il sovrappiù di miseria che generano. Nel mondo globalizzato, la povertà non è più frutto della scarsità, bensì della cattiva ripartizione delle ricchezze prodotte, nonché di un blocco psicologico e culturale che vieta di prendere in considerazione il passaggio a società che non si definiscano prioritariamente attorno al lavoro e alla produzione.

Fra il 1975 e il 1985, il prodotto lordo mondiale è aumentato del 40 per cento: dal 1950 il commercio mondiale è stato moltiplicato per undici, la crescita economica per cinque. Si tenga a mente che durante lo stesso periodo, non solo non si è verificato un innalzamento regolare del livello di vita media, ma si è viceversa assistito ad un aumento senza precedenti della povertà, della disoccupazione, della disintegrazione sociale e della distruzione dell’ambiente.  Cosicché Il PIL reale per abitante nei paesi del Sud ammonta oggi a solo il 17 per cento di quello del Nord. Si aggiunga anche che il mondo industriale, che non rappresenta più di un quarto dell’umanità, detiene l’85 per cento delle ricchezze della Terra. Infine, I paesi membri del G7 rappresentano l’11 per cento della popolazione mondiale, ma possiedono i due terzi del PIL del pianeta.

Insomma la globalizzazione crea modelli di società che sono l’esatto contrario di quello che la Chiesa non dovrebbe dimenticare quando cita Gesù: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio». (Lc6,20,23). E «Guai a voi, ricchi, che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete». Quindi povertà e ricchezza sono un problema di fede perché Gesù - secondo i resoconti dei Vangeli - non è vissuto nell’indigenza e tanto meno nella ricchezza, ma ha scelto per sé una condizione di povertà. E quindi ha proposto come un valore positivo appunto la povertà e non l’indigenza, ossia la condizione estrema in cui si muore di stenti.

Questi pochi cenni dei sacri testi mal si conciliano con le aperture di credito rivolte fin dal primo momento dalla Santa Sede al governo Monti. Infatti il professore, subito dopo l’incarico e prima di sciogliere la riserva, aveva ricevuto una telefonata personale di sostegno da parte del papa Benedetto XVI. Poi dal giorno della formazione dell’esecutivo, gli incoraggiamenti del segretario di Stato Tarcisio Bertone al nuovo inquilino di Palazzo Chigi sono stati ben tre e tutti di grande evidenza. Il cardinale, formulando gli auguri al governo, lo benediva con queste parole: «Una bella squadra alla quale auguro buon lavoro perché il lavoro è tanto e difficile, ma penso che sia attrezzata per affrontarlo». Poi ancora, quindici giorni fa, esprimeva l’auspicio che il premier possa «andare avanti». Infine, martedì della scorsa settimana, il cardinale Bertone  ritornava a parlare dell’esecutivo e della manovra “salva-Italia” sostenendo di apprezzarla perché «i sacrifici fanno parte della vita». E dunque, come mai non era accaduto prima, sulla scia del segretario di Stato si sono uniti al coro dei fans di Monti i catto-progressisti delle Acli, di Famiglia cristiana e dell’Azione cattolica, i conservatori di Comunione e Liberazione, gli ex democristiani e gli ex sessantottini di Sant'Egidio, tra l’altro premiati con un ministero ad Andrea Riccardi che è tra i laici cattolici più accreditati in Vaticano.

All’origine di una così larga mobilitazione c’è il timore di perdere in contatto con la società poiché in Italia, come altrove in Occidente, la cultura dei consumi ha fatto diffondere stili di vita che si riassumono nella “generazione del me”, nelle masse di coloro che “fanno gli affari propri” e dove “capita” e che tollerano sempre meno un’etica religiosa ancorata ai suoi punti fermi. Poiché il consumo, da qualche tempo ormai, non è più riferito all’acquisto di cose che dovrebbero soddisfare delle necessità, ma ha inaugurato nuove regole di stile di vita secondo le quali, «gli individui vanno incoraggiati a scegliere con attenzione, sistemare, adattare ed esibire i propri beni. Che essi siano mobili, case, automobili, indumenti, o il proprio corpo o le attività del tempo libero», come osservava (già quindici anni fa) il sociologo Mike Featherstone.

Infatti, benché la sfera pubblica non sia mai stata qualcosa di interamente sgombro dal religioso, organismi nati in contesti religiosi e supportati dal pubblico - come per esempio istruzione, salute, cura degli anziani - stanno perdendo col passare degli anni clienti e pazienti. Naturalmente l’ombra del campanile che si accorcia crea nella gerarchia ecclesiastica non poche preoccupazioni e quindi via a iniziative di lungo corso che al primo approccio non sembrano facili da decifrare.

Sulla possibilità, per esempio, che l’ICI venga estesa agli immobili vaticani destinati a fini commerciali (un miliardo la stima minima) inaspettata è stata la riposta del cardinale Bagnasco: «Se abusi si dovessero accertare», ha raccomandato il presidente della Cei, «siano essi perseguiti secondo giustizia, in linea con le norme vigenti». Il segretario di Stato Tarcisio Bertone ha usato toni ancor più tranquillizzanti ribadendo la propria disponibilità poiché l’ICI rappresenta «un problema particolare», da «studiare e approfondire». Infatti, secondo alcune rilevazioni, addirittura il venti per cento del patrimonio immobiliare italiano farebbe capo alla Chiesa. Il catasto comprenderebbe cento mila fabbricati, il cui valore si aggirerebbe attorno ai nove miliardi di euro. Le stime di settore parlano di circa cento e quindici mila immobili, quasi nove mila scuole e oltre quattro mila tra ospedali e centri sanitari. Soltanto a Roma ci sono ventitré mila tra terreni e fabbricati, venti case di riposo, diciotto istituti di ricovero e sei ospizi che le appartengono.

Naturalmente, la sostanziale disponibilità espressa dalle gerarchie vaticane a estendere il pagamento dell’ICI ad alcune attività tutt’ora esenti si può prestare a diverse interpretazioni. C’è più d’uno che la interpreta come la risposta al discorso del Papa di domenica 25 settembre, a Friburgo, quando Benedetto XVI, parlando alla Chiesa tedesca - ricca e strutturata - aveva ricordato come lungo la Storia «le secolarizzazioni - fossero esse l’espropriazione di beni o la cancellazione di privilegi - significarono ogni volta una profonda liberazione della Chiesa da forme di mondanità: essa si spoglia, per così dire, della sua ricchezza terrena e torna ad abbracciare pienamente la sua povertà terrena».

Per molti altri invece va interpretata come un segnale di riconoscenza degli alti prelati per aver ottenuto dentro il governo varato dal cattolicissimo Monti, alcuni uomini direttamente riconducibili ai vertici della Chiesa cattolica. Se si tiene a mente il sostegno smaccato concesso in questi anni dalle gerarchie vaticane e da gran parte dell’episcopato italiano al governo Berlusconi, ancora più sorprendente appare il risultato ottenuto da Bagnasco, il cardinale della perdonanza e delle cene segrete (rivelatasi poi non proprio segrete) con Berlusconi. Una vera e propria lottizzazione in termini di presenze di “area”, degna del manuale Cencelli, come sottolinea Valerio Gigante su La Repubblica. http://temi.repubblica.it/micromega-online/da-todi-a-roma-c’é-tanto-vaticano-nel-nuovo-governo/.

Malauguratamente l’eclatante successo che dovrebbe consolidare le fortune del cattolicesimo in Italia è offuscato da un malcontento che s’ingrossa. Esso è rappresentato dalle migliaia e migliaia di persone che si sono mobilitate per sottoscrivere l’appello - eliminare i privilegi sull’ICI di cui la Chiesa cattolica gode - lanciato da Micromega. E inoltre da un’ampia fascia di devoti che rimprovera alla gerarchia di avere eretto l’immagine di Gesù che benedisce i banchieri fautori dell’economia globale, come nuovo simbolo della Chiesa universale. Accade perché, «l'utopia dello Stato mondiale sembra unire le aspirazioni dei banchieri e delle multinazionali a quelle della gerarchia ecclesiastica», scrive un osservatore attento come Martino Mora. Che spiega: «Giovanni XXIII è stato il primo pontefice a profilare la necessità e l'auspicabilità di un unico governo mondiale nell'enciclica “Pacem in terris”(1963).

Vi affermava la necessità di “un'autorità politica con competenze universali”… “in cui il potere, la costituzione e i mezzi d'azione abbiano essi stessi dimensioni mondiali, e che possa esercitare la sua azione su tutta la terra”… E’ però nella “Caritas in veritate” (2009) di Benedetto XVI che l'idea dello Stato mondiale viene espressa con altrettanta chiarezza, ma con maggiore approfondimento che nell'enciclica giovannea del 1963.» http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=41231. Predica infatti Benedetto XVI: «Urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è già stata tratteggiata dal mio predecessore, il beato Giovanni XXIII... Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione internazionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione e che si dia finalmente attuazione a un ordine sociale conforme all'ordine morale e a quel raccordo tra sfera morale e sociale, tra politica e sfera economica e civile che è già prospettato nello Statuto delle nazioni Unite».

Parte da questa “urgenza” evocata dal Papa l'iniziativa promossa dalla Pontificia Università Gregoriana, lo storico ateneo dei Gesuiti, dove è stato progettato - nel Centro Fede e Cultura "Alberto Hurtado" - un nuovo seminario internazionale di "formazione alla democrazia",  aperto a laici e cattolici senza distinzioni partitiche, di gruppo o di bandiera. Tra i temi trattati, l'unità dell'Europa, l'economia ai tempi della globalizzazione dei mercati, il federalismo solidale, l'apporto del cattolicesimo sociale e politico, le proposte per una nuova governance globale.

Insomma, come ha spiegato il direttore del corso, monsignor Samuele Sangalli, «abbiamo raccolto una domanda presente di vera e seria formazione all'etica pubblica. Il nostro intendimento, infatti, è quello di dare una formazione rigorosa e di accogliere così l'invito del Papa espresso nella “Caritas in Veritate”, a «formare dei laici che un domani si sappiano prendere cura di quella che Paolo VI chiamava la più alta forma di carità», cioè la politica. Vale a dire che sono i gesuiti, che da sempre operano sul piano culturale ai massimi livelli accademici in tutto il mondo, che istruiranno «la nuova generazione di laici cattolici da far entrare nell'ambito pubblico con spirito di servizio».

Questo accade nel Paese. Se si pensa a qual era - cento cinquanta anni fa, agli albori dell’Italia unita, il rapporto tra papa Pio IX e il conte Camillo Benso di Cavour, di strada la Chiesa ne ha fatta. E parecchia.

di Fabrizio Casari

Non ci si sono molti margini, dice Monti nel salotto ruffiano della tv, per modificare la manovra. E’ forse l’unica verità che abbiamo sentito in questi giorni, dal momento che alterarla nella sostanza, fosse pure per alcuni capitoli, implicherebbe il venir meno della ratio politica della stessa. Che si fonda su una lettura della crisi e di come uscirne tutta a vantaggio dei poteri forti a favore dei quali il governo Monti lavora. Una manovra, quella orchestrata, che definire iniqua è un eufemismo, visto che toglie diritti e salvaguarda privilegi. Non fatta, come dice il professore, per salvare l’Italia, ma per ristrutturarla in favore delle nuove necessità di chi comanda.

Preliminarmente va detta una cosa: i facili entusiasmi che si sono scatenati per la riduzione dello spread, andrebbero attribuiti a tre aspetti, dei quali solo uno oggetto della manovra, cioè quello nella quale lo Stato s’impegna a garantire le esposizioni bancarie (prova ne sia che la giornata felice di borsa di martedì ha visto proprio i titoli bancari trainare la volata). Del resto, è chiaro che la protezione del sistema bancario è necessaria per impedire il crollo dei fidi e della liquidità su cui si reggono le economie di famiglie e imprese. Ma gli elementi decisivi per la ripresa borsistica sono stati la minaccia di S&P di declassare tutta l’eurozona, comprese Germania e Francia (e, quindi, con un implicito riconoscimento di un eccesso di differenziale nei confronti dei nostri titoli) e con le voci sempre più insistenti delle modifiche al trattato Ue in ordine alle prerogative della BCE che la Merkel si prepara ad accettare. Altro che la ragioneria di Monti.

La cui manovra, comunque, diversamente da altre ordinarie, si compone di due elementi forti: l’intervento immediato, destinato a fare cassa, e quello - molto più importante - di tipo strutturale, destinato cioè alla rimessa in carreggiata dei conti pubblici. Per la prima parte si è proceduto all’aumento vertiginoso di ogni tipo d’imposta, unitamente ai tagli su sanità e trasporti; aumenti enormi sui carburanti e dell’Iva che genereranno un’impennata dei prezzi di prodotti e servizi, cui si somma un’imposta sulla casa che non prevede esenzioni nemmeno per la casa di proprietà e nemmeno nel caso in cui, oltre ad essere l’unica casa, sia già indirettamente tassata dagli interessi passivi del mutuo in corso. La mancata indicizzazione delle pensioni è poi il colpo di grazia a milioni di anziani. Il risultato sarà un aumento generale dell’impoverimento del paese che condurrà dritti verso la depressione economica.

Proviamo a vedere, pur sommariamente e solo parzialmente, cosa si poteva fare e si è scelto di non fare per l’intervento immediato. Si poteva cominciare da una legge patrimoniale tarata sull’aliquota francese (10% di tassazione); proseguire con un’asta per le frequenze televisive (cifra minima stimata 3,5 miliardi) come già avvenuto per le frequenze in concessione ai gestori della telefonia; rivedere il contratto per la fornitura dei nuovi F35 per l’aviazione militare (15 miliardi solo nel 2012) per un aereo già considerato sorpassato dall’omologo russo Sukoy; prevedere l’estensione dell’ICI agli immobili vaticani destinati a fini commerciali (1 miliardo la stima minima); decidere il blocco delle spese per la Tav (8 miliardi per 80 km inutili); decretare la tassazione al 20% dei capitali scudati (8 miliardi); abolire il 50% delle auto blu (2,5 miliardi annui).

Se dunque si volevano rastrellare i 22 miliardi della manovra 2012-2013 non era difficile evitare di toccare diritti, almeno da un punto di vista contabile. E molto, ma davvero molto, si potrebbe ancora tagliare, a cominciare dagli sprechi, per razionalizzare e ridurre, ancorché ottimizzare, la spesa pubblica. Ma dal momento che il taglio della manovra è soprattutto politico e non contabile, si è voluto inviare un segnale chiaro ai mercati europei e d’oltre oceano nel segno dell’affidabilità, cioè dell’attrattività del sistema Italia per chi vuole allegramente continuare a speculare sui titoli e individuare terreni di caccia nella privatizzazione dei servizi pubblici.

Se si passa gli interventi strutturali, quelli cioè destinati a innescare un’inversione di tendenza a lungo termine del rapporto sbilanciato tra Pil e debito, l’essenza della manovra è stata quella di abolire le pensioni d’anzianità, portare l’età lavorativa delle donne al pari di quella degli uomini (ma le donne svolgono anche il lavoro di cura) e innalzare fino a settant’anni l’età pensionabile, in un contesto nel quale la disoccupazione generale è arrivata ai massimi storici e per i giovani al sud tocca punte del 50%. Insomma una politica che prevede, per il risanamento dei conti, la riduzione ai minimi termini del welfare piuttosto che l’allargamento dei diritti di cittadinanza. Non è solo contabilità pelosa: è il frutto di una lettura sistemica (e di classe) sull’organizzazione sociale ed economica di un paese e porta con sé una concezione della democrazia come governo delle elites (di cui i tecnocrati sono parte importante) e non del popolo. Ovvio quindi che i sindacati non siano ascoltati: se il popolo non conta, cosa vuoi che conti chi lo rappresenta?

Sempre in tema di manovra strutturale, nessun cenno alle politiche di sostegno alla crescita, mentre l’equità è destinata a fare la fine delle pensioni d’anzianità. Nemmeno una norma d’igiene politica, come quella di assegnare i fondi alle imprese solo con vincoli occupazionali. Eppure, pur senza proporre concezioni socialiste dell’economia, pur senza voler negare l’inserimento del paese in un sistema internazionale che non prevede uscite uniche e rapide, si poteva certamente proporre ben altro cammino. Spostare parzialmente il peso della fiscalità dal lavoro alle rendite e ai patrimoni sarebbe stata la linea giusta. Per il sistema pensionistico sarebbe necessario la  riforma che veda la separazione netta tra previdenza e assistenza: la seconda si dovrebbe pagare con il fondo nazionale per l’assistenza, in carico alla fiscalità generale, la prima con i contributi degli occupati. Una norma semplice, che solo in Italia è difficile concepire. Ma non sarebbe la sola possibile.

Senza volerci qui dilungare sulle medicine meno amare e, soprattutto, più efficaci, è solo il caso di evidenziare il bisogno di un’altra politica economica che però davvero non può offrirci un governo i cui molteplici conflitti d’interessi, amplificati dalla presenza diretta dei rappresentanti degli stessi, superano ogni precedente. Per fare alcuni esempi, del resto, sarebbe stato bizzarro che il generale De Paola, che svolse un ruolo importante per l’acquisto dei nuovi F35, oggi avesse proposto la sua rinegoziazione; che il banchiere Passera, che della capacità di dirigere i profitti sugli azionisti e le perdite sullo Stato è esperto, avesse proposto un decreto per separare i destini delle banche d’affari da quelle d’interesse pubblico; o che i probi e cattolicissimi professori avessero proposto la fine dei privilegi vaticani che così tanto costano a tutti i contribuenti.

Servirebbe quindi un altro governo per un’altra politica. Idee e gambe per invertire la rotta, per riportare alla realtà economica un paese che ha sì 1900 miliardi di debito ma che dispone di quasi 9000 miliardi di ricchezza tra i suoi cittadini. Chi l’ha detto che il destino obbligato è il default o la crisi perenne? In fondo, per bilanciare il rapporto tra entrate e uscite, ci sono solo due strade: o si aumentano le entrate, o si riducono le uscite. Nel primo caso si deve lavorare all’allargamento della platea contributiva, cioè a maggior numero di occupati e, quindi, al ricorso di politiche attive per il lavoro anche grazie alle incentivazioni fiscali per le imprese. In secondo luogo si deve andare, con la forza, a recuperare i 260 miliardi di euro di evasione fiscale e contributiva. Le maggiori entrate alla fiscalità generale darebbero migliore rapporto con i costi, garantirebbero meglio la tenuta del patto generazionale tra chi lavora e versa e chi percepisce la pensione dopo aver versato per una vita e il maggiore potere d’acquisto dei salari incrementerebbe la domanda interna, volano principale di ogni economia.

Perché tra le tante anomalie italiane, la più decisiva è proprio quella dell’evasione fiscale. Se sconfitta, o anche solo ridotta a quota fisiologica, il bilancio dello stato da passivo diventerebbe attivo e ci sarebbero le risorse sufficienti per finanziare un welfare riformato e aggiornato. Ebbene, la lotta acerrima contro l’evasione e l’elusione fiscale e contributiva, che sottrae alla fiscalità generale risorse pari a tre volte l’intero PIL, pare sia disdegnata da Monti, mentre addirittura scartata è la possibilità di un’imposta patrimoniale. Per la prima sarebbe necessaria una legislazione apposita, fatta di pochi articoli ma inequivocabili, che prevedessero il carcere duro e di lunga durata per il reato di evasione e la cancellazione dall’Albo e l’arresto per gli studi tributaristi che concorressero a dichiarare il falso.

Un’azione repressiva netta, che impiegasse risorse importanti per la caccia all’evasione, sarebbe il miglior investimento strutturale per l’Italia e la sua economia, oltre che la sua etica. Non c’è bisogno d’ispirarsi alla Rivoluzione d’Ottobre, basta copiare integralmente le norme statunitensi. Quanto alla patrimoniale, dice il professore che è difficile individuare i proprietari dei patrimoni e che, pur riuscendoci, non sarebbe il caso di perseguirli, perché fuggirebbero pur di non pagare determinando così fuga di capitali. Ah si? Fuggirebbero? E per andare dove? In Europa dove sono tassati duramente? E come mai i patrimoni francesi, nonostante il 10% di aliquota non scappano? Forse perché ci sono i mandati di cattura internazionali, le rogatorie internazionali e i sequestri dei beni? E di quale fuga di capitali si parla, nel caso? Quella di capitali immobili e non investiti?

Serviva offrire un messaggio diverso, al paese e all’estero. Davanti ad una crisi epocale, questa sì di sistema, dove il turbo capitalismo dimostra un bisogno di accumulazione originaria ogni giorno più vorace e socialmente più escludente, che fa della finanziarizzazione dell’economia e della guerra al lavoro la cifra essenziale del suo sviluppo, ci si poteva almeno attendere un’idea diversa da quella della mera salvaguardia dei suoi fallimenti e di continuità nelle scelte. Anche a voler comunque governare l’emergenza sui mercati, si potevano concepire manovre brusche di messa in sicurezza dalla speculazione, invece di accarezzargli il pelo. Lo farà probabilmente l'Europa e noi ci accodremo, nostro malgrado.

Detto con franchezza, non c’era bisogno di professori bocconiani per un’opeazione che anche un ragioniere diplomato al Cepu è in grado di realizzare: tagliare con la falce il bilancio pubblico è operazione semplicissima se non si risente né di cultura politica democratica, né di dover rappresentare la maggioranza degli italiani. Che però, prima o poi, torneranno alle urne e, c’è da scommetterci, ricorderanno nomi, cognomi e sigle di chi ha votato in Parlamento la macelleria sociale che disegna i nuovi parametri su cui si erige la nuova e ancora più ingiusta Italia.

 

di Mariavittoria Orsolato

Ce l’ha messa tutta Mario Monti in conferenza stampa. Prima di presentare ufficialmente quella che si era annunciata come LA manovra lacrime e sangue, il premier ha deciso di rivolgersi agli italiani per spiegare in toni paternalistici le grandi linee delle misure che a breve saranno imposte per decreto. L’incedere lento, a tratti ipnotico, del professor Monti probabilmente mirava ad un effetto tranquillizzante sugli astanti ma quanto detto a seguito del Consiglio dei Ministri più che un discorso da “padre della nazione” ha finito per risultare l’affermazione di un “padrone del vapore”.

Partito con uno statement che più populista non si può - “rinuncio allo stipendio di Presidente del Consiglio e di Ministro dell’Economia” - Monti ha poi snocciolato una ad una le massime del neoliberismo alla Milton Friedman, spacciandole per taumaturgiche pozioni in grado di ridare respiro ai conti pubblici e con un non meglio specificato criterio di equità sociale. Concorrenza, liberalizzazioni, privatizzazioni, flessibilità, sacrificio: queste le parole ricorrenti con cui la squadra di Monti ci ha imboccato durante la conferenza stampa. Sull’ultima di queste c’è persino scappato il pianto del Ministro del Welfare Elsa Fornero che, o perché colta da un attacco di pietas verso i poveri vecchietti o perché abilmente conscia della sua arma di distrazione, è scoppiata in lacrime nell’annunciare il blocco della scala mobile sulle pensioni.

Questa e altre misure di austerity che verranno commentate da più esperti “esperti” una volta reso pubblico il testo completo, verranno a breve calate dall’alto tramite il meccanismo del decreto legge, tanto deprecato durante l’era Berlusconi in quanto lesivo del dibattito parlamentare ed ora rivalutato in funzione della consolatoria quanto effimera logica del male minore. La “tecnocrazia” propugnata da Monti e dai suoi specialisti non può infatti lasciare sufficiente respiro ad una vera concertazione e deve limitarsi ad eseguire i dettami - ufficialmente patriottici, ufficiosamente europei - che il mercato, inteso ormai come ecosistema, ordina e impone. Gli incontri con le parti sociali e le forze politiche sono infatti avvenuti nel momento in cui il testo della manovra era già stato deciso e messo per iscritto e c’è voluta una polemica a mezzo stampa per far sì che la spiegazione di queste cruciali misure non avvenisse direttamente nel salotto di Bruno Vespa.

Da questo primo sguardo, il supergoverno Monti non sembra il Direttorio che gli sguardi entusiasti ci avevano dipinto all’indomani della fine dell’era Berlusconiana: un gran consiglio imbelle a livello politico ma abilissimo nel risanare le casse pubbliche secondo le ricette stranote e perdenti. Mario Monti risulta autoreferenziale, sicuro delle sue scelte perché competente e assolutamente restio a confrontarsi con un idea di azione diversa dalla dottrina economica studiata nei libri di testo della Bocconi. Chiudendosi al dialogo e rimanendo ancorata saldamente ai dettami dell’Unione Europea - o meglio dell’ipoteca tedesca sulla BCE - la nuova squadra di governo non ha fatto altro che imbellettare la causa di questa crisi economica e sociale per rivendercela come unica e auspicabile soluzione.

Nonostante si dimostri snobisticamente disinteressato alla politica, questo esecutivo ha di fatto optato per una politica di destra che non intacca lo status quo ma che, anzi, punta a conservarlo a scapito di quell’equità tanto sbandierata, ma disattesa del tutto dinanzi a quella stessa società cui si chiede di tirare la cinghia, di adattarsi, di sacrificarsi.

La titubanza, l’imbarazzo quasi, con cui Monti si è espresso nell’iniziale “monologo con i cittadini” denota se non altro la candida impreparazione dell’attuale premier a mentire consapevolmente di fronte al grande pubblico. Nei 10 minuti del suo primo vero discorso alla nazione, il professore ha però comunque perseguito la captatio benevolentiae secondo canoni assolutamente politici. Come ha sottolineato il blogger Jumpinshark: “In più passi si percepiva come Monti stesse cercando l'eufemismo massiccio (l'opera dei passati governi), la benevolenza verso il pubblico (gli ammortizzatori sociali), la difesa a catenaccio (l'Europa ce lo chiede), l'enfasi trinciatutto (il risorgere dell'Italia) dentro i quali formare il proprio pensiero”.

Una prestazione di certo diversa nei toni - essere morigerati è un altro degli obblighi imposti dal “nuovo corso” - ma non del tutto dissimile negli intenti di depauperamento fino ad oggi previsti per una larga fetta degli italiani, giovani in primis. Si parla ancora di aiuti alle famiglie (per i single o le coppie di fatto nessuna menzione), di aumenti minimi delle imposte sui patrimoni al rientro dai paradisi fiscali (dal già striminzito 5% al ridicolo 6,5%), di liberalizzazione delle professioni in nome di una concorrenza che in quanto libera sarà deregolamentata. E a voler essere maliziosi viene da pensare che se Berlusconi è stato defenestrato non è perché avrebbe fatto macelleria sociale, ma perché ne avrebbe fatta troppo poca e, soprattutto, con stile deprecabile.

L’inevitabile sensazione dunque è che si sia persa, per l’ennesima volta, una preziosa occasione storica: esaurito (forse) il ventennio berlusconiano, l’Italia poteva scegliere di cambiare rotta, di sterzare verso un modello socioeconomico differente, ma il padrone del vapore ha deciso che è meglio virare solo di 30°, sperando di non urtare l’iceberg. E, meno che mai, gli interessi che lo sostengono.

 


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