di Fabrizio Casari

Avremo anche mangiato meno, come dicono le statistiche, ma sotto l’albero di Natale, qualcuno ha continuato a stimolare appetiti. Centrodestra e centrosinistra, in affanno causa appoggio a Monti e la sua manovra recessiva che, con ironia non richiesta, ha chiamato “salva Italia”, stanno cercando di rimettere insieme cocci e idee, schieramenti e alleanze per arrivare in ordine alle prossime elezioni politiche.

I più lesti nei lavori in corso sono a destra: ormai quasi più nessuno nega il progetto di nuova alleanza con Casini (ultimo La Russa ieri), pur sapendo che questo non può che passare dal ritiro della candidatura a premier del Cavaliere. Questo sarà l’unico elemento d’incertezza: Berlusconi vorrà ricandidarsi e, con ciò, portare alla sconfitta il PDL o invece, dimostrando acume, saprà mettersi sul podio senza scendere nell’arena, lasciando la candidatura ad Alfano che, s’intende, governerà per lui?

In fondo, un’eventuale Alfano premier sarebbe come un affidavit del cavaliere, una sorta di gestore dei suoi beni. Quanto alla Lega, in qualche modo rientrerà: non si vede proprio dove andrebbe da sola, né pare ipotizzabile un suo rinchiudersi sulla dimensione locale, peraltro già seriamente elettoralmente castigata dagli anni al governo. Il sopraggiungere di Casini e Fini darebbe poi ampio margine di tranquillità per i numeri e dunque pazienza se anche la Lega non dovesse tornare all’ovile.

Il centro tesse la tela, ma non ha nessuna intenzione di svolgere un ruolo secondario, di appoggio ad altri. Vuole la candidatura diretta a governare: certo non da solo, ma a governare. All’uopo sono in corso le manovre di riassetto, profferte di alleanze e minacce di scissioni, come nel solito copione. In cantiere c’é il prodigioso, miracolato per antonomasia, polo dei cattolici che, urbi et orbi, rilancia la centralità dello schieramento confessionale. Trasversale, organizzato in partiti e, più specificatamente, in correnti nei vari partiti, ha nel “sobrio” governo un’interlocuzione fondamentale.

Il neoministro Riccardi e l’ex ministro Fioroni hanno indicato la retta (benché tortuosa) via, che dovrà segnare il cammino dei cattolici. Non è detto che rinasca la Dc, dice il sobrio Riccardi, “forse non ci saranno unificazioni, ma saranno possibili nuove condensazioni” tra i cattolici. La “condensazione” è oggettivamente un inedito del lessico politico, pur se ancora distante dal più famoso “convergenze parallele”. Ma indica un indirizzo in continuità con quanto visto finora: lo schieramento papalino é elemento sabotatore del bipolarismo perché, in primo luogo, è un aggregato melmoso che nega ogni riferimento alle culture politiche originarie di destra e sinistra, coprendole con un gigantesco mantello cattolico che strozza nella culla ogni polarizzazione possibile.

Intendiamoci: i cattolici hanno tutto il diritto di scegliersi e proporsi a partire dalla loro identità religiosa, da cui far discendere un’eventuale schieramento o partito con un nome, un cognome, un’identità e un progetto. E dunque ci si potrebbe chiedere: cosa gli impedisce di riunificarsi, di chiamare a raccolta tutti coloro che nel centro-destra e nel centrosinistra sono parcheggiati? Insieme potrebbero costituire il cosiddetto Terzo Polo dotandolo di forza necessaria a presentarsi come guida per il governo.

Ma non succede e non succederà. Il respiro del progetto sarebbe corto e faticherebbe ad arrivare alla doppia cifra elettorale. E’ molto più redditizio occupare settori di tutti gli schieramenti per condizionarne le scelte. Ogni differenziazione netta sul piano della politica economica, sociale (e soprattutto dei diritti civili) tra conservatori e progressisti, libertari e reazionari, è fumo negli occhi per la melmosità del centrismo.

L’occupazione del centro dello schieramento politico non corrisponde alla necessità di mediare le spinte centrifughe di una società globalizzata e confusa e gli interessi di classe ancora in campo: non è il prologo allo svolgimento di una proposta complessiva per il Paese e non è quindi propedeutico alla formazione di una forza politica.

L’occupazione del centro, utile per impedire proprio lo sviluppo e la crescita della dialettica politica complessiva, è invece al tempo stesso premessa e scopo finale dell’operazione. In un adattamento dell’assioma taoista, il governare senza governare diventa il governare comunque, indipendentemente da chi formalmente governi.

Il santissimo schieramento non è berlusconiano perché eticamente improponibile e non è progressista perché politicamente insopportabile. Dunque è collocato a destra della sinistra e a sinistra della destra, perché per garantire la loro centralità nei secoli dei secoli hanno bisogno d’impedire che la polarizzazione della politica entri nelle urne.

E’ per questo che la ripresa di centralità politica dei cattolici si misura su due fronti: da un lato deve consolidarsi l’uscita di scena del cavaliere, che toglie spazio alla naturale ricomposizione tra la destra e i pii esponenti; dall’altro deve essere strappata la cosiddetta “foto di Vasto”, raffigurante Bersani, Di Pietro e Vendola in un abbraccio di scarso valore affettivo ma di rendita elettorale certa.

Ovviamente, l’emergenza prioritaria è quella d’impedire soprattutto che la foto di Vasto diventi un progetto politico o anche solo elettorale. Perché il pericolo maggiore, per i cattolici, non è quello di una destra arroccata intorno ai privilegi del sultano, né quello di ricondurre la Vandea leghista alle ragioni della governabilità: il pericolo vero è una crescita dell’anima socialdemocratica e laica del PD che possa trovare uno sbocco nella ricerca di un’alleanza a sinistra, data comunque vincente nei sondaggi.

Recuperare i milioni di voti di sinistra che negli ultimi dieci anni sono rimasti sospesi, affidare alla trasversalità sociale di movimenti che lungo questi ultimi due anni hanno riempito piazze e urne referendarie, é il rischio vero che i cattopiddini intravedono. Una sterzata a sinistra della coalizione li obbligherebbe all’uscita dal PD e, quindi, allo smantellamento della parte fondamentale del progetto. Non è certo l’Api il contenitore in grado di ospitare milioni di voti.

L’eventuale uscita di scena del cavaliere e le trame tra Alfano e Casini da un lato, lo sbianchettamento parziale o totale della foto di Vasto dall’altro, determineranno i prossimi passi. Ciò che serve al Paese é oggetto di punti di vista differenti, ma ciò che serve ai resti della DC per continuare a occuparlo é pensiero condiviso, pur se con accenti diversi. Un pensiero che chiede strada a tutti e propone spazi per tutti. Auspicando, come trent’anni orsono, le convergenze parallele.

di Fabrizio Casari

Non c’è solo l’equità tra le promesse mancate dal governo Monti. Un’altra, significativa delusione, arriva dalla politica della comunicazione governativa. Il presidente del Consiglio, infatti, aveva garantito un uso parco e misurato delle dichiarazioni dei suoi ministri. E se l’equità è risultata essere fumo negli occhi, anche sulla sobrietà della comunicazione qualcosa non deve aver funzionato. Con regolarità ormai quotidiana, infatti, il volto piangente del governo, la Ministro Elsa Fornero, esterna e crea allarme sociale, contribuendo a far crescere il fastidio generale del paese per gli apprendisti stregoni.

L’ultima gaffe l’ha vista protagonista a un convegno della Federazione della Stampa Italiana: si è presentata affermando che i conti dell’Inpgi non sono in ordine e che peccano di trasparenza e che, dunque, dovranno subire le decisioni della Fornero medesima. Quindi si è alzata, prima che potessero replicare alle sue esternazioni, ed è uscita dalla sala, rinunciando a partecipare alla conferenza stampa prevista. La reazione è stata dura: tutti gli intervenuti hanno ricordato come i conti dell’Inpgi siano a posto fino al 2050 e che quanto a trasparenza i suoi bilanci, pubblici e certificati da otto organismi - tra i quali il Ministero dell’Economia e del Lavoro e la Corte dei Conti - si possono leggere sul sito ufficiale dell’istituto previdenziale. Basta saperli leggere.

Tanto per dare un quadro dello spessore del personaggio, al convegno che celebrava il centenario dell’introduzione del primo contratto nazionale di categoria, la Fornero ha detto: “Se c’è da cento anni andrà pure rinnovato, no”? Confondendo così la nascita dell’istituto del contratto nazionale con il contratto vero e proprio vigente, che ha invece, come dovrebbe sapere, due anni di vita.

Il Presidente dell’Inpgi, Camporese, che vede il rischio di manovrine furbette destinate a trasferire i fondi degli istituti privati nelle casse di quelli pubblici, l’ha invitata a dire quello che ha in mente davvero e, comunque, a documentarsi prima di dire falsità grossolane, annunciando che il ministro risponderà in tutte le sedi competenti delle sue parole.

Ma quella contro le casse previdenziali private (che nulla ricevono da quelle pubbliche e che pagano di tasca propria gli ammortizzatori sociali) è stato solo l’ennesimo infortunio della professoressa, che in tre giorni ha sostenuto l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, la distruzione del sistema pensionistico pubblico e le provocazioni a danno di quello privato. Non passa giorno ormai, senza che la Fornero non senta il bisogno di straparlare. Esaurite le lacrime in favore di telecamere, la signora, colta da improvvisa mania di protagonismo, squaderna con i giornalisti amici pensieri e parole, dichiarazioni e smentite.

Ieri il segretario del PD, Bersani, facendo eco alle reazioni sindacali (particolarmente dura con lei la leader della CGIL Camusso e quello della CISL Bonanni), è dovuto intervenire con forza per ribadire che toccare l’articolo 18 in un paese con il record europeo di disoccupazione è follia e che è arrivata ora che il governo ascolti le forze sociali se vuole andare avanti.

A fare eco alla Fornero ci sono solo Ichino e la Marcegaglia, il che non è propriamente la rappresentazione del consenso di massa. La Fornero, come Ichino, invoca la flex.security, uno di quei mantra fallaci già sotto l’aspetto terminologico. Perché se la parte “flex” è chiara (e sperimentata in tutta la sua brutalità), dove sarebbe la “security”? Il Ministro, che sull’articolo 18 ha già fatto marcia indietro, si ritiene espressione del “nuovo” ma la sensazione d’incompetenza totale e d’inadeguatezza, già percepita nei primi giorni del suo incarico, è diventata ormai certezza.

Al riguardo, stabilito che il Ministro è fuori contesto e le sue esternazioni sono fuori da ogni logica e competenza, la domanda che ci si pone è fondamentalmente una: parla per vanità personale o perché l’Esecutivo la manda allo sbaraglio per vedere le reazioni e regolarsi di conseguenza? Il tempo della sua permanenza al governo sarà la risposta all’interrogativo.

di Carlo Musilli

Il mirino del governo ha cambiato obiettivo: dopo le pensioni, il nuovo bersaglio sembra essere l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, quello che vieta i licenziamenti senza giusta causa. Ora che la manovra economica è passata alla Camera - con annessa rivoluzione della previdenza - l'approvazione definitiva al Senato entro Natale è una pura formalità. Per questo l'esecutivo può concentrarsi su quella che è stata definita come "fase due", al centro della quale dovrebbe essere appunto la riforma del lavoro.

L'allarme è scattato dopo l'intervista a Elsa Fornero pubblicata ieri dal Corriere della Sera. In riferimento all'articolo 18, il ministro del Welfare sottolinea che non si tratta di un "totem", quindi invita "i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste e aperte". E sarebbe davvero la prima volta per questo governo, vista la totale mancanza di contrattazione che ha preceduto la manovra, scritta e approvata in tempi record.

Ma il passaggio più significativo dell'intervista è questo: "Penso che un ciclo di vita che funzioni - dice Fornero - sia quello che permette ai giovani di entrare nel mercato del lavoro con un contratto vero, non precario. Ma un contratto che riconosca che sei all'inizio della vita lavorativa e quindi hai bisogno di formazione, e dove parti con una retribuzione bassa che poi salirà in relazione alla produttività. Insomma, io vedrei bene un contratto unico, che includa le persone oggi escluse e che però forse non tuteli più al 100% il solito segmento iperprotetto". Il tutto con un corollario fondamentale: "Certo che la contrattazione è materia delle parti. Noi vogliamo però spingerle non a ridurre i salari, ma a riflettere sulla possibilità di avvicinarli il più possibile alla produttività".

In sostanza, questo potrebbe voler dire l'estensione della precarietà anche ai lavoratori a fine carriera. Per disinnescare il trucchetto del prepensionamento, usato dalle aziende per liberarsi dei dipendenti anziani - più costosi e meno produttivi dei giovani - si pensa di mettere a punto anche per chi è ormai in là con gli anni dei contratti "flessibili" e a stipendio ridotto rispetto agli anni di gloria della carriera. La modifica non interesserebbe i contratti già in essere, ma quelli a venire. Almeno in questo campo i diritti acquisiti dovrebbero così essere rispettati.

Spostando lo sguardo sui più giovani e facendo due più due, sembra proprio che il fantasma di Pietro Ichino stia rientrando dalla finestra. D'altra parte, non è mai stato un mistero che questo governo puntasse a seguire i binari tracciati dal giuslavorista e senatore (eterodosso) del Pd.  In sostanza, il modello Ichino prevede che le assunzioni a tempo indeterminato arrivino dopo un periodo di prova di sei mesi, durante il quale non varrebbero le tutele dell'articolo 18. E anche dopo aver firmato il contratto più solido, l'impresa potrebbe comunque allontanare i dipendenti per motivi di crisi economica. Basterebbe pagare loro un'indennità proporzionale alla durata del rapporto di lavoro.

Ora, il vero nodo della questione è quello degli ammortizzatori sociali. E' necessario rafforzarli per tutelare chi il lavoro l'ha già perso, sta per perderlo o non l’ha mai trovato. Il Pd chiede che si parta da questa riforma prima di ipotizzare modifiche al'articolo 18.

Ma il welfare è un costo e con questi chiari di luna trovare altri soldi pubblici da spendere sembra una chimera. Difficile anche che il governo scelga di seguire fino in fondo la ricetta Ichino, che prevede per i lavoratori licenziati la tutela di un'assicurazione a carico delle imprese. Alzare adesso il cuneo fiscale vorrebbe dire con ogni probabilità dare il colpo di grazia alle aziende italiane, se è vero che l'anno prossimo il Pil del nostro Paese farà registrare un terrificante -1,6%, come ha annunciato la settimana scorsa il Centro studi di Confindustria.

Il rischio è quindi che la riforma del lavoro porti con sé maggiore precarietà senza alcuna nuova garanzia per i lavoratori. Una prospettiva che fa rabbrividire i dirigenti del Pd, già messi in guardia dalla reazione battagliera dei sindacati. Si spiega così l'atteggiamento prudente di Stefano Fassina: "È da apprezzare l'atteggiamento riflessivo del ministro Fornero - ha detto il responsabile economico dei democratici - dopo un adeguato approfondimento, la Professoressa concluderà come noi che l'articolo 18 non c'entra nulla con la precarietà dei giovani e con la crescita dell'economia".

Se invece non dovesse capirlo, il Pd potrebbe implodere proprio sulla questione che tanti mal di pancia ha causato all'interno del partito. Con il Pdl che si smarca ogni giorno di più dalle iniziative del governo Monti, per i democratici è arrivato il momento di prendere una posizione netta. Dopo aver perso una buona fetta di credibilità agli occhi del proprio elettorato con la pigra accettazione della manovra, devono fare in modo di non ricevere altre brutte sorprese.

 

di Mariavittoria Orsolato

Si vociferava già da tempo che fosse una ghiotta moneta di scambio e ora per il governo Monti i nodi sono giunti al pettine: stiamo parlando dell'assegnazione delle ultime frequenze televisive digitali, uno degli ultimi colpi di coda del governo Berlusconi. Una procedura tutta sbilanciata a favore del duopolio Rai-Set che, invece di adottare le normali gare d'asta, aveva preferito l'escamotage del beauty contest.

Che é un processo di assegnazione assolutamente gratuita che prevede una graduatoria tra i concorrenti in base a tutta una serie di requisiti tecnici e commerciali, come il numero di dipendenti o il possesso di infrastrutture e impianti di trasmissione. Un regalo da quasi due miliardi di euro che l'arbitro Berlusconi ha deciso di elargire a se stesso poco prima dell'allontanamento coatto dal palazzo, e in barba al disperato bisogno di liquidità delle casse statali.

Ora che con la supermanovra si è deciso il prelievo forzato su quelle che a tutti gli effetti sono le categorie più deboli - pensionati sempre più old, affittuari vittime dell'IMU, lavoratori dipendenti ipertassati - la Femi (Federazione dei media digitali indipendenti) ed Altroconsumo hanno ricordato al nuovo esecutivo che forse anche dalla cessione delle frequenze c'è mezzo di beccar su qualcosina.

E l’hanno fatto mandando una diffida formale al Ministro per lo Sviluppo Corrado Passera in cui chiedono che di disporre l’annullamento in autotutela, o la revoca del bando e del disciplinare di gara, provvedendo alla sua riscrittura secondo criteri che assicurino un’effettiva apertura concorrenziale dei mercati e, soprattutto, il buon andamento della pubblica amministrazione nell'interesse dei cittadini. Sono infatti questi ultimi i veri proprietari dei cinque multiplex - ovvero le ambite megafrequenze digitali che possono trasportare fino a sei diversi canali - dal momento che le frequenze su cui trasmettere sono e rimangono un bene dell'intera comunità.

La diffida - predisposta dagli avvocati Guido Scorza, Carmelo Giurdanella, Elio Guarnaccia, Dario Reccia e Francesca Bilardo - è stata notificata anche alla Commissione Europea, all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, all’Autorità Garante della concorrenza e del Mercato ed all’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici, invitandole ad esercitare i poteri di controllo e di vigilanza di propria competenza. Già dall'insediamento del nuovo governo, negli ambienti politici, s’indicava la questione frequenze come un possibile cavallo di Troia spendibile da Berlusconi per vendere al meglio la sua maggioranza in caso di fiducia, ma per una volta pare che il miracolo (forse) ci sia stato.

Nella seduta alla Camera di ieri Monti ha infatti dato parere favorevole agli ordini del giorno alla manovra presentati da Partito Democratico, Italia dei Valori e Lega Nord che chiedono di annullare il beauty contest indetto dal precedente esecutivo (e avallato dall'Agcom) per indire una gara d'asta realmente competitiva e soprattutto remunerativa. Probabilmente conscio del fatto che all'asta gemella per gli operatori delle telecomunicazioni Telecom Italia, Vodafone, Wind e H3G hanno messo sul piatto 4 miliardi di euro, il Ministro per i rapporti con il Parlamento Piero Giarda ha acconsentito e chiesto che gli ordini del giorno siano discussi insieme.

Pare quindi che le frequenze liberate dal passaggio al digitale verranno effettivamente pagate ma già da subito, probabilmente per stizza, Berlusconi si è detto "indifferente" rispetto ad un'eventuale asta, affermando con sicumera che "con il numero incredibile di frequenze oggi disponibili ci sarà pochissima gara per occuparle”. A smentirlo a stretto giro ci ha però pensato la nemesi Santoro che giovedì, nel corso di Servizio Pubblico, ha affermato di poter tranquillamente raccogliere un milione di euro, tramite sottoscrizioni of course, per presentare una sua offerta.

La provocazione del giornalista salernitano è stata subito accolta e rilanciata ieri da Sandro Parenzo, proprietario di Telelombardia - l’emittente capocordata delle televisioni locali che trasmettono sul digitale terrestre il talk di Santoro - che ha indicato alcune corporations americane e inglesi come interessate a partecipare alla gara in caso d'asta.

Che dopo il crollo di consenso dovuto alle misure contenute nella manovra, Monti dovesse elargire il contentino alle sedicenti opposizioni era cosa scontata: che poi lo facesse sul tallone d'Achille di Berlusconi è la conferma dell'inevitabile segno politico dei suoi provvedimenti. Applausi? Ma anche no.

 

di Vincenzo Maddaloni

I presupposti ci sarebbero tutti per ricavare un  profilo aggiornato dei 150 anni del Paese, da questo inedito rapporto tra  Mario Monti e il suo governo da una parte e l’ampia maggioranza del mondo cattolico - gerarchie comprese - dall’altra. Era dai tempi della prima Repubblica che non accadeva, sebbene il contesto sia oggi diverso, molto diverso, quasi inedito. Un tempo, quando il mondo - ricordate - era diviso in due blocchi, in Italia c’era un governo della Dc quale baluardo dei credenti contro gli “atei” comunisti. Nell’èra della globalizzazione invece, c’è il governo dei banchieri, imposto dal Fondo Monetario internazionale e dalla Banca centrale Europea. Con a capo Mario Monti, che è l'esponente della Commissione Trilaterale e del Bildelberg club http://it.wikipedia.org/wiki/Gruppo_Bilderberg, nonché consulente della banca americana di Goldmann-Sachs e di Coca Cola company.

E' insomma un uomo del grande capitale al quale non dispiacerebbe - per sua stessa ammissione - contribuire alla costituzione di un Nuovo ordine mondiale. Naturalmente, egli è uno dei fautori della globalizzazione la quale, costringendo i paesi a dipendere gli uni dagli altri, favorisce in modo determinante  l'affermazione delle imprese multinazionali con tutta una serie di conseguenze. La prima è un pesante aggravamento delle ineguaglianze economiche. Già Hegel diceva che le società ricche non sono abbastanza ricche da riassorbire il sovrappiù di miseria che generano. Nel mondo globalizzato, la povertà non è più frutto della scarsità, bensì della cattiva ripartizione delle ricchezze prodotte, nonché di un blocco psicologico e culturale che vieta di prendere in considerazione il passaggio a società che non si definiscano prioritariamente attorno al lavoro e alla produzione.

Fra il 1975 e il 1985, il prodotto lordo mondiale è aumentato del 40 per cento: dal 1950 il commercio mondiale è stato moltiplicato per undici, la crescita economica per cinque. Si tenga a mente che durante lo stesso periodo, non solo non si è verificato un innalzamento regolare del livello di vita media, ma si è viceversa assistito ad un aumento senza precedenti della povertà, della disoccupazione, della disintegrazione sociale e della distruzione dell’ambiente.  Cosicché Il PIL reale per abitante nei paesi del Sud ammonta oggi a solo il 17 per cento di quello del Nord. Si aggiunga anche che il mondo industriale, che non rappresenta più di un quarto dell’umanità, detiene l’85 per cento delle ricchezze della Terra. Infine, I paesi membri del G7 rappresentano l’11 per cento della popolazione mondiale, ma possiedono i due terzi del PIL del pianeta.

Insomma la globalizzazione crea modelli di società che sono l’esatto contrario di quello che la Chiesa non dovrebbe dimenticare quando cita Gesù: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio». (Lc6,20,23). E «Guai a voi, ricchi, che ora ridete, perché sarete afflitti e piangerete». Quindi povertà e ricchezza sono un problema di fede perché Gesù - secondo i resoconti dei Vangeli - non è vissuto nell’indigenza e tanto meno nella ricchezza, ma ha scelto per sé una condizione di povertà. E quindi ha proposto come un valore positivo appunto la povertà e non l’indigenza, ossia la condizione estrema in cui si muore di stenti.

Questi pochi cenni dei sacri testi mal si conciliano con le aperture di credito rivolte fin dal primo momento dalla Santa Sede al governo Monti. Infatti il professore, subito dopo l’incarico e prima di sciogliere la riserva, aveva ricevuto una telefonata personale di sostegno da parte del papa Benedetto XVI. Poi dal giorno della formazione dell’esecutivo, gli incoraggiamenti del segretario di Stato Tarcisio Bertone al nuovo inquilino di Palazzo Chigi sono stati ben tre e tutti di grande evidenza. Il cardinale, formulando gli auguri al governo, lo benediva con queste parole: «Una bella squadra alla quale auguro buon lavoro perché il lavoro è tanto e difficile, ma penso che sia attrezzata per affrontarlo». Poi ancora, quindici giorni fa, esprimeva l’auspicio che il premier possa «andare avanti». Infine, martedì della scorsa settimana, il cardinale Bertone  ritornava a parlare dell’esecutivo e della manovra “salva-Italia” sostenendo di apprezzarla perché «i sacrifici fanno parte della vita». E dunque, come mai non era accaduto prima, sulla scia del segretario di Stato si sono uniti al coro dei fans di Monti i catto-progressisti delle Acli, di Famiglia cristiana e dell’Azione cattolica, i conservatori di Comunione e Liberazione, gli ex democristiani e gli ex sessantottini di Sant'Egidio, tra l’altro premiati con un ministero ad Andrea Riccardi che è tra i laici cattolici più accreditati in Vaticano.

All’origine di una così larga mobilitazione c’è il timore di perdere in contatto con la società poiché in Italia, come altrove in Occidente, la cultura dei consumi ha fatto diffondere stili di vita che si riassumono nella “generazione del me”, nelle masse di coloro che “fanno gli affari propri” e dove “capita” e che tollerano sempre meno un’etica religiosa ancorata ai suoi punti fermi. Poiché il consumo, da qualche tempo ormai, non è più riferito all’acquisto di cose che dovrebbero soddisfare delle necessità, ma ha inaugurato nuove regole di stile di vita secondo le quali, «gli individui vanno incoraggiati a scegliere con attenzione, sistemare, adattare ed esibire i propri beni. Che essi siano mobili, case, automobili, indumenti, o il proprio corpo o le attività del tempo libero», come osservava (già quindici anni fa) il sociologo Mike Featherstone.

Infatti, benché la sfera pubblica non sia mai stata qualcosa di interamente sgombro dal religioso, organismi nati in contesti religiosi e supportati dal pubblico - come per esempio istruzione, salute, cura degli anziani - stanno perdendo col passare degli anni clienti e pazienti. Naturalmente l’ombra del campanile che si accorcia crea nella gerarchia ecclesiastica non poche preoccupazioni e quindi via a iniziative di lungo corso che al primo approccio non sembrano facili da decifrare.

Sulla possibilità, per esempio, che l’ICI venga estesa agli immobili vaticani destinati a fini commerciali (un miliardo la stima minima) inaspettata è stata la riposta del cardinale Bagnasco: «Se abusi si dovessero accertare», ha raccomandato il presidente della Cei, «siano essi perseguiti secondo giustizia, in linea con le norme vigenti». Il segretario di Stato Tarcisio Bertone ha usato toni ancor più tranquillizzanti ribadendo la propria disponibilità poiché l’ICI rappresenta «un problema particolare», da «studiare e approfondire». Infatti, secondo alcune rilevazioni, addirittura il venti per cento del patrimonio immobiliare italiano farebbe capo alla Chiesa. Il catasto comprenderebbe cento mila fabbricati, il cui valore si aggirerebbe attorno ai nove miliardi di euro. Le stime di settore parlano di circa cento e quindici mila immobili, quasi nove mila scuole e oltre quattro mila tra ospedali e centri sanitari. Soltanto a Roma ci sono ventitré mila tra terreni e fabbricati, venti case di riposo, diciotto istituti di ricovero e sei ospizi che le appartengono.

Naturalmente, la sostanziale disponibilità espressa dalle gerarchie vaticane a estendere il pagamento dell’ICI ad alcune attività tutt’ora esenti si può prestare a diverse interpretazioni. C’è più d’uno che la interpreta come la risposta al discorso del Papa di domenica 25 settembre, a Friburgo, quando Benedetto XVI, parlando alla Chiesa tedesca - ricca e strutturata - aveva ricordato come lungo la Storia «le secolarizzazioni - fossero esse l’espropriazione di beni o la cancellazione di privilegi - significarono ogni volta una profonda liberazione della Chiesa da forme di mondanità: essa si spoglia, per così dire, della sua ricchezza terrena e torna ad abbracciare pienamente la sua povertà terrena».

Per molti altri invece va interpretata come un segnale di riconoscenza degli alti prelati per aver ottenuto dentro il governo varato dal cattolicissimo Monti, alcuni uomini direttamente riconducibili ai vertici della Chiesa cattolica. Se si tiene a mente il sostegno smaccato concesso in questi anni dalle gerarchie vaticane e da gran parte dell’episcopato italiano al governo Berlusconi, ancora più sorprendente appare il risultato ottenuto da Bagnasco, il cardinale della perdonanza e delle cene segrete (rivelatasi poi non proprio segrete) con Berlusconi. Una vera e propria lottizzazione in termini di presenze di “area”, degna del manuale Cencelli, come sottolinea Valerio Gigante su La Repubblica. http://temi.repubblica.it/micromega-online/da-todi-a-roma-c’é-tanto-vaticano-nel-nuovo-governo/.

Malauguratamente l’eclatante successo che dovrebbe consolidare le fortune del cattolicesimo in Italia è offuscato da un malcontento che s’ingrossa. Esso è rappresentato dalle migliaia e migliaia di persone che si sono mobilitate per sottoscrivere l’appello - eliminare i privilegi sull’ICI di cui la Chiesa cattolica gode - lanciato da Micromega. E inoltre da un’ampia fascia di devoti che rimprovera alla gerarchia di avere eretto l’immagine di Gesù che benedisce i banchieri fautori dell’economia globale, come nuovo simbolo della Chiesa universale. Accade perché, «l'utopia dello Stato mondiale sembra unire le aspirazioni dei banchieri e delle multinazionali a quelle della gerarchia ecclesiastica», scrive un osservatore attento come Martino Mora. Che spiega: «Giovanni XXIII è stato il primo pontefice a profilare la necessità e l'auspicabilità di un unico governo mondiale nell'enciclica “Pacem in terris”(1963).

Vi affermava la necessità di “un'autorità politica con competenze universali”… “in cui il potere, la costituzione e i mezzi d'azione abbiano essi stessi dimensioni mondiali, e che possa esercitare la sua azione su tutta la terra”… E’ però nella “Caritas in veritate” (2009) di Benedetto XVI che l'idea dello Stato mondiale viene espressa con altrettanta chiarezza, ma con maggiore approfondimento che nell'enciclica giovannea del 1963.» http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=41231. Predica infatti Benedetto XVI: «Urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è già stata tratteggiata dal mio predecessore, il beato Giovanni XXIII... Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione internazionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione e che si dia finalmente attuazione a un ordine sociale conforme all'ordine morale e a quel raccordo tra sfera morale e sociale, tra politica e sfera economica e civile che è già prospettato nello Statuto delle nazioni Unite».

Parte da questa “urgenza” evocata dal Papa l'iniziativa promossa dalla Pontificia Università Gregoriana, lo storico ateneo dei Gesuiti, dove è stato progettato - nel Centro Fede e Cultura "Alberto Hurtado" - un nuovo seminario internazionale di "formazione alla democrazia",  aperto a laici e cattolici senza distinzioni partitiche, di gruppo o di bandiera. Tra i temi trattati, l'unità dell'Europa, l'economia ai tempi della globalizzazione dei mercati, il federalismo solidale, l'apporto del cattolicesimo sociale e politico, le proposte per una nuova governance globale.

Insomma, come ha spiegato il direttore del corso, monsignor Samuele Sangalli, «abbiamo raccolto una domanda presente di vera e seria formazione all'etica pubblica. Il nostro intendimento, infatti, è quello di dare una formazione rigorosa e di accogliere così l'invito del Papa espresso nella “Caritas in Veritate”, a «formare dei laici che un domani si sappiano prendere cura di quella che Paolo VI chiamava la più alta forma di carità», cioè la politica. Vale a dire che sono i gesuiti, che da sempre operano sul piano culturale ai massimi livelli accademici in tutto il mondo, che istruiranno «la nuova generazione di laici cattolici da far entrare nell'ambito pubblico con spirito di servizio».

Questo accade nel Paese. Se si pensa a qual era - cento cinquanta anni fa, agli albori dell’Italia unita, il rapporto tra papa Pio IX e il conte Camillo Benso di Cavour, di strada la Chiesa ne ha fatta. E parecchia.


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