di Mariavittoria Orsolato

La storica rivista americana Time ha eletto il protester come uomo dell’anno. Una figura irresistibilmente evocativa in questi tempi d’imposta abulia, che dopo anni di isolamento della militanza politica torna a conquistare ampi strati della società civile e a raccogliere consensi in modo trasversale. Da quando lo scorso 17 dicembre Mohamed Bouazizi, un venditore di frutta tunisino, si è dato fuoco per protestare contro la disoccupazione e la povertà generalizzata, il dissenso verso le istituzioni politiche e finanziarie si è diffuso velocemente in tutto il Medio Oriente, in Europa e negli Stati Uniti, rimodellando la politica mondiale e ridefinendo il concetto di attivismo.

Quelli che per convenzione sono definiti indignati ma che in realtà rappresentano un corpus politico abbastanza eterogeneo, hanno indubbiamente segnato a fondo gli eventi di quest'anno. Sono stati a manifestare nelle piazze delle città di decine di Paesi, hanno deposto tiranni e suscitato grandi speranze, hanno piantato le tende dinanzi ai luoghi di culto e ai centri della finanza delle metropoli statunitensi ed europee.

Perché stanchi di avere debiti che non hanno contratto. Perché sfiniti da una politica che si disinteressa della cosa pubblica e dei cittadini. Perché consapevoli di avere un'alternativa migliore al neoliberismo sfrenato che, pur avendo di fatto causato questa crisi, viene propinato e imposto come unica via di salvezza. Perché di nuovo consci che, se uniti, esiste sempre un'alternativa.

A far di nuovo convergere le masse ci ha pensato la rete, che grazie al boom dei social networks e dei social media ha documentato passo dopo passo tutte le proteste e gli inevitabili scontri, e soprattutto ha accolto e introiettato nuove pratiche di aggregazione civile. Se infatti fino a poco fa la rete veniva utilizzata nella sua esclusiva virtualità, ora il fenomeno del clicktivism - l'evoluzione digitale del volantinaggio e delle raccolte firme, concentrata più su un tema specifico che non su vere e proprie rivendicazioni politiche - ha lasciato nuovamente spazio al confronto nelle piazze.  I cittadini hanno smesso di essere internauti e si sono trasformati in manifestanti, hanno deciso di abbandonare le tastiere e i monitor per scendere di nuovo in strada e porsi attivamente in contrasto con le politiche socioeconomiche dei loro Paesi.

Certo tra la Primavera Araba e il movimento Occupy ci sono indubbie differenze, sia in termini di pratiche che di rivendicazioni, ma il dato di fatto incontrovertibile di questo 2011 è che dopo anni di assenza dal palcoscenico globale, i movimenti hanno fatto il loro prepotente ritorno nella politica.

In Medio Oriente i focolai di protesta contro la corruzione, il prezzo del pane e le continue violazioni di diritti civili si sono propagati velocemente dalla Tunisia all'Algeria e poi in Egitto, in Siria e in Libia, portando a vere e proprie rivoluzioni negli ordinamenti statali e scontando il prezzo di moltissimi martiri.

Per quanto riguarda il mondo occidentale, dalla battaglia di Seattle del '99 che diede l'avvio al movimento No Global, passando per quello No War del 2003 contro la guerra in Iraq, la figura del manifestante ha subito diverse trasformazioni, figlie dell'autocritica e dell'evolversi delle problematiche e oggi, di diverso rispetto ai movimenti degli anni zero, c'è la larga adesione. Una partecipazione che si distingue dai cicli di protesta precedenti e ha la sua principale causa nel depauperamento generalizzato che ha preso avvio con lo scoppio della bolla finanziaria americana nel 2008.

Già da allora in Italia gli studenti dell'Onda erano tornati numerosissimi nelle piazze, manifestando contro i tagli imposti alla scuola pubblica e contro la riforma dell'Università in senso privatistico; a tre anni di distanza hanno aggiustato il tiro ed ora il loro bersaglio sono le politiche di austerità prescritte per interposta persona dalla BCE e dal FMI. Dopo aver seguito le “acampadas” spagnole e l'evoluzione del movimento Occupy negli Stati Uniti, quest'autunno gli studenti italiani hanno messo in atto diverse manifestazioni, occupazioni e proteste per dimostrare che la democrazia diretta e la decisionalità orizzontale non sono fantapolitica se portate avanti da una moltitudine.

A fianco degli studenti, quest'anno si sono imposti anche i movimenti referendari, che nelle consultazioni dello scorso maggio sono riusciti a guadagnare un'affluenza record e una vittoria bulgara nel dire no al nucleare, alla privatizzazione delle risorse pubbliche e ai privilegi di un antagonista nel frattempo caduto.

Spiace infatti non poter dire che qui nel Belpaese, il Rais non è caduto per mano della popolazione o dell'opposizione alle Camere ma perché sfiduciato dai mercati internazionali che lo ritenevano incapace di imporre la mannaia fiscale necessaria a far quadrare i conti di Stato.

La manifestazione dello scorso 15 ottobre sarebbe dovuta servire quantomeno a dare uno scossone al morente governo Berlusconi, ma la totale mancanza di coordinamento tra le varie anime del movimento degli “indignados” e gli scontri che ne sono conseguiti, ha finito per far riflettere sul manicheo quanto sterile dualismo violenza/nonviolenza e non sulle reali ragioni della mobilitazione che ha portato 200.000 persone a Roma, prima fra tutte la precarizzazione esistenziale diffusasi tra amplissimi strati della società.

Citando assolutamente a sproposito la Pavone-Giamburrasca “La storia del passato ormai ce l'ha insegnato che un popolo affamato fa la rivoluzion” e ora, entrati nel XXI° secolo, ci si rende conto che nulla è cambiato, che come in un prolungato Medioevo sono ancora le popolazioni a pagare lo scotto dei propri sovrani e che forse è giunta l'ora tornare in piazza a riproporre un '48.

L’abbiamo visto a piazza Tahrir, l'abbiamo rivisto a Zuccotti Park e in piazza Syntagma: giovani, istruiti, abili col computer, internet e social media; stanchi di essere stoppati dal vecchio establishment, dalla corruzione di chi pare destinato a governare per diritto divino, dalla mancanza di prospettive. Queste persone, questi orgogliosi manifestanti, sono diventati dei protagonisti e, in un modo o nell'altro, cambieranno la nostra storia.

 

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