di Rosa Ana De Santis

Ci ricordiamo della guerra davanti alla tv, in qualche fotogramma e nella liturgia della commemorazione, quando familiari e politici aspettano sulla pista di Ciampino l’ultimo ragazzo caduto in missione o i feriti. Soltanto allora la guerra entra nelle nostre case, nel suo volto estremo e irrimediabile. Ed è lì che la glassa dell’eroismo, che non costa nulla alla politica, copre ogni dissenso e ogni domanda. Anche la più semplice sembra fuori posto e irrispettosa. Quei ragazzi sono morti e questo chiude ogni discorso. Ma quando quei soldati sopravvivono, quando quella guerra può parlare e raccontare tutto senza risparmiare dettagli, allora la storia è un’altra.

Si chiama sindrome post traumatica da stress (Ptsd). Ne soffrono carcerati, malati, clochard, ma soprattutto militari. La differenza tra la stima dei soldati colpiti da questa patologia in Europa e l’Italia è altissima e desta sospetti, per non parlare di quella altrettanto grande con gli Stati Uniti. Il tasso dei suicidi tra le truppe USA è altissimo e 1 soldato su 5 torna dall’Afghanistan e dall’Iraq con questi segni dentro.

Passiamo dal 4-5% di media dei contingenti europei a stime inesistenti nel caso delle truppe italiane. Su 150mila soldati impiegati all'estero solo 2/3 dei pochi casi rilevati all'anno risultano come diagnosi di Ptsd. Zero sul piano dei numeri e delle statistiche, fenomeno inesistente. Il dato è strano, sembra quasi che i nostri ragazzi, come recitava lo spot della Difesa, siano impegnati in guerre diverse, “intelligenti” direbbe qualcuno, dove l’orrore tradizionale sembra estinto. Come se i nostri soldati fossero al di fuori da tutto quello che accade nei teatri operativi. Forse le stime al ribasso servono proprio a questo, a convincere che lì dove vanno i nostri non ci siano carneficine, agguati, armi puntate, terrore.

Ma le testimonianze dei sopravvissuti rompono l’incantesimo e dicono tutto quello che non si vorrebbe sapere. Pietro Sini e Piero Follese, reduci di Nassiriya, in recenti testimonianze raccolte dalla stampa, raccontano di corpi smembrati, incastrati e squagliati sui blindati, raccolti in sacchi di spazzatura con cui sono state riempite le bare. Di compagni strappati al fuoco e portati a spalla in quell’inferno. Raccontano con il terrore di non essere creduti, così come per un tempo infinito non si è creduto alla loro sindrome. E soprattutto raccontano del silenzio in cui sono stati lasciati, per la colpa di essere vivi. Perché dei soldati con questi problemi sembrano meno eroi, meno degli altri, o semplicemente tolgono alla guerra la farsa della lontananza e della violenza light e restituiscono senza censure tutta la miseria bellica che nessun cittadino italiano vuole credere e che ogni deputato in aula preferisce negare.

In Italia si registrano una ventina di casi l’anno, una manciata, insignificanti sul piano statistico, di cui ancor meno quelli gravi: un dato che gli psichiatri che hanno seguito i vari reduci con disturbi considerano poco credibile. Il silenzio delle Forze Armate rimanda a due aspetti: uno attiene alla modalità con cui vengono gestiti questi casi, e prima ancora seguiti questi soldati, e una riguarda la diagnosi vera e propria.

Il Generale Michele Gigantino, per 10 anni a capo del Dipartimento di scienze psichiatriche e neurologiche al Celio, spiega la differenza con gli altri paesi appellandosi al merito dei comandanti italiani e a una qualità dei nostri militari in campo che ci distinguerebbe dal resto dell’Europa. E’ per questa ragione che i soldati che mostrano disturbi del comportamento e postumi da trauma sono allontanati? Perché sono considerati meno validi degli altri?

Sarebbe interessante capire però perché mai questi soldati dopo l’impegno nei teatri operativi non siano seguiti adeguatamente sul piano psicologico e soprattutto quale sia il percorso nelle singole Forze Armate che porta al riscontro della sindrome vera e propria. I soldati che rientrano mostrano - alcuni subito altri tardivamente - insonnia, depressione, irritabilità e isolamento. Leferite da esplosione o da arma da fuoco che hanno sul corpo sono niente al confronto del resto, di tutto quello che non si vede.

L’intervento da parte della task force di specialisti dovrebbe essere tempestivo per il recupero e la rielaborazione immediata dei ricordi traumatici. Se il primato da questo punto di vista spetta agli americani, anche le Forze Armate italiane hanno team cosiddetti Emdr (Eye Movement Desensitization and Reprocessing), eppure il rientro dei soldati e dei loro traumi viene spesso occultato e ridotto al silenzio. Molti di loro denunciano di esser stati abbandonati, isolati e non ascoltati, ridotti a pratiche e burocrazie, spesso anche rallentate e boicottate, allontanati dal linguaggio dell’eroismo e della patria.

Il problema è il congedo, la causa di servizio, la pensione? Oppure la paura è anche quella di restituire la guerra degli eroi alla sua spietata verità, dicendo finalmente a madri e padri dove stanno davvero i loro figli e cosa sono andati a fare laggiù? Le denunce dei sopravvissuti andranno dimostrate, ma non c’è dubbio che si fa fatica a credere che i nostri soldati facciano una guerra diversa da quella di tutti gli altri, com’è altrettanto vero che la loro testimonianza è stata finora cancellata dal romanzo delle missioni di pace.

Nemmeno i giornalisti inviati ne sono immuni. La paura che nasce dal trauma colpisce anche i reporter e gli inviati di guerra. Altra recente testimonianza é quella di Janine di Giovanni, inviata in tutti gli angoli del pianeta in guerra. E’ la nascita del figlio a scatenarle l’ansia e il terrore che ha covato dentro per anni e sarà proprio il figlio, crescendo, a guarirla.

Una generazione fa era la malattia del Vietnam, oggi è un disturbo psicologico acclarato che riguarda la guerra, ma non questa o quella. Ogni guerra, come dimensione esistenziale che prescinde dal paese e dall’uniforme, dagli obiettivi e dal tempo storico. La guerra che facciamo anche noi, mentre diciamo di portare la pace. La guerra, forse persino quella più giusta, che però ci vergogniamo anche solo di pronunciare.

Come se Nassiyria fosse stata un’esplosione su Marte o sulla Luna. Come se i sopravvissuti fossero visionari o peggio ancora delle mine vaganti. Persone fragili, ormai dai nervi in pezzi, o solo soldati che hanno fatto fino in fondo all’inferno tutto il loro dovere e che possono e forse vogliono raccontarlo tutto.

Perché chi non muore non ha tanto bisogno di sentirsi eroe, ma chiede di dare un senso alla disumanità della guerra, chiede di espiarla, di tirarla fuori dalle viscere per non essere più solo un sopravvissuto. Per tornare, in qualche modo, ad essere vivo.

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