di Rosa Ana De Santis

Le linee guida approvate in gran silenzio dall’ex Sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, rappresentano l’ennesimo, sonante schiaffo di una politica, impreparata e prepotente, alla vita dei cittadini italiani. Non a tutti, ma in particolar modo a quelli più svantaggiati e provati da deficit fisici. In aperta sfida al dettame della Corte Costituzionale e al conseguente deliberato dei tribunali, la legge 40 si ritrova provvista di un sistema di veti, il più pesante dei quali prevede l’esclusione delle coppie fertili portatrici di malattie genetiche, anche gravi, dalla legge imponendo loro il veto alla diagnosi pre-impianto sull’embrione che la legge invece, in alcun passaggio, proibisce espressamente. Lo stesso divieto vale per tutte quelle donne che fossero portatrici di patologie virali anche gravi.

Una sorta di penalizzazione a norma di legge per quanti già la natura, il caso o il fato ha svantaggiato. Eppure il sistema della legge e il significato profondo di quanti non credono alla teoria dello “stato minimo”, ma al valore imprescindibile del welfare dovrebbe essere proprio quello di colmare le differenze discriminanti che la casualità, senza ragione o meriti di sorta, ha assegnato alle persone.

Oltre a questo veto, che rappresenta certamente la traccia di una misura eugenetica (proprio quello spauracchio utilizzato in tanto dibattito retorico), finalizzata però a tutelare chi ha migliori condizioni fisiche e genetiche a scapito degli altri, si passa alla creazione di una sorta di registro di quanti accedono alla fecondazione assistita. Una schedatura dei pazienti che può rappresentare, soprattutto in questo clima culturale, una pericolosa minaccia alla privacy.

 L’ultimo colpo di coda di un governo in caduta libera è stata quella di sfidare la parola della Corte Costituzionale e quanto già era stato stabilito per tantissime coppie. Il limbo che ne ricaviamo oggi, come hanno già iniziato a denunciare moltissime associazioni - “Luca Coscioni” in testa - è quello di una legge che si ritrova a penalizzare le coppie portatrici di malattie come la fibrosi cistica o la talassemia, condannandole ad andare fuori dal paese, ma che nello stesso tempo può prevedere il non impianto simultaneo di tutti e tre gli embrioni fecondati.

E’ questa forse la prova più evidente che la mossa della Roccella è stata una prova di forza e non di ragionamento politico. La causa di un’incoerenza interna alla norma che rappresenta il degno prodotto di una politica che cerca di superare la legge, di piegarla ai propri fini, di sfidarla lasciando ai cittadini tutto l’onere dell’interpretazione o semplicemente tutta la disperazione di rinunciare o espatriare.

Il risultato immediato dell’eufemismo linguistico utilizzato per vanificare sostanzialmente la diagnosi pre-impianto è quella di negare qualsiasi atto possa impedire lo sviluppo dell’embrione. Un giro di parole per imporre l’orrore di impiantare un embrione malato per poi, magari, poter ricorrere alla legge 194 nei primi tre mesi o anche dopo, secondo la fattispecie dell’aborto terapeutico. Il veto della Roccella avrebbe più senso se in Italia non ci fosse la legge sull’aborto. Data questa condizione, infatti, qual è il senso morale, e in secondo ordine, economico, di imporre ad una donna questo percorso? Un accanimento emotivo e fisico oltre che uno spreco di denaro pubblico.

Se il Consiglio Superiore di Sanità approverà queste linee guida l’Italia sarà sempre più fuori dalle procedure del resto d’Europa con una discriminazione pesantissima dei cittadini portatori di malattie.
L’odiosità di un paese che infligge per legge una pena che la natura nemmeno sa di aver assegnato.

 

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