di Carlo Musilli

Mentre nelle procure italiane va in onda la tragicommedia dei tesorieri mano-lesta, i maggiori partiti cercano un accordo lampo per salvare faccia e portafogli. E' stata una Pasquetta di telefonate febbrili quella di Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini, ma alla fine l'accordo è arrivato. Entro domani i tecnici di Pdl, Pd e Terzo Polo metteranno a punto alcune "norme ugenti - come si legge in una nota dei berluscones - per il controllo e la trasparenza del finanziamento pubblico ai partiti". Dopo di che, "nella giornata di giovedì - prosegue la nota - le norme potranno essere presentate alle altre forze parlamentari per una comune valutazione". Si discuterà poi su quale sia "il percorso di approvazione più efficace e rapido".

Finora, i progetti in cantiere non prevedono affatto di ridurre l'entità dei finanziamenti, ma semplicemente di disciplinare le regole di democrazia interna ai partiti - dando finalmente attuazione all'articolo 49 della Costituzione - e di riformare i controlli, che probabilmente saranno affidati alla Corte dei Conti. Come corollario, dovrebbe arrivare anche una restrizione: i partiti potranno investire la loro liquidità solo in titoli di Stato italiani. Niente più traffici in Tanzania o a Cipro. Quasi certamente il nuovo provvedimento sarà discusso dalle commissioni "in sede legislativa".

Tecnicamente, questo vorrebbe dire saltare i passaggi alle Camere e arrivare all'approvazione in tempi record. Si fa per dire, visto che nel 1993 un referendum promosso dai Radicali stabilì che gli italiani chiedevano a gran voce la totale abolizione di questi finanziamenti. Il risultato di quella consultazione è stato vergognosamente ignorato per anni e, ad oggi, le proposte di legge paludate in Parlamento sono addirittura una quarantina (ma la maggior parte è arrivata dopo l'esplosione del caso Lusi).

Perché allora tanta fretta proprio adesso, dopo quasi un ventennio di melina? L'improvvisa solerzia è quantomeno sospetta. In realtà, l'unità d'intenti trovata dal trio ABC sembra avere un duplice scopo, quanto mai bipartisan: recuperare credibilità agli occhi degli elettori e allo stesso tempo evitare di ritrovarsi con meno soldi del previsto - o con troppi controlli - nei prossimi anni. Gli scandali legati alle gesta dell'ex tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, e al suo compare di marachelle leghista, Francesco Belsito, hanno creato grane in entrambi gli schieramenti. Si parla di un fiume di soldi pubblici usato allegramente per scopi personali, senza che nessun esponente delle varie formazioni abbia mai battuto ciglio. Un silenzio durato anni e che si può spiegare solo in due modi: disonestà o sprovvedutezza. In entrambi i casi sarebbe legittimo che i cittadini pretendessero un'epurazione trasversale in Parlamento.

E' vero, gli italiani sono un popolo dalla memoria corta, e in altre circostanze i partiti avrebbero potuto come sempre giocare la carta dello sdegno estemporaneo per poi piazzare la sconveniente riforma su un convenientissimo binario morto. Oggi però è diverso. Tra meno di un mese ci sono le amministrative, quindi al momento é nell'interesse di tutti fingersi profeti del rinnovamento, o meglio della "pulizia", per arrivare alle urne con qualcosa di concreto da sottoporre agli elettori. Vedremo se sarà solo un contentino; certo è che ora somiglia molto a una giustificazione firmata dalla mamma per non aver fatto i compiti a casa.

C'è poi un altro dato politico di cui tenere conto. In tempi di governo tecnico, i partiti non possono più permettersi il lusso di temporeggiare ulteriormente sulla riforma dei finanziamenti pubblici a loro destinati. Se non ci pensassero loro, dovrebbero farlo i beneamati bocconiani, che a loro volta hanno una credibilità da difendere. Difficile chiedere al Paese di sopportare le riforme lacrime e sangue varate negli ultimi mesi e poi chiudere gli occhi di fronte a una dispersione così svergognata dei soldi dello Stato.

Il ministro della Giustizia, Paola Severino, si era detta pronta "ad intervenire sul tema, fornendo il proprio contributo tecnico non appena il Parlamento e i presidenti di Camera e Senato lo avessero richiesto”. In questo caso però il provvedimento sarebbe arrivato attraverso l'ennesimo decreto o - peggio ancora, a livello d'immagine - mediante un emendamento al Ddl anticorruzione. I partiti avrebbero così dimostrato definitivamente la propria totale subalternità al governo dei professori. Ma, soprattutto, avrebbero consentito ai tecnici d'immischiarsi nei propri affari di cassa.

Una prospettiva inaccettabile, perché da questa nuova legge dipende la florida sopravvivenza della politica italiana nei prossimi anni, quando i rigidi montiani saranno solo un ricordo. Una pagina ingiallita e archiviata della nostra storia. Un po' come quella del referendum del '93.      

 

di Carlo Musilli

Da vigoroso profeta della secessione padana a mesto politicante. Uno dei tanti, beccato con le mani nella marmellata e costretto alle dimissioni. Nel perfetto stile della prima Repubblica. La parabola discendente di Umberto Bossi non poteva chiudersi in un modo più italiano di questo. Proprio lui, l'alfiere celtico del celodurismo leghista, che per vent'anni esatti ci ha assordato con i suoi vaniloqui insostenibili. Xenofobo, razzista, oggi reietto in casa propria.

E adesso? Che ne sarà della Lega? Per il momento le redini passano in mano a un triumvirato: Roberto Calderoli, Roberto Maroni e Manuela Dal Lago. Dopo di che le camicie verdi dovranno affrontare un problema rimandato ormai da troppo tempo, quello del congresso federale (l'ultimo risale al 2002).

I militanti lo chiedono da una vita, ma fin qui i membri del cerchio magico bossiano (Marco Reguzzoni e Rosy Mauro su tutti) sono stati abilissimi a dribblare la questione, per evitare di essere surclassati dall'esercito veneto dei maroniani. Ora però è stata pizzicata anche la buona Rosy, che ha intestato la sua casa in Sardegna al Sinpa, il sindacato leghista da lei diretto. Il cerchio magico non esiste più, la storia è cambiata.

Il congresso dovrebbe tenersi entro l'autunno e con ogni probabilità il futuro segretario sarà proprio Bobo Maroni, lo stesso che è stato insultato in via Bellerio all'urlo di "Giuda traditore!". Ci sono poi molti veneti maroniani che preferirebbero vedere seduto sullo scranno più alto del partito Luca Zaia, l'amatissimo sindaco di Verona. Tutto questo per dare un'idea di quanta coesione ci sia nel movimento leghista.

Prima di tutto, però, al congresso bisogna arrivarci. E non è detto che il triumvirato sia in grado di traghettare il partito così in là, evitando il naufragio. Anche perché fra un mese ci sono le amministrative (con sua maestà Tosi in lizza per la riconferma) e nel frattempo bisogna continuare a fingere di essere all'opposizione. Almeno nell'attaccare il governo Monti, sarà necessario trovare una linea unitaria.

Poi c'è il problema dell'amore-odio con il Pdl. La vera domanda politica che emerge dallo sfaldamento della Lega è questa: che fine farà la principale alleanza che negli ultimi decenni ha tenuto in piedi in centrodestra italiano? Allo stato attuale, il Terzo Polo diventa un alleato indispensabile per i berluscones. Allo stesso tempo Casini & Company potrebbero essere rinfrancati dalla deriva leghista e lasciarsi finalmente sedurre dalle sirene pidielline.

La sensazione è che un ciclo politico si sia chiuso: la Lega, se sopravviverà, non sarà più la stessa. E questo - almeno nello scacchiere parlamentare - è un cambiamento ancora più radicale di quello arrivato con le dimissioni di Berlusconi da presidente del Consiglio.

Il Cavaliere non è più nel cono di luce, ma dall'ombra muove ancora i fili del suo partito. O, per meglio dire, "è" ancora il suo partito, visto che si tratta di una formazione retta interamente dallo strapotere e dalla ricchezza del leader.

La stessa cosa una volta era valida anche per il Carroccio, almeno per quanto riguardava il carisma assoluto del padre-padrone. Da tempo Bossi non è più in questa posizione fra i suoi, e l'uscita di scena definiva è solo il sipario finale sull'ennesima tragicommedia italiana.

C'è da scommettere che Maroni, se e quando prenderà il posto del Senatùr, non sarà più disposto ad ascoltare la voce rauca del vecchio mentore (nonostante abbia garantito - con somma ipocrisia e forse un pizzico di scherno - che se Umberto si candidasse nuovamente come segretario lui sarebbe pronto a sostenerlo). Tutt'altra storia rispetto al rapporto di rigida subordinazione che lega Angelino Alfano all'ex premier.

Il dubbio però è che Bobo abbia aspettato troppo prima di presentarsi al varco della successione. Se avesse avuto un minimo di lungimiranza politica, Bossi si sarebbe ritirato quando ancora gli era possibile recitare la parte del barbaro duro e puro, simbolo del movimento e suo nume tutelare.

Se non l’ha fatto è stato per pura avidità: sua, del cerchio magico e della sua famiglia. Ingenuamente, è rimasto avvinghiato alla poltrona fino all'ultimo istante in cui gli è stato possibile, esattamente come avrebbero fatto i loschi figuri della "Roma ladrona" che ha vituperato per anni.

Ma ora che il leader fondatore viene archiviato nella vergogna dello scandalo, che credibilità rimane alla vecchia guardia per proporsi come nuova guida? Maroni e Calderoli dovranno sostenere di non aver mai saputo nulla di quello che accadeva in tesoreria. A quel punto però i loro elettori saranno indecisi se tacciarli di malafede o di semplice stupidità. Una terza opzione non è contemplabile. Fatte le debite proporzioni, è la stessa trappola in cui è caduto Francesco Rutelli dopo il caso Lusi. Il Pdl questo lo sa e farà di tutto per non farsi trascinare a fondo dai vecchi alleati.

Insomma, le dimissioni del Senatùr potrebbero essere ricordate come una svolta periodizzante nella politica italiana perché rischiano di provocare il riassetto di mezzo Parlamento in vista delle future elezioni politiche. La Lega potrebbe scomparire dai radar per colpa del suo leader padano, che alla fine si è dimostrato troppo italiano. Non un barbaro padano, ma un normale trafficone. Uno dei tanti.

 

 

di Fabrizio Casari

Francesco Belsito si chiama. L’uomo che dovrebbe assumere su di sé tutto l’onere della fine dell’onore leghista è l’ex tesoriere dei lumbard. Accusato di aver versato a più riprese denaro alla famiglia Bossi ed alla sua ombra storica Rosy Mauro, d’intrattenere rapporti con la ‘ndrangheta calabrese, il funzionario leghista è entrato nello stesso film noir di Lusi, l’altro esemplare che si vorrebbe solo a decidere cosa fare dei soldi del partito.

E così come Rutelli e soci si sono sperticati a dire che della movimentazione dei soldi di Lusi nulla sapevano, anche l’uomo della canottiera ha detto no: non centra niente lui con i soldi di Belsito. Né lui né il figlio, denominato “Trota” dal padre in omaggio alla fervida intelligenza di cui dispone. Lo stesso padre che si è perciò premunito di farlo eleggere dove possibile; non solo e non tanto per il proseguimento della stirpe, quanto perché preoccupato che dovesse vivere con le competenze delle quali dispone.

Come uno Scajola qualsiasi, anche Umberto Bossi dice che la ristrutturazione della villa di Gemonio è stata fatta a sua insaputa. Un male ormai classico della politica italiana. Del resto succede sempre così: uno non fa a tempo ad allontanarsi un attimo da casa che qualcuno - gratuitamente e a sua insaputa - gliela ristruttura o, addirittura, gliela compra nuova. Quanti di noi si sono trovati alle prese con questo inconveniente, con questa cattiva comunicazione che scambia il mandato ad annaffiare le piante e a raccogliere la posta con la ristrutturazione della casa?

Insomma è tutta colpa di Francesco Belsito. Che ha dimostrato fantasia imprenditoriale discutibile, come quando investiva milioni di euro in Tanzania e a Cipro e pare mostrare risentimento personale per essere stato messo in disparte dall’Umberto, al quale - sembra- offriva ogni forma di sostegno economico a lui e famiglia per ingraziarselo e tornare in auge nel partito. E allora, secondo l'accusa, via con il denaro per la scuola della moglie, la baby pensionata Manuela Marrone; quindi quello per aiutare il Trota a prendere uno straccio di diploma che, non riuscendo a raggiungere come gli altri milioni di studenti, diversamente sarebbe diventato richiedibile solo per anzianità; e poi le multe di Riccardo Bossi, l’altro figlio, i lavori di casa paterna e persino la sistemazione dei conti di Rosy Mauro, che d’influenza sul capo, com’è noto, ne ha sempre avuta molta. Era questo il cerchio magico?

E nelle indagini degli inquirenti viene coinvolta anche Nadia Dagrada, la segretaria del Senatur. Prima intercettata, poi perquisita e quindi interrogata, la signora pare si lamentasse molto della stravagante famiglia Bossi. Al pm Henry John Woodcock, in nove ore d’interrogatorio ha lasciato intendere di voler dire tutto quello che sa. E se nelle intercettazioni telefoniche non era tenera con i familiari di Bossi, anche nell’interrogatorio avrebbe tenuto il punto: Belsito apriva i cordoni della borsa del partito per ingraziarsi il suo leader. Ma, secondo quello che avrebbe detto la segretaria amministrativa della Lega, mentre Umberto Bossi è sempre stato disinteressato al denaro e ai favori, i figli se ne sarebbero un po’ approfittati.

Le indagini chiariranno ruoli e responsabilità per tutti i protagonisti, mentre i leghisti riuniti sotto Via Bellerio sono in bilico tra rabbia e incredulità, suggestione di complotti e opportunità politica per la resa dei conti interna. Ma avvertono tutti,leghisti e non, che sulla faccia di Francesco Belsito, sulle sue spericolate operazioni e pessime amicizie, così come sulla tempesta che ha investito la famiglia Bossi, finisce la storia breve e nient'affatto gloriosa della Lega.

Era il partito del “celodurismo”, quello dei cappi sventolati in Parlamento, della diversità padana, dell’inflessibilità xenofoba, della secessione burletta e della rivolta fiscale, della Padania onirica e degli sghei, che teneva insieme la Vandea e miss Padania. Ora si scopre invece un altro volto: quello del maneggio del denaro senza guardare troppo per il sottile, che assegna posti nelle banche e nelle fondazioni, negli enti di ogni titolo e grado, che sforna mazzette e ristruttura le case del boss a spese dei contribuenti, che tratta volentieri con i meridionali ma solo se appartenenti alla ‘ndrangheta, che spernacchia la bandiera e mostra il dito medio al paese. Un ricettacolo di furbetti padani beccati con le dita nella casuela. Sarà colpa di Roma ladrona se l’ampolla del Po tracima acqua sporca?

di Mariavittoria Orsolato

La TAV e i No Tav continuano a fare notizia, anche loro malgrado. Nella notte tra domenica e lunedì scorsi due centraline di smistamento sulla linea ferroviaria fra Rogoredo e Lambrate, nei pressi di Milano, hanno preso fuoco paralizzando per l'intera mattinata il traffico ferroviario. Su una delle centraline scampate alle fiamme campeggiava una scritta No Tav e tanto è bastato agli inquirenti e alla stampa per additare la “frangia anarco-insurrezionalista del movimento” come probabilissima responsabile.

Lo scorso 27 marzo, invece, un gruppo di attivisti No Tav appartenenti al centro sociale “Il Cantiere” ha simbolicamente occupato la sala Alessi del Comune di Milano per contestare il procuratore Caselli, presente in qualità di ospite in un convegno che poi si è regolarmente svolto.

Inutile enumerare le lenzuolate d'inchiostro sprecate per dipingere i No Tav come novelli squadristi/terroristi. E inutile dire che le loro ragioni vengono accantonate per spingere sull'acceleratore emozionale del binomio violenza/non violenza che, rendendo la questione inevitabilmente manichea, impedisce quello stesso dialogo tanto invocato dalle istituzioni.

Eppure, se la protesta contro l'Alta Velocità è sempre stata strenua, qualche buon motivo ci sarà e l'ingegner Mario Cavargna, Presidente di Pro Natura Piemonte, è arrivato ad elencarne addirittura 150. In questa sede andremo ad analizzare quello che più di tutti preoccupa gli abitanti della Valsusa: parliamo dei gravissimi pericoli per la salute degli abitanti della valle, quelli che deriverebbero dalla perforazione della montagna, dalle polveri tossiche in essa contenute e in generale dai cantieri.

Nel 2006, 103 medici sensibili alla causa No Tav hanno pubblicato un appello in cui si esprimevano forti preoccupazioni per la salute della popolazione connesse con la messa in opera dell'Alta Velocità. Lo stesso Studio di Via presentato da Lyon-Turin Ferroviaire ha calcolato un incremento del 10% nell’incidenza di malattie respiratorie e cardiovascolari a causa dei livelli di polveri sottili prodotte dai cantieri e, in base alle statistiche attuali, questo aumento corrisponderebbe a 20 morti in piu? all’anno.

Le polveri sottili PM 10, cui vanno aggiunte le polveri sottilissime PM 5 e PM 2.5, fanno parte dell’aerosol che respiriamo e che colpisce soprattutto le fasce piu? deboli della popolazione come gli anziani, i malati di patologie cardiache o respiratorie ed i bambini, che sono particolarmente sensibili in quanto le capacita? di difesa dalle aggressioni ambientali sono ancora parzialmente immature. Gli effetti delle polveri sottili o sottilissime possono favorire la comparsa o la riacutizzazione di patologie respiratorie croniche e di quelle cardiovascolari - come infarti e trombosi - e sono purtroppo una novita? nella valutazione dei danni per la salute provocati dai cantieri.

Ma quello che più spaventa gli abitanti della valle è la perforazione della montagna, ormai decisa con il via libera ai lavori del progetto low-cost che, è bene ricordarlo, partirà proprio con l'escavazione della galleria di base. Le splendide alture che abbracciano la Valsusa sono infatti cariche di amianto e uranio: la particolare pericolosita? di questi minerali e? data dall'emissione di raggi radioattivi alfa e beta, poco penetranti e quindi poco rilevabili, ma molto piu? distruttivi quando, sotto forma di polvere, arrivano a contatto con la pelle e le mucose.

Il problema dell’amianto e? però stato accantonato e spesso minimizzato dalle istituzioni, ammettendo la presenza di giacimenti solo per i primi 500 metri, nella zona di Mompantero, dove per anni LTF ha negato che si potessero trovare rocce amiantifere. La loro presenza e? particolarmente massiccia in bassa valle, ma anche in alta valle le rilevazioni hanno accertato i rischi: basti ricordare che fu proprio a causa della presenza di amianto che l’impianto olimpico di bob fu spostato da Sauze d’Oulx a Cesana, e che la presenza di queste rocce sta bloccando e ritardando da anni i lavori della circonvallazione di Claviere.

Esiste poi uno studio (commissionato dalla stessa società incaricata di costruire la parte italiana della nuova linea ferroviaria, la RFI) svolto dall'Università di Siena, che riferisce chiaramente la presenza di fibra di amianto nei tratti interessati dai lavori infrastrutturali. Ad esporsi in prima linea, a sostegno della protesta dei No Tav, è stato anche lo specialista oncologo Edoardo Gays dell'ospedale San Luigi di Orbassano, che già nel 2004 descriveva la pericolosità dell'amianto presente nelle montagne che verrebbero attraversate dalle gallerie: “Da detto studio (quello svolto dall'Università di Siena n.d.a.) si conferma la presenza di amianto in varietà e forme diverse nell’ammasso roccioso presente lungo il percorso progettato per il potenziamento della linea ferroviaria Bussoleno - Torino nell’ambito del cosiddetto treno ad alta capacità/velocità. Per la realizzazione delle gallerie previste per oltre 23 chilometri, il volume dei materiali contenenti amianto da scavare prima, movimentare poi e infine stoccare è stato stimato in oltre un milione di metri cubi (1.152.000), volumi peraltro passibili di aumenti anche significativi”.

Le misure di cautela e di smaltimento per l’amianto proposte da LTF mostrano poi un problema ancora irrisolto. Dire che lo smarino contaminato da amianto verrà chiuso in sacchi e spedito in Germania, significa non rendersi conto che anche solo 500 metri di tunnel di base corrispondono a 170.000 metri cubi, pari al carico di 17.000 TIR. Il trattamento con l’acqua - proposto per ovviare al rischio di diffusione - lega solo momentaneamente la parte piu? fine delle polveri, ma poi la libera o la deposita con sorprendente facilita?, soprattutto nella percolazione alla base dei mucchi: da qui il vento la sposta ovunque.

Anche le mineralizzazioni di uranio sono una realta?: il problema era stato rilevato già nel 1998 dalle associazioni ambientaliste, ma LTF ed i suoi consulenti lo avevano lungamente negato. Nell’attuale studio di VIA per il tunnel di base non se ne parla nemmeno. Eppure il gruppo dell’Ambin - la formazione alpina che abbraccia la Valsusa e che sara? attraversata dalle gallerie - e? stato oggetto di fruttuose ricerche da parte francese nel 1980 con la Minatome, da parte italiana nel 1959 con la Somiren e nel 1977 con l’Agip Mineraria. Su entrambi i versanti si e? ipotizzato un suo sfruttamento. Allo stato attuale dei rilevamenti in Valsusa ci sono ben 28 aree nelle quali i filoni di uranio vengono in superficie. Sono sparsi un po’ ovunque e non è vero, come affermato da LTF, che con la nuova modifica del progetto i tratti a rischio contaminazione verranno evitati.

Lo scorso 4 marzo un team capitanato dall'ingegner Massimo Zucchetti, professore ordinario del Dipartimento per l'energia del Politecnico di Torino, ha effettuato una spedizione all'interno della miniera di uranio di Giaglione-Venaus, a pochi kilometri dal cantiere geognostico della Maddalena. Armati di tre diversi rilevatori di radiazioni, hanno constatato e dimostrato che il pericolo radioattivo non è una delle tante velleità dei No Tav ma un rischio purtroppo realissimo. Se la soglia di sicurezza si aggira intorno ai 400 colpi al secondo, già nel centro abitato di Giaglione hanno rilevato 550 colpi/secondo; davanti all’ingresso della miniera il contatore è subito salito a 1500,  mentre dentro la miniera è schizzato a 7000, ovvero 20 volte la misura di tolleranza.

Date queste evidenze, sembra ormai ovvio che non appena cominceranno il lavori di trivellazione si sprigioneranno polveri potenzialmente letali. Per i pochi che ancora non lo sapessero, l’esposizione all’amianto - anche non legato ad attività lavorativa - può causare gravissime patologie, tra cui il mesotelioma, una malattia tumorale maligna in grado di stroncare nel giro di 275 giorni. L’uranio invece, se inalato o ingerito, provoca contaminazione interna e puo? essere causa di linfomi. Un famoso studio dell’Istituto Superiore di Sanita? ha evidenziato un incremento di linfomi di Hodgkin nei militari impiegati in “missione di pace” nei Balcani ed esposti all’uranio impoverito: ben il 236% in piu? rispetto alla popolazione non esposta. E l’uranio che potrebbe sprigionarsi in Valsusa e? notevolmente piu? radioattivo di quello impoverito a fini bellici.

Il movimento No Tav è spesso tacciato di misoneismo, di prepotenza, di aver strizzato l'occhio alle componenti più violente dell'antagonismo italiano. Ma nel momento in cui ci sono prove provate che un'opera pubblica dalla dubbia funzionalità potrebbe mettere a rischio la salute o, addirittura, la vita delle persone che ne abitano il territorio, si tratta soprattutto di istinto di sopravvivenza. Un istinto atavico che nessuna chiacchiera tecnica o imposizione dall'alto può sopire, che non si ferma di fronte alle forze dell'ordine e porta fisiologicamente a combattere, a resistere. Di questo, almeno, i No Tav chiedono di prendere atto.

 

di Vincenzo Maddaloni

La bandiera che sventola, come al solito, è quella del “pluralismo” tradito. Ne è stata l’occasione più recente la chiusura del quotidiano Il Riformista che sabato scorso ha sospeso le pubblicazioni e affidato l’amministrazione della cooperativa a un liquidatore. Com’era nelle previsioni, poiché da diverse settimane si parlava dei problemi economici del quotidiano diretto da Emanuele Macaluso, sebbene negli ultimi giorni era sembrato che i nuovi fondi pubblici per l’editoria potessero evitarne la chiusura, ma anche questi si sono poi rivelati insufficienti alla sopravvivenza giornale.

Per dovere di cronaca, il pluralismo anche quest’anno è stato contrattato col potere politico con dei risultati per niente male, se si tiene a mente il rigorismo conclamato dal governo Monti. Infatti ben centoventi milioni di euro finanzieranno il fondo per l’editoria. Dovevano essere quarantasette, ma pressioni assai autorevoli hanno portato l’elargizione a ben più del doppio, senza che nemmeno il governo dei tecnici abbia preso sul serio l’esigenza di ristrutturare seriamente un’industria che, per pareggiare i bilanci, si serve dei soldi dei contribuenti.

Quei centoventi milioni diventano poi un fatto davvero irritante se si pensa che la prima cosa che andrebbe fatt dopo i rincari, sarebbe alleggerire il carico fiscale sui lavoratori, le famiglie, le imprese e i consumatori, cioè sui più penalizzati dalle conseguenze della crisi. Dopo tutto quale pluralismo nell’informazione potrebbe garantire chi, di anno in anno, deve contrattare col potere politico una “donazione” che pareggi i suoi bilanci?  Inoltre, rivolgendosi prevalentemente a una categoria di addetti ai lavori come i militanti del ceto politico, di solito questi giornali affrontano argomenti che non rientrano negli interessi più immediati dei lettori “comuni”, pertanto questa loro scontata peculiarità li rende particolarmente deboli anche sotto il profilo diffusionale e pubblicitario. In altre parole, per ogni copia venduta ai lettori di un quotidiano politico, ce ne sono tra le sette e le nove che tornano indietro.

Spiega il quotidiano online www.lavoce.info: «È utile interrogarsi sulle condizioni di sopravvivenza e sulle modalità del sostegno pubblico, anche se per molte testate esistono pochi dati  affidabili. Solo per Avvenire, Libero, Il Manifesto e l’Unità sono disponibili dati di dettaglio Ads, l'associazione che certifica i numeri sulla diffusione e sulla tiratura dei quotidiani. Dal 2007, Il Manifesto e l’Unità hanno avuto livelli di resa, la differenza tra copie tirate e vendute in rapporto alle copie tirate, rispettivamente del 60 e del 7 3 per cento. L’Avvenire apparentemente restituisce meno copie, ma se si tolgono i 70mila abbonamenti, la resa sale al 56 per cento. Per Liberazione e Il Secolo d’Italia (dati Fieg dai bilanci) le vendite risultano rispettivamente di 8mila e 3mila copie giornaliere, mentre le rese sono in ambedue i casi dell’87 per cento.

«A titolo di confronto - ricorda infine www.lavoce.it, - le prime tre testate nazionali hanno una resa del 21,9 per cento, mentre i quotidiani Ads tra le 20mila e le 50mila copie vendute giornaliere arrivano al 22,1 per cento.

E le stesse diseconomie dei quotidiani politici si ritrovano in altre testate più grandi, ma con una scarsa base territoriale, come Libero o Il Giornale che hanno rese del 49 e del 42 per cento, più che doppie dunque rispetto agli standard.». All’elenco vi aggiungerei anche Il Foglio Quotidiano - resa accertata dell’87 per cento - diretto da Giuliano Ferrara perché Il Foglio è organo della Convenzione per la Giustizia, movimento politico (di fatto inesistente). In questo modo può beneficiare dei finanziamenti pubblici all'editoria (nel caso specifico di 0,70 centesimi per ogni copia stampata).

In questo scenario tipicamente italiano e che non trova riscontro in alcuna altra parte d’Europa, non si capisce perché questi fondi vadano sempre a beneficio di chi già esiste e molto difficilmente a sostegno di nuove realtà editoriali: magari anche online che ritengano di farvi ricorso.

Tuttavia quel che più irrita è che nell’epoca del rigore obbligato e tante volte declamato dal governo di Mario Monti, ci troviamo di fronte a un tale spreco (ripeto: per ogni copia venduta di un quotidiano politico, ce ne sono tra le sette e le nove che tornano indietro) che rende ancora più contradditorio - e perciò più amaro - l’appuntamento col sacrifico che Monti impone come realtà quotidiana.

Dopotutto in una realtà come questa - ripeto, soltanto italiana - quella che nella prassi è definita la categoria dei giornalisti cessa di esserla ogni giorno che passa. Poiché la definizione di una identità professionale, come quella dei giornalisti appunto, rischia di diventare soltanto soggettiva e quindi doppiamente relativa.

Ormai è giornalista chi si qualifica come tale, e chi riceve dalla società dei lettori il diritto a qualificarsi così. Infatti, una vicenda penosa come questa delle “donazioni” fa crescere in maniera esponenziale la distanza tra chi si crede un giornalista “al di sopra dei fatti” e ciò che pensa di lui la società dei lettori, soprattutto quando a rappresentarlo è uno dei sessantaquattro e passa direttori di giornali di partito.

Siccome gli editori (delle testate sovvenzionate dalla Stato, ma anche di quelle non sovvenzionate) in perenne conflitto con i bilanci deficitari chiedono meno professionismo e più precariato, lo scenario che si va concretizzando, giorno dopo giorno, è quello di schiere di ragazzi e di ragazze che tagliano, incollano e pubblicano le notizie proposte dalle agenzie d’informazione, senza poterle indagare alla fonte.

Il tutto supportato da una gestione accorta delle voci autorevoli raccolte su piazza, nelle sedi dei partiti, negli uffici delle lobby finanziarie - le voci degli editorialisti e dei commentatori - da cui, di volta in volta, si può ottenere tutto e il contrario di tutto, considerato che diminuiscono per cause naturali coloro che hanno fatto la Resistenza ed è rimasta soltanto la CGIL a metterla giù dura ogni qual volta si tenta di stravolgere i principi della Costituzione.

Se questa è la realtà dei fatti, allora sarebbe urgente tenere desta l’attenzione su ogni singolo fatto che la compone e della quale gli sprechi ne fanno parte. Non soltanto perché il giornalismo si ricongiunga alla verità, ma perché - governo dei tecnici consentendo - la politica cominci a sprovincializzarsi. Avremmo tutti da guadagnarne. Sebbene pare che non ce ne sia la voglia, perché è più redditizio in termine di consenso, sprecare.

www.vincenzomaddaloni.it


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