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di Carlo Musilli
Dicono di aver fatto "pulizia", ma la maggior parte della sporcizia padana è ancora sotto il tappeto. Dopo lo scandalo dei rimborsi elettorali usati come cassa comune - su cui indagano tre procure - ieri il consiglio federale della Lega ha espulso dal partito Rosy Mauro e l'ex tesoriere Francesco Belsito. Nessun provvedimento, invece, contro Renzo Bossi: le sue dimissioni da consigliere regionale della Lombardia sono state ritenute un'ammenda sufficiente.
In questo si è risolta l'opera di rinnovamento che Roberto Maroni aveva annunciato con roboante retorica martedì sera dal palco di Bergamo. Davvero poco per essere anche minimamente credibile. Le ramazze celtiche hanno spazzato via soltanto i due soggetti che meglio degli altri si prestavano a fare da capro espiatorio. I due più odiati dalla base, tanto più che non si tratta nemmeno di padani doc (Belsito è ligure, Mauro addirittura una "terrona" pugliese).
Il gota del Carroccio non ha avuto nemmeno il coraggio di cacciare con disonore il Trota, che pure ha fatto di tutto per meritare l'esilio perpetuo dai verdi pascoli leghisti. L'Italia intera ha visto in televisione lo sprovveduto figlio del Capo intascare una squallida mazzetta dalle mani del suo autista. Ma non è stato sufficiente. Evidentemente, le regole del nepotismo rimangono valide anche di fronte alla miseria più manifesta.
In realtà, che quella dei leghisti non sarebbe stata una vera "pulizia" - come amano chiamarla - lo si era capito già dall'arringa bergamasca di Maroni. Da giorni l'astuto Bobo cerca di costruire intorno a Bossi senior l'immagine del vecchio infermo traviato dai suoi stessi cari.
La favoletta risponde a un evidente calcolo politico: per impugnare il manubrio del Carroccio e avere una qualche speranza di tenere insieme un partito ridotto a brandelli, Maroni non deve arrivare allo scontro frontale col Senatùr, che per vent'anni è stato il simbolo vivente dell'intera baracca. Umberto è già sconfitto, ora è sufficiente che si eclissi lentamente, senza dare troppo fastidio. Gli viene data l'occasione di andarsene come il Cesare padano tradito all'ultimo dai fedelissimi.
Peccato che contro questa visione dei fatti esista una vera orgia di prove. A cominciare dalla sinistra cartellina con la scritta "The Family" sequestrata dagli investigatori nell'ufficio di Belsito. Al suo interno c'era un carnet di assegni con impresso a chiare lettere il nome "Umberto Bossi". Sono state ritrovate perfino delle ricevute. Ma non basta. In una telefonata intercettata l'ex tesoriere sostiene che il Senatùr e l'ex ministro Giulio Tremonti erano assolutamente d'accordo con l'esportazione dei capitali leghisti in Tanzania.
E' ovvio che saranno i magistrati a stabilire chi siano i colpevoli in tutta questa vicenda. Ma è davvero sostenibile che Bossi, e insieme a lui tutti i vertici della Lega, non sapessero nulla di come venivano gestiti i soldi del partito? Certo che no. Tanto è vero che la Procura di Milano sta compiendo degli accertamenti anche sulla posizione di Roberto Calderoli, oggi uno dei triumviri alla guida del Carroccio. Intanto, dall'altro capo della penisola, i Pm di Reggio Calabria - in relazione all'intercettazione di una telefonata fra Belsito e l'imprenditore Stefano Bonet - parlano addirittura di un "sistema contaminato di malaffare a cui si alimentavano poteri istituzionali, politici e dell'economia". Altro che Rosy "la Nera" e il panciuto genovese.
E' su questo filo sottilissimo fatto di bugie, ingenuità e populismo che si tiene in piedi la credibilità di Maroni. Fin qui, bisogna dirlo, quella di Bobo è stata una vittoria politica su tutta la linea. Martedì sera l'ex ministro degli Interni si era esposto enormemente sulla questione della "badante" Mauro: "Se non si dimette, la dimetteremo noi", aveva detto.
Dopo quelle parole qualsiasi soluzione diversa dall'espulsione avrebbe irrimediabilmente compromesso sul nascere la leadership di Maroni. Alla fine la radiazione è arrivata, ma non per le accuse mosse dai magistrati, bensì perché "la Nera" non ha obbedito all'ordine di abbandonare la poltrona di vice presidente del Senato. Viene da chiedersi come sarebbe andata a finire se Rosy avesse seguito l'esempio più avveduto del Trota.
Sembra addirittura che durante la riunione di ieri, per mantenere la promessa fatta alla base, Maroni abbia messo i suoi colleghi di fronte a un aut-aut: o me, o lei. Ha giocato con aggressività, ha vinto e ormai è certo di essere nominato segretario. La corona gli sarà posta sul capo dopo il 30 giugno, data in cui si terrà un nuovo consiglio federale. I militanti sono già pronti ad acclamare il nuovo sovrano. Sempre che nel frattempo non gli capiti di leggere un giornale e di fare due più due.
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di Mariavittoria Orsolato
La cuccagna del digitale è finita: niente più frequenze gratuite per le emittenti televisive e soprattutto niente più beauty contest. Lo ha annunciato ieri a Repubblica il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, sottolineando che i multiplex per la trasmissione in digitale andranno all'asta e saranno venduti a pacchetto. Finalmente al migliore offerente e non ai soliti noti.
Una notizia che non giunge del tutto inaspettata. Lo scorso dicembre, a ridosso dell'insediamento del nuovo governo tecnico, la Femi (Federazione dei media digitali indipendenti) ed Altroconsumo avevano mandato una lettera di diffida proprio a Passera, ricordandogli che il sistema dell'asta avrebbe fruttato alle casse statali diversi miliardi di euro. La diffida - predisposta dagli avvocati Guido Scorza, Carmelo Giurdanella, Elio Guarnaccia, Dario Reccia e Francesca Bilardo - era stata notificata anche alla Commissione Europea, all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, all’Autorità Garante della concorrenza e del Mercato ed all’Autorità per la Vigilanza sui Contratti Pubblici, invitandole ad esercitare i poteri di controllo e di vigilanza di propria competenza.Cosi, a nove giorni dalla scadenza della “pausa di riflessione” che il governo Monti si era preso per esaminare il meccanismo d'assegnazione escogitato pro domo Berlusconi, Passera si è infine deciso a decretare la morte del beauty contest, individuando il percorso per assegnare i multiplex di frequenza. ''La prossima asta - spiega - sarà fatta di pacchetti di frequenze con durate verosimilmente diverse'' e una delle ipotesi è che la banda larga 700 (2 o 3 multiplex dei 6 totali in palio) venga aggiudicata per un periodo di tre anni, da qui al 2015, quando è previsto lo spostamento di reti dalle tv all'accesso a Internet. Il resto dei multiplex dovrebbe poi essere assegnato per un periodo più lungo a imprese puramente televisive.
La nuova linea decisa dall'esecutivo Monti dovrà passare il vaglio dei partiti ma dal momento che già a dicembre Partito Democratico, Italia dei Valori e Lega Nord avevano presentato ordini del giorno alla manovra presentati che chiedevano esplicitamente di annullare il beauty contest indetto dal precedente esecutivo (e avallato dall'Agcom), l'unico vero ostacolo alle Camere potrebbe essere rappresentato dal Pdl di Berlusconi.
Con la svolta decisa da Passera, il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri pensa già a contrattare la diminuzione del canone per le frequenze che, sulla base del fatturato, costa all’azienda 32 milioni l’anno. Mediaset chiede infatti un cambiamento dei relativi criteri di calcolo e non è escluso che possa partecipare all’asta della banda larga, arrivando così a un risparmio di 96 milioni di euro in 3 anni. Se questa sarà l'ennesimo esempio di do ut des all'italiana, ce lo diranno il tempo e le votazioni alle Camere.
A dare il via libera definitivo al nuovo corso saranno comunque le autorità europee: dall'annosa querelle tra Rete4 e Europa7, Bruxelles tiene d'occhio il mercato televisivo nostrano e ribadisce a suon di multe la necessità di intervenire in direzione di una maggiore concorrenza. Già oggi il commissario per l'Agenda Digitale Neelie Kroes sarà a Roma per discutere delle nuove strategie coi ministri Profumo e Passera, e avrà sicuramente modo per dire la sua sulla nuova procedura di assegnazione. Anche in materia di telecomunicazioni, dunque, il suggello dell'Unione Europea è condizione necessaria per procedere.Per quanto riguarda i tempi, si parla di prima dell'estate, per ciò che concerne la definizione delle caratteristiche dell'asta da parte dell'Autorità competente. Secondo Mediobanca, nelle casse dello Stato potrebbero entrare 1-1,2 miliardi di euro, mentre le stime precedenti si aggiravano intorno ai 2,4 miliardi.
A fare la differenza sarà sicuramente la base d'asta. Altra variabile interessante è la partecipazione di Sky: la pay tv si era chiamata fuori dal beauty contest, lamentando una gestione poco chiara della faccenda, ma giunti a questo punto il network di Murdoch potrebbe rientrare in gioco.
L'odissea delle frequenze tv pare dunque essere giunta al suo tanto sospirato epilogo. La vecchia procedura del beauty contest - un regalo da quasi due miliardi di euro che l'arbitro Berlusconi ha deciso di elargire a se stesso poco prima dell'allontanamento coatto dal palazzo e in barba al disperato bisogno di liquidità delle casse statali - può definirsi definitivamente archiviata.
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di Carlo Musilli
Mentre nelle procure italiane va in onda la tragicommedia dei tesorieri mano-lesta, i maggiori partiti cercano un accordo lampo per salvare faccia e portafogli. E' stata una Pasquetta di telefonate febbrili quella di Angelino Alfano, Pier Luigi Bersani e Pier Ferdinando Casini, ma alla fine l'accordo è arrivato. Entro domani i tecnici di Pdl, Pd e Terzo Polo metteranno a punto alcune "norme ugenti - come si legge in una nota dei berluscones - per il controllo e la trasparenza del finanziamento pubblico ai partiti". Dopo di che, "nella giornata di giovedì - prosegue la nota - le norme potranno essere presentate alle altre forze parlamentari per una comune valutazione". Si discuterà poi su quale sia "il percorso di approvazione più efficace e rapido".
Finora, i progetti in cantiere non prevedono affatto di ridurre l'entità dei finanziamenti, ma semplicemente di disciplinare le regole di democrazia interna ai partiti - dando finalmente attuazione all'articolo 49 della Costituzione - e di riformare i controlli, che probabilmente saranno affidati alla Corte dei Conti. Come corollario, dovrebbe arrivare anche una restrizione: i partiti potranno investire la loro liquidità solo in titoli di Stato italiani. Niente più traffici in Tanzania o a Cipro. Quasi certamente il nuovo provvedimento sarà discusso dalle commissioni "in sede legislativa".
Tecnicamente, questo vorrebbe dire saltare i passaggi alle Camere e arrivare all'approvazione in tempi record. Si fa per dire, visto che nel 1993 un referendum promosso dai Radicali stabilì che gli italiani chiedevano a gran voce la totale abolizione di questi finanziamenti. Il risultato di quella consultazione è stato vergognosamente ignorato per anni e, ad oggi, le proposte di legge paludate in Parlamento sono addirittura una quarantina (ma la maggior parte è arrivata dopo l'esplosione del caso Lusi).
Perché allora tanta fretta proprio adesso, dopo quasi un ventennio di melina? L'improvvisa solerzia è quantomeno sospetta. In realtà, l'unità d'intenti trovata dal trio ABC sembra avere un duplice scopo, quanto mai bipartisan: recuperare credibilità agli occhi degli elettori e allo stesso tempo evitare di ritrovarsi con meno soldi del previsto - o con troppi controlli - nei prossimi anni. Gli scandali legati alle gesta dell'ex tesoriere della Margherita, Luigi Lusi, e al suo compare di marachelle leghista, Francesco Belsito, hanno creato grane in entrambi gli schieramenti. Si parla di un fiume di soldi pubblici usato allegramente per scopi personali, senza che nessun esponente delle varie formazioni abbia mai battuto ciglio. Un silenzio durato anni e che si può spiegare solo in due modi: disonestà o sprovvedutezza. In entrambi i casi sarebbe legittimo che i cittadini pretendessero un'epurazione trasversale in Parlamento.
E' vero, gli italiani sono un popolo dalla memoria corta, e in altre circostanze i partiti avrebbero potuto come sempre giocare la carta dello sdegno estemporaneo per poi piazzare la sconveniente riforma su un convenientissimo binario morto. Oggi però è diverso. Tra meno di un mese ci sono le amministrative, quindi al momento é nell'interesse di tutti fingersi profeti del rinnovamento, o meglio della "pulizia", per arrivare alle urne con qualcosa di concreto da sottoporre agli elettori. Vedremo se sarà solo un contentino; certo è che ora somiglia molto a una giustificazione firmata dalla mamma per non aver fatto i compiti a casa.
C'è poi un altro dato politico di cui tenere conto. In tempi di governo tecnico, i partiti non possono più permettersi il lusso di temporeggiare ulteriormente sulla riforma dei finanziamenti pubblici a loro destinati. Se non ci pensassero loro, dovrebbero farlo i beneamati bocconiani, che a loro volta hanno una credibilità da difendere. Difficile chiedere al Paese di sopportare le riforme lacrime e sangue varate negli ultimi mesi e poi chiudere gli occhi di fronte a una dispersione così svergognata dei soldi dello Stato.
Il ministro della Giustizia, Paola Severino, si era detta pronta "ad intervenire sul tema, fornendo il proprio contributo tecnico non appena il Parlamento e i presidenti di Camera e Senato lo avessero richiesto”. In questo caso però il provvedimento sarebbe arrivato attraverso l'ennesimo decreto o - peggio ancora, a livello d'immagine - mediante un emendamento al Ddl anticorruzione. I partiti avrebbero così dimostrato definitivamente la propria totale subalternità al governo dei professori. Ma, soprattutto, avrebbero consentito ai tecnici d'immischiarsi nei propri affari di cassa.
Una prospettiva inaccettabile, perché da questa nuova legge dipende la florida sopravvivenza della politica italiana nei prossimi anni, quando i rigidi montiani saranno solo un ricordo. Una pagina ingiallita e archiviata della nostra storia. Un po' come quella del referendum del '93.
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di Carlo Musilli
Da vigoroso profeta della secessione padana a mesto politicante. Uno dei tanti, beccato con le mani nella marmellata e costretto alle dimissioni. Nel perfetto stile della prima Repubblica. La parabola discendente di Umberto Bossi non poteva chiudersi in un modo più italiano di questo. Proprio lui, l'alfiere celtico del celodurismo leghista, che per vent'anni esatti ci ha assordato con i suoi vaniloqui insostenibili. Xenofobo, razzista, oggi reietto in casa propria.
E adesso? Che ne sarà della Lega? Per il momento le redini passano in mano a un triumvirato: Roberto Calderoli, Roberto Maroni e Manuela Dal Lago. Dopo di che le camicie verdi dovranno affrontare un problema rimandato ormai da troppo tempo, quello del congresso federale (l'ultimo risale al 2002).
I militanti lo chiedono da una vita, ma fin qui i membri del cerchio magico bossiano (Marco Reguzzoni e Rosy Mauro su tutti) sono stati abilissimi a dribblare la questione, per evitare di essere surclassati dall'esercito veneto dei maroniani. Ora però è stata pizzicata anche la buona Rosy, che ha intestato la sua casa in Sardegna al Sinpa, il sindacato leghista da lei diretto. Il cerchio magico non esiste più, la storia è cambiata.
Il congresso dovrebbe tenersi entro l'autunno e con ogni probabilità il futuro segretario sarà proprio Bobo Maroni, lo stesso che è stato insultato in via Bellerio all'urlo di "Giuda traditore!". Ci sono poi molti veneti maroniani che preferirebbero vedere seduto sullo scranno più alto del partito Luca Zaia, l'amatissimo sindaco di Verona. Tutto questo per dare un'idea di quanta coesione ci sia nel movimento leghista.
Prima di tutto, però, al congresso bisogna arrivarci. E non è detto che il triumvirato sia in grado di traghettare il partito così in là, evitando il naufragio. Anche perché fra un mese ci sono le amministrative (con sua maestà Tosi in lizza per la riconferma) e nel frattempo bisogna continuare a fingere di essere all'opposizione. Almeno nell'attaccare il governo Monti, sarà necessario trovare una linea unitaria.
Poi c'è il problema dell'amore-odio con il Pdl. La vera domanda politica che emerge dallo sfaldamento della Lega è questa: che fine farà la principale alleanza che negli ultimi decenni ha tenuto in piedi in centrodestra italiano? Allo stato attuale, il Terzo Polo diventa un alleato indispensabile per i berluscones. Allo stesso tempo Casini & Company potrebbero essere rinfrancati dalla deriva leghista e lasciarsi finalmente sedurre dalle sirene pidielline.
La sensazione è che un ciclo politico si sia chiuso: la Lega, se sopravviverà, non sarà più la stessa. E questo - almeno nello scacchiere parlamentare - è un cambiamento ancora più radicale di quello arrivato con le dimissioni di Berlusconi da presidente del Consiglio.
Il Cavaliere non è più nel cono di luce, ma dall'ombra muove ancora i fili del suo partito. O, per meglio dire, "è" ancora il suo partito, visto che si tratta di una formazione retta interamente dallo strapotere e dalla ricchezza del leader.
La stessa cosa una volta era valida anche per il Carroccio, almeno per quanto riguardava il carisma assoluto del padre-padrone. Da tempo Bossi non è più in questa posizione fra i suoi, e l'uscita di scena definiva è solo il sipario finale sull'ennesima tragicommedia italiana.
C'è da scommettere che Maroni, se e quando prenderà il posto del Senatùr, non sarà più disposto ad ascoltare la voce rauca del vecchio mentore (nonostante abbia garantito - con somma ipocrisia e forse un pizzico di scherno - che se Umberto si candidasse nuovamente come segretario lui sarebbe pronto a sostenerlo). Tutt'altra storia rispetto al rapporto di rigida subordinazione che lega Angelino Alfano all'ex premier.
Il dubbio però è che Bobo abbia aspettato troppo prima di presentarsi al varco della successione. Se avesse avuto un minimo di lungimiranza politica, Bossi si sarebbe ritirato quando ancora gli era possibile recitare la parte del barbaro duro e puro, simbolo del movimento e suo nume tutelare.
Se non l’ha fatto è stato per pura avidità: sua, del cerchio magico e della sua famiglia. Ingenuamente, è rimasto avvinghiato alla poltrona fino all'ultimo istante in cui gli è stato possibile, esattamente come avrebbero fatto i loschi figuri della "Roma ladrona" che ha vituperato per anni.
Ma ora che il leader fondatore viene archiviato nella vergogna dello scandalo, che credibilità rimane alla vecchia guardia per proporsi come nuova guida? Maroni e Calderoli dovranno sostenere di non aver mai saputo nulla di quello che accadeva in tesoreria. A quel punto però i loro elettori saranno indecisi se tacciarli di malafede o di semplice stupidità. Una terza opzione non è contemplabile. Fatte le debite proporzioni, è la stessa trappola in cui è caduto Francesco Rutelli dopo il caso Lusi. Il Pdl questo lo sa e farà di tutto per non farsi trascinare a fondo dai vecchi alleati.
Insomma, le dimissioni del Senatùr potrebbero essere ricordate come una svolta periodizzante nella politica italiana perché rischiano di provocare il riassetto di mezzo Parlamento in vista delle future elezioni politiche. La Lega potrebbe scomparire dai radar per colpa del suo leader padano, che alla fine si è dimostrato troppo italiano. Non un barbaro padano, ma un normale trafficone. Uno dei tanti.
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di Fabrizio Casari
Francesco Belsito si chiama. L’uomo che dovrebbe assumere su di sé tutto l’onere della fine dell’onore leghista è l’ex tesoriere dei lumbard. Accusato di aver versato a più riprese denaro alla famiglia Bossi ed alla sua ombra storica Rosy Mauro, d’intrattenere rapporti con la ‘ndrangheta calabrese, il funzionario leghista è entrato nello stesso film noir di Lusi, l’altro esemplare che si vorrebbe solo a decidere cosa fare dei soldi del partito.
E così come Rutelli e soci si sono sperticati a dire che della movimentazione dei soldi di Lusi nulla sapevano, anche l’uomo della canottiera ha detto no: non centra niente lui con i soldi di Belsito. Né lui né il figlio, denominato “Trota” dal padre in omaggio alla fervida intelligenza di cui dispone. Lo stesso padre che si è perciò premunito di farlo eleggere dove possibile; non solo e non tanto per il proseguimento della stirpe, quanto perché preoccupato che dovesse vivere con le competenze delle quali dispone.
Come uno Scajola qualsiasi, anche Umberto Bossi dice che la ristrutturazione della villa di Gemonio è stata fatta a sua insaputa. Un male ormai classico della politica italiana. Del resto succede sempre così: uno non fa a tempo ad allontanarsi un attimo da casa che qualcuno - gratuitamente e a sua insaputa - gliela ristruttura o, addirittura, gliela compra nuova. Quanti di noi si sono trovati alle prese con questo inconveniente, con questa cattiva comunicazione che scambia il mandato ad annaffiare le piante e a raccogliere la posta con la ristrutturazione della casa?
Insomma è tutta colpa di Francesco Belsito. Che ha dimostrato fantasia imprenditoriale discutibile, come quando investiva milioni di euro in Tanzania e a Cipro e pare mostrare risentimento personale per essere stato messo in disparte dall’Umberto, al quale - sembra- offriva ogni forma di sostegno economico a lui e famiglia per ingraziarselo e tornare in auge nel partito. E allora, secondo l'accusa, via con il denaro per la scuola della moglie, la baby pensionata Manuela Marrone; quindi quello per aiutare il Trota a prendere uno straccio di diploma che, non riuscendo a raggiungere come gli altri milioni di studenti, diversamente sarebbe diventato richiedibile solo per anzianità; e poi le multe di Riccardo Bossi, l’altro figlio, i lavori di casa paterna e persino la sistemazione dei conti di Rosy Mauro, che d’influenza sul capo, com’è noto, ne ha sempre avuta molta. Era questo il cerchio magico?
E nelle indagini degli inquirenti viene coinvolta anche Nadia Dagrada, la segretaria del Senatur. Prima intercettata, poi perquisita e quindi interrogata, la signora pare si lamentasse molto della stravagante famiglia Bossi. Al pm Henry John Woodcock, in nove ore d’interrogatorio ha lasciato intendere di voler dire tutto quello che sa. E se nelle intercettazioni telefoniche non era tenera con i familiari di Bossi, anche nell’interrogatorio avrebbe tenuto il punto: Belsito apriva i cordoni della borsa del partito per ingraziarsi il suo leader. Ma, secondo quello che avrebbe detto la segretaria amministrativa della Lega, mentre Umberto Bossi è sempre stato disinteressato al denaro e ai favori, i figli se ne sarebbero un po’ approfittati.
Le indagini chiariranno ruoli e responsabilità per tutti i protagonisti, mentre i leghisti riuniti sotto Via Bellerio sono in bilico tra rabbia e incredulità, suggestione di complotti e opportunità politica per la resa dei conti interna. Ma avvertono tutti,leghisti e non, che sulla faccia di Francesco Belsito, sulle sue spericolate operazioni e pessime amicizie, così come sulla tempesta che ha investito la famiglia Bossi, finisce la storia breve e nient'affatto gloriosa della Lega.
Era il partito del “celodurismo”, quello dei cappi sventolati in Parlamento, della diversità padana, dell’inflessibilità xenofoba, della secessione burletta e della rivolta fiscale, della Padania onirica e degli sghei, che teneva insieme la Vandea e miss Padania. Ora si scopre invece un altro volto: quello del maneggio del denaro senza guardare troppo per il sottile, che assegna posti nelle banche e nelle fondazioni, negli enti di ogni titolo e grado, che sforna mazzette e ristruttura le case del boss a spese dei contribuenti, che tratta volentieri con i meridionali ma solo se appartenenti alla ‘ndrangheta, che spernacchia la bandiera e mostra il dito medio al paese. Un ricettacolo di furbetti padani beccati con le dita nella casuela. Sarà colpa di Roma ladrona se l’ampolla del Po tracima acqua sporca?