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di Rosa Ana De Santis
Gli operai sono tornati a lavoro. Riparte la ruota dei turni, i blocchi della protesta sono stati smantellati, i cancelli aperti. L’Ilva alle 6.30 del 28 luglio torna a fumare cenere sulla città di Taranto, mentre in una nota congiunta le Acli pugliesi e quelle della città dichiarano insopportabile la “contrapposizione tra vita e lavoro”.
Perché è questo il bivio di fronte al quale si trovano gli operai dello stabilimento, dopo le proteste scoppiate in seguito alle ordinanze di sequestro delle aree a caldo dell' azienda e gli arresti di 8 dirigenti ed ex dirigenti. I lavoratori chiedono sicurezze e garanzie sul loro destino occupazionale, la città di Taranto si interroga sul proprio futuro di sviluppo di fronte ad una possibile chiusura dell’Ilva, ma nel frattempo l’orrore dell’inquinamento ambientale e delle malattie che sbuffano dagli impianti dell’acciaio e uccidono le persone non è cambiato.
Da mesi, con dossier apposito presentato nel mese di aprile alla Camera dei Deputati, è all’attenzione delle istituzioni l’impellenza di bonificare il territorio e adeguare a norma di legge il ciclo produttivo dell’Ilva. Finché finalmente la magistratura fa scattare i sigilli e soltanto oggi scioperi e proteste si fermano in attesa che il ricorso della società contro il sequestro (non ancora esecutivo) faccia il suo iter. Il problema dell’inquinamento e del rischio per la salute umana è di enormi proporzioni e da troppo tempo si propone invano di impermeabilizzare il sottosuolo di Taranto e impedire che le falde acquifere siano contaminate dagli scarti industriali. Quello che i lavoratori e i cittadini di Taranto sembrano costretti ad accettare è un’area avvelenata di 15 milioni di metri quadri completamente fuorilegge che in questi anni ha causato leucemie e linfomi a ritmi vertiginosi.
La strada obbligata e sensata non può che essere quella della riconversione o inizialmente della bonifica del sito dell’Ilva, affinché il diritto occupazionale e quello fondamentale alla salute non si elidano a vicenda, in una contrapposizione che sembra uscita dalla prima rivoluzione industriale europea. Abbattimento delle emissioni delle cokerie tarantine e campionamento continuo della produzione di diossina sono solo alcune delle proposte elementari e minime che arrivano dal mondo della tutela ambientale e dalle associazioni da sempre impegnate su questo fronte di denuncia.
Oggi però la questione deve pienamente rientrare nelle mani delle istituzioni e il ricatto del lavoro non può essere sufficiente a rimandare oltre, come sempre è stato, la questione della salubrità. Un colosso economico di questa portata che sfama 11.700 operai rappresenta un nodo importante da sciogliere - compresa la questione delle prospettive effettive che l’acciaio e il siderurgico italiano può avere ancora sul mercato - ed è forse anche un simbolo.
Per ripartire occorre intanto investire per minimizzare i danni, investire profitti (cosa che la proprietà non ha mai fatto) per tutelare la vita di chi lavora all’Ilva. E ancora una volta (ha ragione l’Italia dei Valori) è la magistratura a colmare il vuoto colpevole delle Istituzioni preposte, mai impegnate a garantire la messa in opera delle azioni di tutela previste. Il protocollo d’intesa raggiunto dai Ministeri interessati, dalla Regione Puglia, dal Comune e dalla Provincia di Taranto, è un primo passo, che ha in sé la grande debolezza morale e politica di essere arrivato in ritardo.
Dev’essere garantito con i fondi pubblici e con quelli padronali il salario agli operai prima e durante l’opera di riconversione, giacché non è possibile scaricare sulle prime vittime l’ulteriore tragedia. Se non per il disastro sociale, per l’omicidio e l’omissione colposa che oggi inchioda uno dei colossi dell’economia nazionale all’accusa di aver avvelenato e ucciso di diossina e di benzoapirene i lavoratori e i cittadini. Seppelliti di tumori (anche infantili) e infarti, ammalati di numerose patologie cardio-circolatorie e respiratorie.
I lavoratori chiedono che non sia chiusa la fabbrica della loro sopravvivenza, li dove sanno bene di lavorare come “morti viventi”. Quello che sui tavoli decisionali era certificato da fiumi di perizie epidemiologiche lasciate a marcire per profitto e per delitto.
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di Carlo Musilli
Delle due l'una: o qualcuno è incompetente, o qualcuno è in malafede. Il classico bivio all'italiana. C'è però un tocco d'inedito surrealismo nel dialogo andato in scena ieri fra il premier Mario Monti e il governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo. A metà pomeriggio una nota di Palazzo Chigi informa che fra i due è iniziato un rapporto epistolare: il Professore, "facendosi interprete delle gravi preoccupazioni" riguardo al possibile crack finanziario dell'isola, "ha scritto una lettera al Presidente della Regione" per avere conferma "dell’intenzione, dichiarata pubblicamente, di dimettersi il 31 luglio".
A stretto giro, la risposta flemmatica: "Ho parlato al telefono con Monti - dice Lombardo - rassicurandolo del fatto che, nonostante le criticità segnalategli, gli rassegnerò tutti gli elementi utili a dimostrare la sostenibilità della finanza regionale. Al Premier parlerò anche della scelta di dimettermi per consentire agli elettori l'esercizio al diritto democratico di scegliere un nuovo governo e un nuovo Parlamento". Il governatore ha chiesto di essere ricevuto a Palazzo Chigi per dare spiegazioni. Detto, fatto: il summit bocconiano-siculo è in agenda per il 24 luglio.
Ora, in gioco non c'è una manciata di spiccioli, ma la possibilità che un'intera regione italiana finisca in bancarotta. Viene da chiedersi come sia possibile che da diverse istituzioni arrivino letture diametralmente opposte su un fatto del genere. A onor del vero, fin qui gli unici a ostentare tranquillità sono gli stessi amministratori della Regione. La Corte dei Conti è invece un tantino più allarmata, visto che nel bilancio siciliano ha certificato un buco da cinque miliardi di euro.
Lo spettro del fallimento quindi c'è, eccome. E ora? Che succede? "Le soluzioni che potrebbero essere prospettate per un’azione da parte dell’esecutivo - continuano da Palazzo Chigi - non possono non tener conto della situazione di governo a livello regionale, ma anzi devono essere commisurate ad essa, in modo da poter utilizzare gli strumenti più efficaci e adeguati". Traduzione: la Sicilia naviga a vele spiegate verso il commissariamento.
Sarebbe la prima volta per una Regione a statuto speciale. E forse proprio quello statuto e la straordinaria autonomia che ne consegue sono stati l'origine di ogni male. La prima conseguenza sembra essere un'ecatombe di sprechi. Tanto per fare un esempio, in Sicilia i dipendenti regionali sono un piccolo esercito: oltre 20mila persone.
C'è poi il capitolo corruzione. Mentre in Italia ancora non riusciamo a varare una legge severa in materia, a Bruxelles sembra proprio che questa storia degli appalti sospetti non vada giù. Perciò pochi giorni fa l'Europa ha bloccato circa 600 milioni di fondi comunitari destinati proprio alla Sicilia.
Ma non basta. Lunedì Ivan Lo Bello, vicepresidente della Consindustria siciliana, ha denunciato in un'intervista al Corriere della Sera una prassi un po' allegra nella chiusura del bilancio isolano, "reso non trasparente da poste dubbie e residui inesigibili". Con questa espressione si fa riferimento a presunte entrate fantasma, crediti addirittura per 15 miliardi che cancellerebbero ogni problema, ma di fatto sembrano impossibili da incassare.
Di certo Lombardo saprà trovare una spiegazione plausibile ad ognuna di queste voci. Ma forse è utile precisare che le sue imminenti dimissioni non hanno a che vedere con il rischio crack. Il Presidente aveva già annunciato l'addio a causa dei guai giudiziari che lo tormentano (è indagato dalla Procura di Catania per concorso esterno e voto di scambio politico-mafioso) e dopo il ritiro del sostegno in aula da parte del Pd.
Un vero peccato, perché fino a oggi Lombardo era il Warren Buffett dei governatori italiani. Forse non il più ricco, ma sicuramente quello con lo stipendio più alto: 15.683 euro netti al mese. Fra i benefit, anche un appartamento messo a disposizione dalla Regione. A suo tempo il Presidente siciliano aveva definito questo trattamento principesco "appena decente, tenendo conto dei rischi e delle responsabilità che affronta un governatore", aggiungendo poi che "se dovessero rapportarlo al lavoro che faccio, minimo dovrebbero triplicarlo". Invece lo hanno azzerato.
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di Carlo Musilli
Il ritorno in campo di Silvio Berlusconi non ha un prezzo solo per Angelino Alfano. Mentre il delfino abbandona ogni velleità di leadership (reale o apparente che fosse), la notizia che il Cavaliere intende ricandidarsi alla poltrona di premier nel 2013 si riflette inevitabilmente sul mercato. E rischia di aggravare l'instabilità dell'Italia proprio in uno dei momenti più delicati e pericolosi per il governo Monti.
La partita politica si gioca sul terreno della campagna elettorale. Sono già iniziate le scommesse su quali colpi di scena arriveranno stavolta da Arcore. In ballo non c'è solamente la tenuta dell'attuale esecutivo: il vero nodo è quello delle future alleanze. Gli ultimi sondaggi danno in testa il Pd, poco sopra il 25%, seguito dal Pdl con il 20% circa. Il Movimento Cinque Stelle si attesta intorno al 15%, l'Udc al 7% e la Lega al 5,5%. In uno scenario simile, i pidiellini sono costretti a trovare qualcuno che li sostenga. Pier Ferdinando Casini ha già chiarito che la vecchia alleanza con i berluscones è sepolta, sentenziando che "i moderati sono altrove". Il leader dell'Udc è evidentemente più interessato a costruire un ponte verso il Pd.
A Berlusconi non rimane quindi che tentare di ricucire lo strappo con la Lega. Per navigare in questa direzione, il Cavaliere potrebbe puntare su una qualche forma di propaganda anti-euro. Ed è proprio questo a spaventare i mercati. Non più tardi di un mese fa, il leader del Pdl aveva accennato all'ipotesi che l'Italia uscisse dalla moneta unica. Lo aveva fatto a modo suo, tra il serio e il faceto. Ma era bastato a creare scompiglio, strizzando l'occhio a tutta l'opinione pubblica esasperata dall'austerity montiana e dalle imposizioni di Bruxelles. Domenica Alfano è però stato costretto a chiarire che, malgrado l'euro "abbia un problema enorme", la crisi non si risolve con l'uscita, ma con "maggiori poteri alla Bce".
Intanto dalla Lega arrivano segnali poco incoraggianti per il Pdl. Matteo Salvini, il segretario lombardo, non ha dubbi: "Silvio è il vecchio, se corre ancora lo fa senza la Lega". Roberto Maroni non lo smentisce, ma si produce in un'analisi ben più sfumata. Per il neo segretario del Carroccio, il nuovo passo avanti di Berlusconi non è una scelta definitiva, perché "se davvero avesse avuto in mente di ricandidarsi, l'avrebbe fatto a settembre, non adesso. In ogni caso - conclude Maroni - non sono affatto preoccupato. Le alleanze sono l'ultimo dei miei problemi".
Tutto questo surplus d'incertezza, oltre ad offuscare le prospettive per il futuro, arriva anche a pochi giorni da agosto, mese in cui i mercati sono particolarmente volatili e la speculazione si fa di solito molto più vorace. Consapevoli del pericolo in agguato, all'Eurogruppo del prossimo 20 luglio i leader europei potrebbero dare il via libera non solo allo scudo anti-spread, ma anche a una sorta di cabina di regia permanente per interventi d'urgenza contro gli speculatori.
Fin qui, la prima bastonata estiva all'Italia è arrivata però da Moody's. Venerdì l'agenzia ha abbassato di due livelli la valutazione sui nostri titoli di Stato (scesa da A3 a Baa2, solo un paio di gradini sopra la "spazzatura") e nel motivare il downgrade ha messo in primo piano proprio il fattore politico. Dalle elezioni della prossima primavera - dicono gli analisti - potrebbe emergere un quadro troppo frammentato per creare una maggioranza realmente in grado di governare.
Su Moody's si è abbattuto come sempre un diluvio di risposte al veleno. Gli attacchi sono arrivati non solo dall'Italia (il ministro Passera ha parlato di "giudizio ingiustificato e fuorviante"), ma anche da Bruxelles, che ha espresso dubbi sul "timing inappropriato" del declassamento, arrivato guarda caso a poche ore da un'importante asta di Btp.
Per fortuna le preoccupazioni dell'agenzia non hanno condizionato il collocamento. Il Tesoro ha venduto titoli con scadenza a luglio 2015 per complessivi 3,5 miliardi, massimo ammontare previsto, e i tassi sono scesi dal 5,30% al 4,65%. Insomma, è andata bene, ma soprattutto perché ormai i compratori alle aste sono quasi tutti domestici.
Lo si intuisce dal contrasto con lo spread, che rimane altissimo: intorno ai 480 punti. Non poi così lontano dal massimo storico di 575 toccato lo scorso novembre. E allora qual è la differenza fondamentale da quando Berlusconi non è più premier? "La curva dei rendimenti dei nostri titoli è completamente diversa - ha spiegato il neo ministro dell'Economia, Vittorio Grilli, in un'intervista al direttore del Corriere della Sera – aggiungendo che prima, quelli a breve erano superiori a quelli a lungo termine, segno che per l'Italia l'accesso ai mercati si stava chiudendo. Oggi accade il contrario. I tassi a breve sono più bassi di quelli a lunga. Ancora troppo elevati, però". E se non calano è colpa anche della politica.
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di Rosa Ana De Santis
L’Assemblea nazionale del Partito Democratico si è trasformata in una bagarre e ancora una volta il partito di riferimento della sinistra italiana ha mostrato tutta l’inconsistenza della propria identità. Dopo gli ammiccamenti a Monti e alle scellerate manovre di risanamento, già sufficienti a sollevare perplessità sulla collocazione politica e culturale del partito, persino sui diritti civili il Pd riesce a non esprimere una posizione unanime e autenticamente progressista, riciclando il peggiore conservatorismo democristiano. Si spacca in due, tra cattolici e non sulla questione del matrimonio gay.
La presidenza dell'assemblea infatti ha deciso di non sottoporre al voto un ordine del giorno sui matrimoni omosessuali perchè precluso da un documento (già votato) messo a punto dalla commissione per i diritti del Pd in cui si parla di diritti individuali, ma non si vuole parlare di unioni civili. Il segretario Bersani ha un gran da fare a spiegare ad una platea indignata che i cambiamenti sociali sono lente evoluzioni, che il Pd sta lavorando con serietà alla materia e che siamo all’inizio del percorso.
Le defezioni e le minacce di abbandonare il partito aumentano. La Bindi, presidente dell’Assemblea, non ha altro da dire se dispiacersi per quanti decidessero di portare avanti determinate battaglie in partiti minoritari. I matrimoni gay non sono previsti dalla Costituzione e questa basterebbe a spiegarne l’assenza nel documento finale messo ai voti. E invece la scelta di non “metterci la faccia”, di non portare all’attenzione del proprio elettorato e delle forze politiche una proposta chiara in questa direzione sembra essere piuttosto un’autentica presa di posizione.
Quella dei cattolici facenti capo all’area della Bindi che da sempre tengono in scacco il Pd impedendo una emancipazione profonda del partito dai retaggi cattolici e allontanandolo pericolosamente dalle forze politiche progressiste europee. E così con un segretario in panne tra proclami sempre più liquidi si alzano barricate sempre più grandi tra i Bindi e Fioroni da un lato e gli Ignazio Marino e Concia dall’altro. Il tecnicismo copre una vera e propria discordanza che su un tema tanto cruciale e dirimente non può essere definita una “bega interna” come Bersani prova a fare.
Su quelle che assomigliano alle ceneri del Pd si scatena l’Italia dei valori che chiama a raccolta tutti quei partiti, da Sinistra e Libertà al Movimento a Cinque Stelle, favorevoli al matrimonio tra omosessuali. Persino Fini è ormai avanti al Pd e Berlusconi, se il Pdl non fosse invaso da alcuneesternalizzazioni del Vaticano, lo sarebbe altrettanto.
La tesi del partito aperto alle contestazioni, che può ancora essere sufficiente a placare le intemperanze di Renzi e dei giovani, sui diritti individuali fondamentali scricchiola un po’ troppo per essere credibile. Perché su questo passa il riconoscimento e l’autoriconoscimento di un’identità. Quella che il Pd, aperto al futuro, ma inchiodato alla morale democristiana, vicino ai lavoratori ma alleato fedele di Monti-Fornero, è evidente che non ha più.
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di Fabrizio Casari
La sentenza della Corte di Cassazione che ha comminato pene pesantissime nei confronti di alcuni dei giovani protagonisti degli scontri del G8 a Genova ha stupito e indignato buona parte dell’opinione pubblica. E’ una sentenza priva dei criteri di equità, proporzionalità e ragionevolezza che rappresentano l’essenza di un dispositivo giusto. E non ci sono solo pene pesantissime in rapporto ai reati addebitati e a 11 anni di distanza ma, per colmo d’iniquità, c’è l’evidente discrepanza con l’assoluzione per i poliziotti protagonisti di comportamenti ben più gravi in quelle ore.
I reati di devastazione e saccheggio e le aggravanti con le quali la Corte ha esteso ai massimi livelli possibili di sanzione le condanne ai no-global sbattono violentemente contro la magnanimità con la quale non si è proceduto per lesioni personali gravissime contro i protagonisti in uniforme della macelleria cilena di quelle ore nel capoluogo ligure. Ci sono stati poliziotti a volto coperto che hanno devastato e seviziato esseri umani, non rotto vetrine e non hanno scontato, ne sconteranno, un solo giorno di carcere.
Si ha un bel dire che, grazie ad un escamotage politico, l’assenza del reato di tortura nel Codice Penale italiano avrebbe impedito una condanna per chi in quei giorni, ignorando e diffamando la stessa divisa che indossava, ha commesso ogni sorta di reato contro le persone, accanendosi con violenza inaudita ed illegale contro soggetti inermi, per i quali i loro superiori, come affermato dalla stessa Cassazione, hanno costruito prove false per giustificare la carneficina commessa.
Si può condividere o meno la scelta di accettare lo scontro di piazza come forma dell'agire politico. Ma devastazione e saccheggio sono reati assimilabili a scene di guerra e non a momenti di scontri di piazza. Davastazioni e saccheggio sono i termini tipici per identificare i comportamenti criminali degli eserciti invasori. Quanto verificatosi a Genova, come in ogni scontro di piazza, da sempre, è del tutto diverso da “devastazione e saccheggio”, reati ereditati dal fascismo e ancora esistenti grazie alla vigenza del Codice Rocco che del fascismo rappresentò l’impalcatura giuridica con la quale comminare repressione permanente verso ogni forma di dissenso.
E comunque, la sproporzione delle pene in ordine ai reati la si può facilmente ricavare anche dalla constatazione di condanne inferiori per reati ben peggiori, quale omicidio, rapina a mano armata e perfino con finalità di terrorismo o associazione mafiosa regolarmente comminate negli ultimi venti anni.
Quelle comminate dalla Cassazione assumono quindi, con ogni evidenza, la valenza di sentenze esemplari. Non si può infatti non vedere come questa sentenza sia soprattutto “politica”. Un’indicazione di assoluta intolleranza per ogni forma di conflitto sociale, che sparge sentenze liberticide su chi si rende protagonista di episodi di ribellione, anche violenti, mentre assolve (e dunque in qualche modo incita) le forze dell’ordine chiamate a reprimere le proteste.
Lo fa mettendone al sicuro le responsabilità penali anche grazie all’assenza del reato di tortura e alle pende blande previste per abuso di autorità ed uso sproporzionato della forza. Per gli agenti autori di reati gravissimi la prescrizione, per le vetrine rotte le condanne esemplari. Pene tombali da un lato, impunità totale dall’altro.
L’impressione, difficile da fugare, è che la pesantezza sproporzionata delle pene comminate ai no-global somigli in qualche modo ad un gesto riparatorio verso la polizia, condannata nei suoi livelli più alti pochi giorni orsono proprio per quanto successo a Genova. Appare così una sorta di “riequilibrio politico” della sentenza di una settimana prima che, con pene decisamente più lievi, aveva comunque avuto il merito di sanzionare formalmente i comportamenti delittuosi di alti funzionari dello stato durante le ore del G8.
A leggere le due sentenze si colgono quindi due elementi chiari. Il primo è che tra civili e forze dell’ordine esiste una asimmetria di giudizio circa la legittimità e le conseguenze del loro operato. Il secondo è che le vetrine rotte sono più gravi di ossa rotte a persone inermi . Un bancomat e una vetrina rotta, in una simbologia che atterrisce, meritano sanzioni maggiori che un uomo selvaggiamente picchiato. La “roba” vince sugli esseri umani.