di Rosa Ana De Santis

L’anniversario della strage alla stazione di Bologna, il 2 agosto,  si tira dietro nella memoria un fitto e arcinoto calendario di carneficine per le quali invano si cercano ancora i veri colpevoli. Il ricordo di quegli oltre 20 kg di esplosivo e della feroce deflagrazione, che il primo ministro dell’epoca riuscì ad addebitare in un primo momento all’esplosione di una caldaia, arriva nei giorni bollenti delle indagini delle procure siciliane sulla trattativa Stato mafia, del ricorso del Quirinale contro i pm e delle polemiche scatenate contro l’uomo di punta di questa fase giudiziaria, il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia.

Il denominatore comune italiano di vicende all’apparenza lontane è che sia sempre esistito e sia sempre rimasto immune dalla mano della giustizia  un piano di responsabilità e di moventi che poco hanno a che vedere con i cani sciolti protagonisti della cronaca spicciola, piuttosto con la politica del palazzo e non solo. Quel perimetro che ha chiuso insieme in tanti momenti importanti della nostra storia - a rischio di contiguità e contagio - servizi, Stato e mafia in nome della sicurezza nazionale, come recita la ragion di stato o della più pericolosa garanzia di immunità per gli amici degli amici.

La convivenza tra lo Stato e la mafia rappresenterebbe, questo sta emergendo dalle indagini,  una specie di asse portante e invisibile del paese Italia e della sua storia e questo ben prima che Andreotti diventasse l’icona più spendibile di questa machiavellica convivenza. Ci sarebbe addirittura un vero e proprio peccato originale sulla nascita della prima Repubblica, con lo sbarco degli alleati facilitati anche dalle cosche mafiose del Sud, a spiegare la troppa clemenza e le troppe sviste che hanno tutelato per anni boss e capi mafia. Un benefit, come giustamente lo chiama Belisario dell’IdV, componente del Copasir, che deve essere espiantato dalla real politik nazionale.

La seconda fase della trattativa sarebbe partita nei giorni tra Capaci e Via D’Amelio e sarebbe stata intrapresa proprio da uomini di Stato per porre fine alla sequela di vittime tra magistrati, giudici e forze dell’ordine e superare il clima di pericolo e instabilità che attraversava il paese. La morte di Borsellino, e le sue azzeccate impressioni e testimonianze sull’isolamento dei suoi ultimi giorni di vita, sarebbe avvenuta forse proprio per eliminare chi, come lui,  mai avrebbe armato “patti” di convivenza con i nemici dello Stato. L’ultimo ostacolo per arrivare al “quieto vivere” che ancora ci accompagna.

Ed è proprio mentre si concentrano su questo le indagini che arriva il ricorso del Quirinale per conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato contro la Procura di Palermo. Il ricorso verte sulla mancata distruzione delle intercettazioni delle telefonate del Capo dello Stato con l’allora ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino, indagato per falsa testimonianza nel quadro dell'inchiesta.

Il piano formale, in effetti impeccabile, cui si appella Napolitano per tutelare le prerogative attribuitegli dalla Costituzione e non avallare pericolosi precedenti, ha raccolto solidarietà e sostegno da tutto il mondo politico. E se la formalità invocata è impeccabile, certo è che distruggere quelle intercettazioni può significare rallentare se non ostacolare la verità giudiziale. La Procura di Palermo, per voce di Ingroia, di fronte a questa azione e alle polemiche seguitegli, promette di fermarsi solo in caso che ci sia una ragion di stato uber alles a imporre lo stop alle indagini.

Invocare la ragion di stato, che è argomento tutto politico e ben diverso dal segreto di stato, significa insinuare e lasciare alla politica tutta la responsabilità e la colpa davanti ai cittadini per non aver cercato abbastanza la verità. Il procuratore di Palermo anticipa sui giornali, con astuzia, i suoi detrattori; forse perché sa più di quello che dice e conosce già su quali limiti si infrangerà il lavoro delle procure siciliane.

Quelle che in ogni caso non si fermano, anche se la sua prossima partenza per il Guatemala verso altro incarico in seno alle competenze ONU,  suona come un indebolimento del fronte giudiziario e un po’ come un abbandono. Non perché l’inchiesta si identifichi con un uomo, come si difende il procuratore, ma perché andar via in attesa di verità, lascia a tutti la scarsa fede di vederne mai una. Che dovrebbe squarciare il velo che da Portella della Ginestra fino ai giorni nostri ha coperto come un sudario l’ansia di democrazia nel paese delle stragi impunite e delle verità nascoste.

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