di Silvia Mari 

Sembra che dal Tempio di Adriano, a Roma, da dove Bersani ha presentato la Carta degli Intenti del partito per un accordo programmatico tra democratici e progressisti, emerga soprattutto il desiderio di ricordare all’elettorato del centro sinistra che il Pd esiste ancora. Improvvisamente uniti sul riconoscimento civile delle coppie gay e in prima linea a voler risolvere il dramma degli esodati, il Segretario ribadisce in ogni caso l’appoggio totale al governo Monti. Una mossa che vede difficile, tanto per cominciare,  un qualsiasi consenso con Sinistra e Libertà di Vendola, ad esempio, e con tutto l’elettorato di sinistra e tutto il mondo del lavoro e del sindacato che alla manovra Monti oppone una strenua resistenza.

Si parla di alternativa alle destre, ma non di alternativa alle banche. Quelle che finora insieme ai grandi patrimoni e alle rendite sono rimaste fuori dal rastrellamento fiscale che ha colpito invece i ceti medio-bassi della popolazione. Un gran coraggio quello di auspicare e declamare una politica fiscale orientata a punire gli evasori e a tassare i lussi, mentre si promette appoggio incondizionato a chi proprio questa politica per scelta, e non per distrazione,  non ha avviato.

Da Monti ai diritti civili, alla cittadinanza per i figli degli immigrati, il Pd non ci racconta nulla di nuovo se non quello di giustificare i propri inciampi, le contraddizioni e il pesante monito ottenuto dalle ultime tornate elettorali,  con la tesi “del proprio passo e dei propri tempi”. Un po’ poco per persuaderci che Renzi sia solo un sindaco eretico al partito, che le divisioni sui diritti civili saranno superabili con il tempo, anche se originate da distanze siderali e di concetto sulla morale e sul senso del liberalismo, che si chieda il voto agli operai mente si plaude alla riforma Fornero.

Altra pagina interessante quella della riforma elettorale sulla quale Bersani, rispondendo alla nota ufficiale del Capo dello Stato che invita a tornare ad un confronto tra partiti e non ai colpi di maggioranza, risponde con la proposta del sistema proporzionale con sbarramento al 5% ma con una teoria delle preferenze, dei collegi e del premio di maggioranza che lascia al Pdl una versione più democratica del suffragio. Per ora Bersani se la cava tirando fuori dal cilindro la tesi dei costi: il voto a preferenza ha maggiori oneri e rischi di quello basato sui territori, però il cittadino - ribadisce il Segretario “ha diritto a scegliere il proprio parlamentare”.

Siamo alle solite. Si verbalizza la democrazia, la difesa dei posti di lavoro, un sistema fiscale finalmente equo, ma si fa politica in un altro modo. Come se il tergiversare di veltroniana memoria e la tesi del “ma anche” fosse stato adottato come metodo reale dal partito o come scusa per occuparsi prima che dei problemi effettivi sul tappeto, della propria identità. Per sopravviversi.

Gareggiando con il Pdl ad essere in prima linea pro-Monti, impegnando risorse e tempo a gestire le fronde interne e le spaccature insanabili sui diritti civili. Per ricordare a se stessi, prima che al popolo di sinistra, che il Pd voleva essere la stella dei progressisti e vincere le destre al voto. Ma è riuscito a battere Berlusconi grazie all’autoeliminazione del Cavaliere, a diventare maggioranza senza passare per le urne e a tradire il mondo del lavoro con il dogma, comodo ai poteri forti, dell’Eurozona.

Gli intenti ufficiali proclamati da Bersani servono non tanto a tracciare la distanza tra il comizio e la politica reale del Pd, ovvero ad individuare la grande colpa dell’incoerenza, quanto a misurare quella dell’inconsistenza. Tutte quelle profonde contraddizioni che a partire dalla teoria politica cui il partito s’ispira non promettono nulla di buono sulle azioni. Come chiudere questo patto e rendersi alternativi alla destra, rimanendo al fianco di Monti, non è dato sapere perché non è chiaro nelle idee, prima ancora che nei fatti.

La questione in ballo, garbatamente elusa finora, per la quale sarebbe urgente una seduta plenaria del Pd a ranghi completi, è l’identità dei democratici. Sarà che essere progressisti e di sinistra non può significare tutto e il contrario di tutto e che, come gli elettori hanno già capito, ogni porto è sbagliato, per mutuare il monito di Seneca, se non si decide dove andare.

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